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Cine-grido
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2023 @ 00:55 In Cultura,Letture | No Comments
di Federico Rossin
«Ali au pays des Merveilles è un film sul tempo e sull’usura. La derisione e la malinconia della storia. Gli autori mostrano il legame politico tra colonizzazione ed emigrazione. Non è un film militante. È qualcosa di diverso: uno sguardo che si allontana dalla quotidianità e dà alla miseria e allo sfruttamento di cui sono vittime i lavoratori migranti le dimensioni del fantastico». Così ha scritto Tahar Ben Jelloun, Djouhra et “Ali au pays des merveilles”, su Le Monde del 3 gennaio 1977.
Molto spesso sogniamo per anni di vedere un film di cui abbiamo solo letto su riviste o libri: è dal 2000 che aspettavo di vedere Ali au pays des Merveilles (1976) [1] di Djouhra Abouda e Alain Bonnamy. Da quando ne lessi sul monumentale programma-catalogo curato da Nicole Brenez e Christian Lebrat Jeune, Pure et Dure! Une Histoire du cinéma d’avant garde et expérimental en France. Brenez scrive del film fin dagli anni ‘90, e anche nel suo ultimo libro Manifestations (2020), considerandolo un capolavoro. Ha ragione. Da quella proiezione del 4 giugno 2000 alla Cinémathèque française il film, a nostra conoscenza, è sparito: ne restava una copia 16mm in pessimo stato, virata magenta e piena di graffi. Oggi possiamo finalmente vederlo in una splendida versione digitale restaurata in 4K, realizzata dal laboratorio de L’Immagine Ritrovata di Bologna a partire dai negativi originali e da una copia 16mm, un’operazione di alto valore culturale condotta dall’associazione Talitha della ricercatrice e programmatrice Léa Morin in collaborazione con i due registi.
Ali au pays des Merveilles (1976) è un film-saggio sperimentale sulla condizione degli immigrati algerini nella Francia della metà degli anni 70, quella di Valéry Giscard d’Estaing come presidente, quella di Marcel Bigeard [2] come Secrétaire d’État auprès du ministre de la Défense, un po’ come se nell’Italia degli anni ‘60 la DC avesse messo alla Difesa Mario Roatta. Si comincia nel silenzio di un elenco interminabile di nomi a carattere verde su fondo nero: sono i 31 algerini uccisi nel 1975 in Francia. La seconda sequenza dà il tono del film: la bandiera francese in sovrimpressione sulle prime pagine di Minute [3] piene di insulti razzisti contro gli algerini, la musica di sottofondo è una Marseillaise stonata al sax. E poi, sulle immagini di lavoratori immigrati nelle strade di Francia, ascoltiamo lungamente una voce, quella di un operaio algerino di mezza età che racconta la sua vita di 40 anni di emigrazione: le umiliazioni, lo sfruttamento, il razzismo, la nostalgia per una patria mai dimenticata.
Le sequenze riprese con la Bolex 16mm corrono veloci, tremando commosse: il montaggio articola un conflitto sempre più devastante fra le immagini degli operai immigrati e dei loro gesti e quelle della società che li attornia senza mai vederli. Alle boutiques di alta moda e ai negozi di lusso vengono contrapposti frontalmente il lavoro e le condizioni di vita degli algerini: gli interminabili viali dei casermoni, le bidonvilles, gli appartamenti insalubri contestano figurativamente l’ordine repressivo e la violenza poliziesca della società, il razzismo e l’eredità coloniale di cui essa è imbevuta (ci sono anche immagini d’archivio: la guerra di liberazione, il massacro di Sétif [4], le foto di Élie Kagan della notte del 17 ottobre 1961) [5].
Per rendere intellegibile e visibile la violenza strutturale del razzismo anti-algerino Abouda e Bonnamy ricorrono e sistematizzano tutte le forme sonore e visive del conflitto: non intendono filmare la rivolta o rappresentare l’opposizione militante pro-immigrati, quanto piuttosto incarnare figurativamente il conflitto nelle forme stesse del film. Ricorrono quindi a tutto l’armamentario audiovisivo del cinema, sperimentale e non: il montaggio parallelo come rivelatore principe della violenza interclassista, la sovrimpressione come richiamo alla memoria della storia coloniale nel quotidiano fintamente pacificato delle città francesi, il flicker/lo sfarfallìo che mitraglia lo spettatore con la sua violenza sensibile, lo split-screen e lo schermo nello schermo che rendono contemporaneamente due spazi sideralmente lontani (quello dei servi e quello dei padroni), le immagini-mosaico che frammentano il reale alludendo alla reificazione alienante degli immigrati, le accelerazioni e i ralenti che sbriciolano la linearità del racconto pacificante borghese, le foto fisse e l’animazione che interrompono la fluidità ritmica e fungono da elemento straniante, gli inserti infinitesimali che riescono a raffigurare il desiderio represso e il fantasma onirico, le deformazioni ottiche in ripresa e in post-produzione che fanno esplodere il realismo documentario.
Ogni scelta estetica ha quindi un fine politico preciso e leggibile, secondo la tradizione sovietica del cine-pugno (Esther Choub e Dziga Vertov) e quella del documentario d’avanguardia degli anni 20-30 (Alberto Cavalcanti, Hans Richter, Jean Vigo).
Il film è costruito su un montaggio musicale fatto di ritornelli sonori/vocali e di riprese di motivi figurativi: la ripetizione ci immerge in una sorta di dimensione “fantastica” (come scrisse il citato Tahar Ben Jelloun su Le Monde) e rende ancor più opprimente la città, mostrata come un immenso laboratorio bio-politico e disciplinare. «Ali au pays des merveilles fa parte di una scrittura del trauma. Il saggio rifiuta di essere una diagnosi e di partecipare […] a qualsiasi forma di riparazione, conciliazione e accordo. La sua violenza è quella di un urlo, proporzionato alla violenza dell’oppressione»[7]. La struttura saggistica per temi successivi (il lavoro, la città, l’alloggio, le donne, i bambini, gli uomini, la sessualità mercenaria) s’incastra su un disegno complessivo circolare – una figura ereditata dalle sinfonie urbane degli anni 20 – che comincia e finisce nella notte degli Champs-Élysées e dell’Arc du Triomphe, attraversando tutte le fasi della giornata del lavoratore algerino.
Da dove viene quest’opera folgorante e modernissima, e perché è rimasta per così tanto tempo invisibile? Djouhra Abouda (arrivata in Francia a tre anni) e Alain Bonnamy, erano all’epoca studenti au département d’Etudes Cinématographiques et Audiovisuelles de l’Université de Paris VIII (Vincennes): fin dal 1970 c’erano dei laboratori di cinema sperimentale creati e animati da Guy Fihman et Claudine Eizykman, professori-cineasti, che avevano seguito il seminario di Jean-François Lyotard a Nanterre [8]. A Vincennes si studia cinema, e si vedono e si fanno film indipendenti.
Nel gennaio del 1974, una decina di studenti fra cui Pierre Rovere, Giovanni Martedì, Jean-Michel Bouhours, Patrick Delabre, Alain Bonnamy e Djoura Abouda, fondano nell’appartamento di Fihman e Eizykman la Paris Films Coop, modellata su quella di Jonas Mekas di New York. I primi due cortometraggi di Abouda e Bonnamy (Algérie Couleurs, 1970-1972; Cinécité, 1973-1974) entrano nel canone stabilito da Peter Kubelka per l’exposition Une Histoire du cinéma al Centre Pompidou nel 1977: ma Ali au pays des Merveilles al Pompidou non c’è, anche se «sarà ampiamente distribuito nelle reti alternative e nei contesti di lotta, oltre che alla Cineteca di Algeri nel 1978», come annota Léa Morin. Il motivo dello scarto dal canone kubelkiano è chiarito da Bouhours vent’anni dopo: «In quegli anni di rigida ortodossia cinematografica, in cui Gestalt e rivoluzione (cinema sperimentale contro cinema militante) si contrapponevano virulentemente, il film era percepito come la manifestazione perversa di un deviazionismo estetico» [9]. Gli sperimentalisti duri e puri non potevano accettare la dirompente forza politica del film [10], e i diversi gruppi militanti non potevano digerire la sua ricerca plastica [11]: l’aveva capito subito Ignacio Ramonet che su Le Monde nel 1976 lo definì «una decostruzione del documentario politico» [12].
Il film dà corpo e voce ad una figura totalmente assente nel cinema sperimentale dell’epoca – quella del lavoratore immigrato [13]. Ali au pays des Merveilles rimane con coraggio anche ai margini del cinema militante [14], non assomiglia ai coevi film di Marcel Trillat [15], Annie Tresgot [16], o dei Collectifs Cinélutte [17] o Cinéthique [18], e nemmeno alle opere di Sidney Sokhona [19], Med Hondo [20], Moumen Smihi [21]: semmai preconizza opere chiave degli anni 80, come quelle del Black Audio Film Collective (Handsworth Songs, 1987; Twilight City, 1989). Ha detto Djoura in un’intervista nel 1979:
Djoura Abouda è figlia degli immigrati che vediamo nel film, e non semplici militanti che servono una causa: e l’emozione del loro gesto sperimentale che getta in faccia agli spettatori, è quella di una ferita che ha sul suo corpo, di una collera insanabile che abita il suo sguardo.
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