di Silvia Mazzucchelli
U feschelàre, così si legge sotto la fotografia che Mino Altomare scatta a Molfetta nel 1971. È l’antico mestiere del cordaro che, in questa zona così caratterizzata dalla produzione di olio, prende il nome dal fìscolo, una specie di cesto in fibra vegetale, destinato a contenere la pasta di olive frantumate dalle macine. Ogni corda veniva fabbricata con altre corde più piccole, ciascuna derivata da un intreccio di altre corde di sezione via via più piccola, a partire da un semplice fiocco di canapa cardata. Nella foto si vedono otto “capi” di corda, quattro per lato, che passano attraverso un cavalletto dentato per confluire in un gancio, azionato da un verricello, che le attorciglia tutte in una sola corda, pronta a diventare un “capo” per una corda otto volte più spessa.
Proprio l’intreccio è la chiave per comprendere la relazione tra il fotografo Mino Altomare e la sua città. È lui l’artefice che raccoglie singole porzioni di corda e le intreccia fino a farne una storia collettiva ed unitaria, dove una sola grossa corda le comprende tutte.
Il movimento che compie il fotografo, così come quello che compie il fiscolaro, non è però una continua progressione in avanti, un percorso verso un fine prestabilito. È, invece, un necessario andirivieni, un ritornare sui propri passi per verificare la correttezza della propria visione, un aggiustamento continuo della messa a fuoco. Una pratica reiterata che richiede ogni volta, attraverso il suo sguardo, la verifica di una tradizione che non deve essere interrotta.
Scorrendo lo sterminato archivio di Altomare, si rimane colpiti dalla persistenza di due eventi che scandiscono il tempo della comunità molfettese e ne rafforzano l’identità: la Settimana Santa e la festa patronale della Madonna dei Martiri. La prima si manifesta nei riti delle processioni del venerdì e del sabato santo, dove il mistero della morte di Cristo è specchio barocco del dolore e della sofferenza di un’intera comunità che riflette sul mistero della vita. La seconda è la festa che celebra l’immagine stessa del popolo di Molfetta ed in particolare dei suoi marinai.
Risaputa è, a tale proposito, la pagina di Gaetano Salvemini che, parlando dei propri concittadini afferma che «per una sola cosa sono pronti a fare una sommossa anche sanguinosa e a lasciarsi tagliare a pezzi: per impedire che venga abolita la festa della Madonna dei Martiri, loro protettrice».
Nella dimensione temporale si rincorrono vicendevolmente l’evento primaverile e quello di fine estate, ma lo stesso avviene nella rappresentazione degli eventi sulla scena dello spazio urbano, polarizzati tra le processioni della settimana di passione e quelli della grande festa patronale. Tra questi due eventi che contraddistinguono la vita della comunità, il fotografo, come un fiscolaro, intreccia e percorre in avanti e all’indietro le storie che incontra lungo le vie e le piazze, in particolare quelle prossime al mare.
Le processioni della Settimana santa iniziano e terminano, infatti, da chiese che guardano verso il mare. La festa della Madonna dei Martiri inizia dal santuario posto in riva al mare, continua con una processione che si snoda lungo il mare, ha il suo culmine a bordo dei pescherecci nello specchio di mare del porto per concludersi poi in Cattedrale, ancora una volta prossima al mare.
Quando in estate i ragazzi cercano refrigerio e divertimento, non è alle spiagge o ai lidi ancora in costruzione che pensano: il loro riferimento più immediato è il porto. Lì si tuffano, magari con le pinne o con gli pneumatici di qualche camion; lì giocano, lì vengono esaminati per il libretto di mare che quasi tutti hanno o cercheranno di ottenere appena compiuti quattordici anni. Nelle foto di Mino Altomare c’è un’estrema vicinanza a questi ragazzi, che non si vergognano di avere le mutande al posto del costume o di avere gli elastici tanto allentati al punto da mostrare natiche biancheggianti. È ancora sul porto che i pescatori distendono le reti, questa volta levandole in alto, per cercare buchi e smagliature. Ed è sempre sul porto che si snodano le attività degli scaricatori, il posto dove giocano le bambine sulle barchette tirate in secco o dove siede su uno sgabello chi pazientemente attende che un cefalo abbocchi all’esca: una pallina fatta di pasta di pane, formaggio e sarde.
Mino Altomare, nonostante gli oltre cinquant’anni di attività fotografica, non ama definirsi fotografo, ma ancora semplicemente fotoamatore, definizione bella e calzante perché pone l’accento non tanto sul risultato del fotografare quanto sull’atto d’amore che ogni scatto implica.
La sua attività rimane tuttora quella dell’ingegnere navale che, ovviamente, lo costringe a mettere al centro della sua attenzione proprio il mare. Il suo interesse professionale si amalgama quindi con la ricerca formale ed estetica quando fotografa i cantieri navali, attività fiorente fino agli anni Ottanta.
La sua ammirazione per i mastri d’ascia non si limita alle soluzioni tecniche frutto di un’esperienza secolare, si impasta di elementi antropologici che evidenziano il profondo legame tra l’uomo e il mare, tra la cultura e la natura. Nel corso della nostra conversazione ha raccontato che, nella costruzione di un peschereccio, veniva sempre messa un’immagine di Cristo a poppa e un’altra della Madonna dei Martiri a prua, fatto che ha portato al detto proverbiale “Criste a puppe e la Medonne a praote”, per indicare un’ottimale condizione di benessere e sicurezza.
Un posto centrale tra le migliaia di fotografie spetta ai cantieri, non solo il luogo dove si producevano barche e pescherecci, ma un topos, un luogo dell’immaginario. Bisogna pensare ai numerosi cantieri come a gironi infernali cadenzati dai ritmi di asce e martelli, dove si spandono gli odori penetranti del bitume dei calafati, del legname umido messo a curvarsi sopra i fuochi di trucioli, del piscio di cani, dei solventi e delle vernici di ogni colore sparse su assi di legno e bitte di ferro; dove cavalletti di legno e di metallo di ogni sorta e altezza si ergono contro il mare a disegnare ardite quinte scenografiche. In questa dimensione surreale, l’ordinato e geometrico fasciame delle imbarcazioni diventa il ventre di una balena e l’operaio che vi si addentra ricorda un Giona o un novello Geppetto.
Nei decenni che precedono le crisi degli anni Settanta, immaginario e realtà sconfinano oltre i limiti fisici dei cantieri per raggiungere piazze e vicoli. In una foto molto suggestiva si vede un peschereccio in costruzione posato su un marciapiede, poco distante da una pompa di benzina, affiancato da un’automobile in sosta, quasi a negare il confine tra mare e terra. A pochi metri dal cantiere, a fare da contraltare al vitalismo che vi si sprigiona, affiancate le une alle altre, carcasse di pescherecci dondolano lentamente, destinate a sprofondare nel nulla. Mino Altomare è parte viva ed integrante della comunità. Il suo sguardo non è quello di chi osserva da voyeur e da flâneur; forse non è nemmeno un fotoreporter in senso tradizionale: è un testimone che utilizza la fotocamera come i propri occhi. Non si serve, in generale, di alcun artificio tecnico, preferendo di gran lunga una visione quanto più possibile prossima a quella naturale.
Non usa lo zoom per avvicinarsi o allontanarsi dalle persone. È lui stesso che si avvicina o si allontana dal soggetto. Lo muovono la curiosità, l’affetto e l’interesse per persone e situazioni che avverte come destinate rapidamente al declino. Una di queste è l’asciugatura delle mandorle sui marciapiedi o sulle piazze della città; un’altra attività scomparsa è quella del lattaio alle prese con la pulizia di bidoni e misurini in ambienti non del tutto salubri come quelli dei “corticchi”, piccole stalle alla periferia della città. Anche quando le persone ritratte sono palesemente buffe, il suo sguardo non induce al riso ma, semmai, al sorriso. Se il terreno che predilige è quello urbano, gli interessano particolarmente i momenti di partecipazione corale: donne che aspettano il passaggio di una processione, gruppi di persone in attesa dello “sbarco” della Madonna, oltre alle consuete fotografie dei riti della Settimana santa.
Non diversamente da Ruth Orkin o Sabine Weiss, Mino Altomare ama fotografare i bambini perché con loro è possibile intendersi con un semplice sguardo. C’è una fotografia dove, sopra un cassone di un autocarro, sono allineati sei bambini alcuni dei quali esibiscono i loro genitali. Commentando questa foto, Altomare dice che i protagonisti sono l’esatta riproduzione dei caratteri umani: l’imitatore, il curioso, il seguace, lo spaccone, l’indifferente, il timido.
E non troppo diversamente da Lisette Model, ritrae una bagnante dalle abbondanti forme mentre si lascia investire dalle onde che le nascondono il corpo, sorridendo divertita. Dalle spiagge di Coney Island a quelle della Prima Cala, lo sguardo di Altomare, come quello della Model è fatto di benevola ironia e di slancio empatico. Due donne ritratte di schiena, vicine l’una all’altra, rivolgono lo sguardo all’orizzonte come vedette in attesa di una nave, forse immaginando luoghi esotici e lontani, o semplicemente si godono la prossimità al mare per alleviare la calura estiva. Un reggipetto spunta da un costume da bagno, una donna si regge allo scoglio, uomini maturi che giocano a schizzarsi come bambini: è lo sguardo divertito del molfettese “marino” attento a cogliere la difficoltà del terlizzese “terragno”: innocue rivalità di campanile.
Siamo a metà agosto, tra tre settimane il mare ritornerà ad essere fonte di lavoro e di reddito. Gli abitanti del quartiere “Madonna dei Martiri” reclameranno con orgoglio il protagonismo di un giorno, portando in spalla il fercolo con la statua della protettrice della città. Poi, dopo la metà di un altro anno, sarà la volta della Settimana santa. Mino Altomare la sintetizza nell’attimo in cui un confratello della Morte sembra addossarsi per intero il peso della Pietà, e con essa, il dolore della comunità intera.
Il fotografo, classe 1948, libero professionista, ingegnere navale e meccanico, ha cominciato ad interessarsi alla fotografia dall’età di 18 anni e non l’ha mai abbandonata. Inizialmente, negli anni ‘70, preferiva il genere del reportage di cui possiede un consistente archivio; successivamente è passato al paesaggio in bianco e nero ed altri generi.
L’Italia delle cento città si rivela un Paese di cento fotografi, spesso celati negli angoli più remoti della Provincia, ma non per questo meno tecnicamente accorti ed emotivamente coinvolti. Ci si deve chiedere, allora, come mai gli sforzi per divulgare le conoscenze di fotografia, della sua storia e delle sue possibilità espressive debba, ancora, basarsi principalmente sullo sfruttamento mediatico di figure altisonanti e arcinote, piuttosto che sulla ricerca, sulla scoperta di amatori e di professionisti legati al territorio e a peculiari modalità di fotografare.
Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023
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Silvia Mazzucchelli, laureata in Scienze umanistiche, ha conseguito un master in Culture moderne comparate e un dottorato in Teoria e analisi del testo presso l’Università di Bergamo. Ha pubblicato due saggi dedicati alla fotografa e scrittrice Claude Cahun. Della stessa autrice ha curato Les paris sont ouverts (Wunderkammer, 2018) e scritto il saggio introduttivo per la traduzione in italiano del pamphlet. Ha collaborato con numerose riviste, fa parte della redazione della rivista on line Doppiozero. Da circa due anni sta conducendo uno studio analitico sul lavoro fotografico e poetico di Giulia Niccolai.
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