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Arte come mezzo di riflessione sulla documentazione demo-etno-antropologica dei conflitti. “A Needle in The Binding”
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2024 @ 03:21 In Cultura,Società | No Comments
di Linda Armano, Beatrice Catanzaro
«I recall that a detainee narrated for us the story Les Miserables by Victor Hugo, in several chapters. He used to narrate one chapter a day until he finished the story after two weeks. We used to wait anxiously every day for the nighttime to listen to a new chapter. We all felt as if “Jean Valjean” the hero of the novel, was living among us. The last night we were so sad, as “Jean Valjean” was leaving our detention centre, knowing that we were never to meet him again. And when the moment of separation arrived, a sorrowful silence fell upon us all». (by Khalil Ashour – a Palestinian political prisoner from 1970 to 1982).
Il mondo contemporaneo è saturo di militarizzazione. Le forze materiali e ideologiche della guerra permeano le vite collettive e le relazioni ecologiche degli umani e dei non umani che sopravvivono alle devastazioni della “guerra convenzionale” e di coloro che vivono attraverso le violenze quotidiane di una pace relativa (Guarasci, Kim 2022). L’incremento delle ricerche antropologiche sugli aspetti nascosti della guerra ha esteso l’attenzione etnografica oltre la guerra stessa e ha cominciato ad includere anche quelle forme di guerra che non sono spesso riconosciute politicamente come tali e che si manifestano negli aspetti materiali e nelle relazioni affettive.
Sebbene soprattutto gli storici abbiano esaminato i campi di battaglia e i paesaggi alterati dalle attività e dalle tecnologie militari (Woodward 2014), gli antropologi tendono ad applicare un approccio che considera gli intrecci essenziali di guerre ed ecologie comprendendo, nelle loro analisi, scale che si estendono sopra e sotto i siti di conflitto (Smith 2017). Questi studi hanno quindi cominciato a produrre riflessioni diverse che spaziano dal rapporto tra violenza e risorse ambientali (Peluso e Watts 2001), alla ricaduta radioattiva delle armi nucleari (Masco 2006), alla lenta violenza delle mine terrestri e dei defolianti chimici (Nixon 2011; Henig 2012; Stoler 2008), alle rovine affettive dei paesaggi (post)bellici (Navaro-Yashin 2012) e ai militarismi quotidiani (Kaplan 2020), oltre che sull’interrelazione tra la guerra e la conquista dei territori (Guarasci, Kim 2022). Soprattutto quest’ultima inestricabilità ha una lunga storia che richiede un’attenta valutazione critica non solo dei periodi in cui la guerra e la conquista di nuove terre vanno di pari passo, ma anche del passato della disciplina antropologica.
In tal senso, Bridget Guarasci ed Eleana Kim (2022) assumono che l’origine dell’antropologia europea derivi da una branca della storia naturale caratterizzata dall’emergere della scienza illuminista e dall’appropriazione violenta di territori, culture e popoli. Come notano le studiose, questa connessione tra potere marziale ed epistemologie universalizzanti si è replicata su un nuovo terreno nel periodo delle guerre mondiali del Novecento, quando la “grande scienza” diffuse il concetto di una gerarchia razziale a livello globale.
Tra il 1914 e il 1918, per esempio, gli antropologi tedeschi condussero il loro lavoro nel mezzo di una guerra su vasta scala in cui la disciplina era ancora relativamente nuova nel mondo accademico tedesco. Mentre la guerra modellava l’ambiente istituzionale, ideologico e contestuale del lavoro antropologico, molti antropologi si piegarono ad uno sforzo nazionalista interessato principalmente agli studi scientifici sulla razza. All’interno di tale scenario, gli antropologi utilizzavano anche le fotografie di prigionieri come mezzo per costruire un “altro” razziale e coloniale nel contesto della guerra. Questo modo di procedere non fu esente da processi di propaganda che spinsero gli antropologi a catturare e a definire composizioni razziali dei prigionieri attraverso l’obiettivo della macchina fotografica che, oltre a razzializzare il nemico, enfatizzavano anche il presunto potere e la coesione tra Stati imperiali e colonizzatori.
Coinvolta nel nazionalismo del tempo di guerra, una nuova generazione di antropologi cominciò a ritrarre i nemici politici del Paese come razzialmente diversi. Dopo la fine della guerra, l’importanza attribuita alle concezioni e alle categorie razziali continuò a persistere, aprendo la strada alla politicizzazione della ricerca scientifica negli anni dell’ascesa del nazionalsocialismo (Evans 2010).
Oggi la guerra e i suoi vari rapporti ecologici continuano ad essere mobilitati discorsivamente e materialmente per camuffare interessi politici ed economici egemonici che naturalizzano la sovranità da parte di Stati attenti a inquadrare spazi militarizzati come luoghi strategici da difendere (Kim 2022; Guarasci 2015). All’interno di questo scenario, alcuni studiosi si sono focalizzati anche su pratiche che apparentemente sono lontane da conflitti aperti e che richiamano forme di conflittualità nascoste, come per esempio il greenwashing aziendale e governativo (Büscher 2014).
Il contributo più rilevante dei più recenti studi antropologici sulla guerra studia non solo gli effetti sociali, economici, politici dei conflitti armati e della militarizzazione, ma anche la geopolitica e le infrastrutture sociali e materiali del militarismo. Ciononostante, esistono ancora zone d’ombra che rimangono troppo spesso nascoste e che quindi sono poco esplorate dal discorso pubblico ed accademico ma che sarebbero necessarie per comprendere ulteriori processi provocati da elementi di conflitto nella loro interrelazione con le vite umane.
Se gli studi antropologici sulla guerra continuano comunque a prestare attenzione soprattutto agli impatti dei conflitti sulle società, è ancora pressoché inesplorata la relazione che la guerra può istituire con la produzione di beni culturali. Alcune ricerche hanno approcciato dei tentativi indagando, per esempio, pratiche di folklore associato a gruppi militari. Alcuni esempi sono i canti delle cadenze militari della battaglia e della sconfitta dei nemici i quali, dal punto di vista bellico, venivano usati per consentire un movimento ordinato dei soldati da un luogo di battaglia a quello successivo, nonché per aumentare il morale delle truppe e instillare paura nei nemici esaltando retoricamente la forza del proprio esercito. Dai canti dei soldati si sono registrativi significativi slittamenti del testo nei canti di miniera in cui si descrivono le condizioni simili vissute dal minatore e dal soldato in trincea. Un esempio è il canto che segue che sembra all’origine dell’incipit di un canto della Seconda Guerra Mondiale:
In particolare, le esperienze di miniera e di guerra sono percepite come manifestazioni eccezionali, extra quotidiane, precarie, spaesanti e relativamente limitate nello spazio e nel tempo (Armano 2018).
Nel tentativo di dare un contributo a queste riflessioni, il presente contributo intende utilizzare un approccio interdisciplinare, mettendo in dialogo un lavoro artistico e una analisi antropologica sul conflitto e sui relativi stati di prigionia, ma anche sugli effetti che questi stati di detenzione possono avere nello sviluppo di nuove pratiche di creazione e conservazione di beni culturali. Nello specifico, prendiamo le mosse da un’attività svolta dall’artista italo-svedese Beatrice Catanzaro in occasione di una residenza artistica in Palestina nel 2009. In particolare, il lavoro da lei svolto riguarda una catalogazione di libri conservati presso la Biblioteca Municipale di Nablus in cui i detenuti palestinesi disegnavano immagini e scrivevano appunti sui libri.
Questo lavoro rappresenta un’importante testimonianza di un periodo storico che parte dalla fine degli anni Sessanta in cui un gran numero di palestinesi furono incarcerati, come prigionieri politici, in centri di detenzione israeliani. Oltre a contestualizzare il periodo storico-culturale di questi imprigionamenti, di seguito sono riportate alcune annotazioni di campo di Beatrice Catanzaro durante il suo lavoro nella ‘Sezione dei libri dei prigionieri’ della Biblioteca Municipale di Nablus in Cisgiordania. Traendo ispirazione da queste note, il presente contributo ci invita a riflettere sulle interconnessioni tra conflitti e pratiche di conservazione della memoria che possono dare luogo, attraverso la raccolta di immagini di volumi abbandonati, a progetti di rivalorizzazione culturale in riferimento a gruppi emarginati.
A Needle in The Binding. Possibilità per un progetto di valorizzazione dei beni etno-antropologici
A partire dal 1967 fu proibito ai detenuti palestinesi di scrivere in carcere. A loro era permesso di scrivere lettere di sole dieci righe alle loro famiglie. Qualora avessero superato anche solo di una parola lo spazio consentito, l’amministrazione penitenziaria stracciava la lettera. Questo aspetto tendeva a creare una cesura, materiale e simbolica, più o meno marcata tra il contesto interno e la realtà esterna al carcere attraverso un ridimensionamento delle relazioni comunicative che venivano controllate dall’amministrazione. Questo processo consentì però ai detenuti di costruire tra di loro particolari rapporti grazie ad una circolazione, interna al carcere, di volumi conservati nella biblioteca carceraria. All’interno di questi libri i prigionieri annotavano segretamente fatti di vita quotidiana, avvenimenti di cronaca e notizie su eventi politici internazionali. In questo modo, i libri diventavano codici costruiti grazie ad un repertorio di simboli che rimandavano a significati e che si configuravano all’interno di modelli culturali propri del carcere. Interpretati in questo modo, i volumi erano come contenitori di idee attorno ai quali ruotava lo spirito di una “cultura di detenzione” dei prigionieri politici palestinesi. Essi erano quindi strumenti di classificazione di un determinato mondo e di un particolare periodo storico. In altre parole, i libri assumevano, nel contesto carcerario, una forza illocutoria che consentiva un “agire sociale” che aveva una propria efficacia nel riprodurre relazioni tra i detenuti. Di seguito sono riportati alcuni appunti di Beatrice Catanzaro nel periodo della sua permanenza a Nablus che contestualizzano il suo lavoro con i detenuti palestinesi:
I diversi libri, sui cui dorsi erano scritte frasi in una varietà di lingue diverse, dall’arabo all’inglese, dal francese allo spagnolo, erano accostati tra loro uno dopo l’altro. La Bibbia in versione inglese era, per esempio, accanto al libro sulla Grande Rivoluzione Americana del 1776 e il Diario di Anna Frank si trovava vicino a Orientalism di Edward Said (1978). Sugli scaffali c’erano tomi di teoria economica, sottili volumi di poesia, romanzi logori, libri di testo di matematica e fisica, opere classiche di filosofia e storia e molto altro ancora. Accanto a questi libri, c’erano quaderni con annotazioni, scarabocchi e disegni personali soprattutto di personaggi pubblici. Tutti questi volumi, che per decenni affascinavano i cuori e le menti di prigionieri palestinesi, costituiscono ora, dopo la chiusura delle due strutture di detenzione militare israeliane nel 1996, un corpus di preziosi documenti. La cura della conservazione dei libri e le testimonianze dei prigionieri in essi raccolte, hanno quindi consentito di aprire un nuovo progetto di costruzione di una biblioteca. Il processo preliminare di realizzazione di tale progetto è raccontato nelle note di Catanzaro:
Nella prigione si era consolidata una vera e propria pedagogia carceraria informale. Ad insaputa delle guardie, tutti i detenuti analfabeti erano aiutati dagli altri prigionieri ad imparare a leggere e a scrivere. Alcuni di questi detenuti precedentemente analfabeti divennero poi dei giornalisti famosi, oppure poeti, altri diventarono attivisti, si iscrissero all’università oppure ebbero l’opportunità di diventare rappresentanti dell’Autorità Palestinese. I detenuti alfabetizzati leggevano ai compagni un capitolo al giorno di noti romanzi e le persone aspettavano con ansia il racconto del capitolo successivo.
Quando un prigioniero usciva dalla prigione, il resto della comunità carceraria sentiva di perdere un compagno in quanto sapevano che non lo avrebbero mai più rivisto. Beatrice Catanzaro continua affermando che:
Grazie ai racconti di Khalil, per lo più incentrati sulla prigione di Asqalan, sappiamo anche che nel carcere di Biet Led l’amministrazione penitenziaria concesse, nel 1972, tre permessi importanti. Il primo fu la possibilità di far entrare in prigione il quotidiano, pubblicato in inglese, “Jerusalem Post”. I detenuti che parlavano inglese potevano tradurre gli articoli e le notizie rilevanti agli altri prigionieri. Il secondo riguardava la distribuzione di libri israeliani che spiegavano e difendevano il movimento sionista, il diritto ebraico in Palestina e che parlavano di organizzazioni palestinesi terroriste destinate a fallire.
Gli ex detenuti, raccontava Khalil, affermavano che queste informazioni servissero ad instillare nei prigionieri una visione israeliana in riferimento alla relazione con i palestinesi. Il terzo aspetto concesso nel carcere di Biet Led riguardava la possibilità per le famiglie di ogni detenuto di acquistare due libri al mese dietro l’approvazione della amministrazione della prigione. I libri dovevano però essere riconsegnati quando il prigioniero veniva scarcerato oppure trasferito. Grazie a quest’alto numero di libri venne quindi fondata la prima Biblioteca nel carcere di Biet Led. Beatrice Catanzaro annota inoltre che:
Conclusioni
Nel tentativo di “far parlare le cose mute” (Sorgoni, Viazzo 2012), il progetto della costruzione di una nuova biblioteca in cui conservare i volumi maneggiati dai detenuti palestinesi, ci invita a riflettere su come gli eventi conflittuali possano intersecarsi anche con discorsi sulla conservazione del patrimonio culturale e come, da tale interconnessione, possano emergere nuove possibilità progettuali artistiche e storico-antropologiche. In questo modo, il corpus dei documenti si dilata ad abbracciare la storia dei soggetti che fino ad allora era stata ignorata consentendo anche di porre nuove domande sia ai testimoni sia alle loro testimonianze.
L’aspetto più interessante del lavoro di Beatrice Catanzaro è stato quello di aver raccolto un corpus di testi e catalogato le immagini e le annotazioni dei prigionieri palestinesi disegnate e scritte all’interno dei libri. La catalogazione di queste immagini, grazie ad una documentazione fotografica effettuata dall’artista, ci consente di trattarle sia come rappresentazioni concrete di percezioni visive, sia come raffigurazioni mentali individuali e collettive che vanno a costituire vasti depositi culturali dell’immaginario nutrito creativamente dalla fantasia e da nuove interpretazioni, da disegni e da pratiche di “reportage”. I libri maneggiati e curati dagli ex detenuti palestinesi diventano centrali, non solo per un lavoro artistico, ma anche nella ricerca etnografica in quanto oggetti da raccogliere e allo stesso tempo strumenti con cui raccogliere dati.
Nella cultura carceraria analizzata in questo contributo circolavano, per mezzo di questi volumi, densi flussi di immagini prodotte con diverse tecniche ciascuna delle quali tendeva a sviluppare codici semiotici particolari. Nel trasformare la raccolta di questi volumi e delle immagini in essi contenute in un progetto di conservazione del patrimonio culturale, è utile procedere attraverso un processo in cui questo corpus viene percepito e poi trasformato cognitivamente ed esteticamente in un prodotto culturale, archiviato nell’immaginario per essere successivamente trasmesso attraverso varie forme di fruizione in continua evoluzione semantica e tecnologica.
Ciononostante, non sono molti gli studiosi che si sono cimentati con lo studio sistematico di questo tipo di repertori, i quali tendono ad agire in maniera sottile e onnicomprensiva. Tra questi, Aby Warbur e gli storici dell’arte che fanno riferimento alla cosiddetta iconologia, hanno – come è noto – a più riprese affrontato la produzione e la circolazione delle immagini e di oggetti in diversi contesti culturali. In ambito più strettamente antropologico invece Serge Gruzinsk (1990) ha a lungo studiato le caratteristiche dell’immaginario messicano e l’impatto che su di esso ha avuto la tradizione cattolica che si è avvalsa di un uso massiccio di immagini. L’etnografo ha quindi raccolto l’iconografia “trovata” sul campo della quale ha mostrato gli usi, le origini, i processi di cambiamento e i significati da essa veicolati (Pennacini 2012).
Il lavoro di Beatrice Catanzaro rappresenta quindi un esempio di come una lunga storia di conflittualità può innescare anche possibilità di conservazione della memoria e la creazione di progetti di rivalorizzazione culturale in cui il ricercatore (artista oppure antropologo) può costruire fruttuose collaborazioni con le persone. Se le ragioni e gli obiettivi della ricerca nell’arte o nell’antropologia possono rimanere fondamentalmente distinti da quelli che spingono comunità o individui a realizzare rappresentazioni della loro cultura, è proprio il confronto, lo scambio e, talvolta, anche le discordanze tra questi diversi punti di vista a risultare fruttuosi.
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