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Dino Buzzati e il rais Solina. Da “Nantucket” al “Deserto dei diavoli”
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2023 @ 00:41 In Cultura,Società | No Comments
di Ninni Ravazza
«… basta aspettare che si verifichi una di quelle fortunate coincidenze in cui il mondo vuole guardare ed essere guardato nel medesimo istante …» (Italo Calvino, Palomar)
L’occasione era ghiotta, e non solo per le aragoste che si disputavano il piatto con le busiate trapanesi. Quando al cenacolo partecipano commensali che hanno incontrato la storia sommersa del mondo è facile salpare da un argomento per approdare su coste affatto dissimili dopo avere attraversato abissi e ripe ridondanti realtà vissute o anche solo immaginate. Meno usuale è realizzare, alla fine, che lungo tutta la navigazione, per quanto tortuosa possa essere stata, un unico tenace fil rouge, invisibile agli occhi, ci ha accompagnato prendendoci per mano e conducendoci ove esso intendeva. «Le occasioni di questo genere non sono certo frequenti, ma prima o poi dovranno pur presentarsi» diceva Calvino [1].
Attorno al tavolo c’erano Stefano Carletti, il sommozzatore-scrittore che nel 1968 in oceano Atlantico trovò il relitto dell’Andrea Doria, la più bella e famosa nave italiana cui dedicò un libro di grande successo e assieme a Bruno Vailati un film presentato alla Mostra del Cinema di Venezia; Andrea Murdock Alpini, architetto e sommozzatore tecnico che cinquantacinque anni dopo la missione di Carletti e Vailati è tornato sull’Andrea Doria filmandone lo stato di conservazione e immergendosi per primo al mondo sui resti della prua dello Stockholm, la nave svedese che la notte del 25 luglio 1956 speronò il transatlantico italiano affondandolo; il sottoscritto che per decenni ha assistito alla nascita dei Riti e dei Miti partecipando alla vita delle tonnare e alla pesca del corallo.
Le nostre cene, ancorché ghiotte e generosamente annaffiate dal Bianco trapanese, andavano sempre ben oltre la sapidità delle portate essendo noi tre anche grandi consumatori di libri. Se era facile trovare un pieno accordo sul finocchietto selvatico per insaporire le tagliatelle al tonno, molto più complesso era il giudizio su Giovanni Pascoli che io trovo insuperabile ne “L’ultimo viaggio” [2] del decrepito e visionario Odisseo con i suoi compagni derelitti (oh, ne ho conosciuti tanti che non hanno saputo accettare la loro vecchiezza!), mentre Stefano lo considera poco più di un manierista.
La sirena della nostra partenza per l’ennesima navigazione senza una meta precisa la suonò un libro che avevo appena iniziato a leggere, scritto da Dino Buzzati, per me sommo narratore (come per Pascoli, le idee mie e di Stefano qui divergono), giornalista e inviato di guerra, autore tra tanti de Il deserto dei tartari. Era “Il Buttafuoco. Cronache di guerra. Poche righe e ho fatto un salto sulla sedia: rivivevo da altra prospettiva un’avventura che da anni porto nel cuore e nella mente, narratami con identica maestria e pari intensità emotiva da un protagonista con povere scuole ma enorme potere affabulatorio, quel rais Mommo Solina che in decenni di frequentazione mi ha regalato i segreti del mare e della sua vita che sapeva di acqua salata.
La notte del 28 marzo 1941 i due si trovavano a poche miglia l’uno dall’altro, al largo di Capo Matapan: Buzzati sulla corazzata Vittorio Veneto, nave ammiraglia della flotta italiana, Solina sull’incrociatore Zara ferito a morte dai cannoni delle navi inglesi che avevano il radar mentre gli italiani combattevano a vista [3]. Nelle lunghe giornate trascorse sulla muciara [4] in attesa dei tonni il rais Solina mi raccontò tutto della notte in cui la sua giovanissima vita restò per ore appesa ai rottami di quello che era un vanto della Supermarina italiana, con memoria lucida e apparente distacco; aggiunse particolari che la storia ufficiale non ha mai registrato ma che contribuirono a creare quella storia; fu uno dei pochissimi ad assistere al sacrificio del comandante dell’incrociatore Luigi Corsi, regalando a me una verità che altrove ha ancora l’aura di leggenda. Quel racconto, epico e appassionato, rappresenta l’unica testimonianza diretta della tragedia di Capo Matapan (2.330 marinai italiani morti, cinque navi affondate tra incrociatori e cacciatorpediniere, 1.314 naufraghi salvati dalle navi inglesi e deportati nei campi di concentramento); narrazione intima, dalla parte degli ultimi, dei marò senza nome e senza mostrine.
L’inviato del Corriere della Sera pur senza nominare navi, comandanti né luoghi, ha raccontato della disfatta della flotta italiana in quella buia notte di marzo, e lo ha fatto dalla più sicura plancia della corazzata al comando dell’ammiraglio Angelo Iachino che a velocità ridotta per i danni subiti aveva messo la prua su Taranto. I racconti si sovrappongono, i ricordi si intrecciano, ogni dettaglio trova conferma nelle parole dei due protagonisti, tutto si colloca nella casella che la Storia gli ha assegnato.
Rais Solina: «Era il marzo del 1941, ero a Taranto, imbarcato come sottonocchiero sull’incrociatore Zara, quattordici mila tonnellate, 182 metri di lunghezza, largo 22 metri, con milleduecento uomini di equipaggio, forse qualcuno di più. Abbiamo fatto tante missioni, giorni e giorni a mare, ma ce la siamo sempre cavata. Capo Matapan invece fu la missione fatale per noi. Uscimmo di sera dal porto di Taranto, destinazione come sempre ignota. Il comandante passò per tutti i reparti, e per la prima volta ci diede l’ordine di metterci al posto di combattimento addirittura prima di uscire dal porto, e disse una frase che non ricordo esattamente, ma che risuonò chiarissima nelle nostre orecchie, voleva dire se rientriamo stavolta siamo davvero fortunati … Comandante, dove andiamo? lui rispose calmo: ragazzi miei, dove andiamo? Dove siamo andati le altre volte. Comunque, se rientriamo in porto …» [5].
Dino Buzzati: «La nave ch’egli comandava comparve dinanzi alla nostra prora mentre già calavano le ombre. Con i bastimenti fratelli essa invertì la rotta, per affiancarsi alla nostra formazione; e sfilò così di traverso presentandosi in tutta la sua bellezza; già fosca, misteriosa, torva, a motivo del crepuscolo. La guardai col binocolo. E avevo la vaga speranza di riconoscere qualcuno, di scorgere lui, chissà, a uno dei finestrini della plancia. Ma era troppo lontana, avvolta da troppa penombra. Pareva scivolare in silenzio sul mare assai lentamente. Solo adesso, a distanza di parecchi mesi, capisco come in quel momento si stesse compiendo un tenebroso disegno, maturato da secoli forse nelle profondità del destino. Solo oggi distinguo, negli avvenimenti di quella giornata, un filo logico che li legava l’un l’altro, con indicibile perfidia, verso uno scopo. Apparentemente essi sembravano nati dal cieco caso della guerra, slegati tra di loro, estranei alla volontà dell’uomo e del cielo. Mentre invece fino dall’alba le gelide Parche tenevano d’occhio lui e la sua nave, e disponevano la trama …» [6].
L’inviato di guerra senza nominarlo parla dell’alto ufficiale al comando dell’incrociatore Zara, che stava navigando verso la leggenda: capitano di vascello Luigi Corsi, un uomo di fronte al suo destino.
Gli occhi di Mommo Solina sulla muciara del comando si accendono al ricordo di quei momenti tremendi: «… il comando di Squadra [ammiraglio Iachino nda], noi siamo comando di Divisione e abbiamo a bordo anche l’ammiraglio Carlo Cattaneo, aveva dato l’ordine allo Zara di andare a prendere a rimorchio l’incrociatore Pola colpito da un siluro. Dunque andammo a soccorrere il Pola, lo raggiungemmo alle dieci di sera, e col cannoncino lanciammo il sacchetto con la cima del rimorchio. Le corazzate inglesi erano appena a mille metri di distanza, qualcuno vide il bagliore del colpo del cannoncino, e ci spararono addosso. Ci colpirono proprio mentre ci giravamo per dare la poppa al Pola, ci centrarono nella centralina elettrica … Fumo, fiamme, c’era già qualche marinaio morto ma io non ne vidi, cercai di uscire all’aperto assieme al mio compagno, vicino a noi c’era un secondo Capo veneziano, Noven si chiamava, e anche lui ci spronava ad uscire, ragazzi miei, uscite scappate, ma l’unica uscita aperta era nei pressi dell’antinfermeria, e tutti si accalcavano lì, una bolgia terribile. Tutti cercavano di fuggire. Mi afferrai al passamano e grazie a Dio riuscii a uscire, e solo dopo mi accorsi che i miei pantaloni erano rimasti là, attaccati al passamano, tutti strappati. La pelle delle gambe era tutta graffiata, ma non sentivo niente, chi aveva più forza usciva, c’era chi sveniva, chi gridava e minacciava, chi dava gomitate, un macello, Dio ce ne liberi! … La nave era ferma e ancora non c’erano incendi a bordo, avevo sentito solo qualcuno gridare accendete i motori di fortuna per potere rispondere al fuoco inglese, ma quei motori ausiliari si accesero per un attimo e poi … blom! si spensero anche loro. Non abbiamo potuto più sparare, la nave era ferma, non c’era più niente da fare».
Dino Buzzati guardava a levante e pensò al comandante di quella nave condannata a morte: «Dall’oscurità della plancia egli vide rovinare contro il suo bastimento, di cui era tanto orgoglioso, le cateratte mortali, a somiglianza di Ulisse al termine dell’ultimo viaggio. Ed io, dalla nave dove mi trovavo, assistetti alla conclusione della congiura funesta … Ed ecco, come era stato previsto, giunsero i nemici … Arrivavano gli inglesi per l’ultimo tramonto, i personaggi dell’amara favola! Quando nessuno li potrà più distinguere, loro attaccheranno, uscendo dalle fosse di oriente. E noi invece saremo ancora visibili, grosse sagome nere contro l’estremo alone rosso dell’ovest … Era l’ora dell’ammaina bandiera. Ma la bandiera non venne ammainata. Era l’ora in cui si legge la preghiera del marinaio e tutti stanno sull’attenti, immobili e silenziosi. Ma la preghiera del marinaio non venne letta. Tutti però stavano ugualmente fermi come statue, impassibili e non facevano parola. Tutti guardavano laggiù, verso il buio crescente, dove la minaccia si gonfiava …Per la prima volta, benché non sapessi che cosa sarebbe successo, compresi allora ciò che significa veramente il vocabolo fato, tante volte incontrato a scuola nelle tragedie antiche. Il fato propriamente ci aveva sorpreso per mare e cercava di tenerci, oh quanto lontani, dalle nostre case …Il sole si era immerso completamente. E manteneva ancora dietro a sé, quale strascico, un alone di luce, lento, lentissimo, diabolicamente lento a morire. Poi, quasi di colpo, la notte fece cadere il suo misterioso velario. Esattamente in questo minimo intervallo, di cui non ci si accorge nella vita usuale, si scatenò la battaglia. Dalla nostra nave non si poté scorgere il balzo degli aerosiluranti che attaccavano dalla parte opposta della formazione … In quei momenti la Parca fece la scelta. Ah, non rimase indecisa, da troppo tempo aveva meditato l’epilogo. Con la mano spettrale fece segno da quella parte, un brevissimo cenno, quel tanto che bastava…Noi navigammo immuni; giù nello scafo si erano sentiti tre sordi scotimenti: tre siluri, probabilmente, esplosi nelle vicinanze senza colpire nessuno; attorno a noi, dunque, i mortali ordigni erano finiti nel nulla. Ma le altre navi? La sua? A una a una le cercammo nell’ombra. Sì, le nostre due navi sorelle navigavano sicure dietro a noi, mantenendosi allineate con rassicurante precisione. E così i cacciatorpediniere di scorta. Ma più in là? Ma gli altri bastimenti che non si riusciva a distinguere?».
L’ultima missione, marzo 1941: da sinistra gli incrociatori Zara, Pola, Fiume, Garibaldi (da Pack, Azione notturna ..)
Già, che fine avevano fatto le navi della Divisione Cattaneo? L’inviato del Corsera ascolta i messaggi che viaggiano nel buio del Mar Egeo: «Si fece l’appello. Le radio delle navi ammiraglie bisbigliarono silenziosamente nella notte, chiamando. Dall’incrociatore X? Niente di nuovo. Dall’incrociatore Y? Niente di nuovo. Dall’incrociatore Z? Dall’incrociatore Z? Perché l’incrociatore Z tarda a rispondere? Dall’incrociatore Z: “Sono rimasto colpito da un siluro, sono costretto a ridurre di velocità”. No, non era la sua nave. Ancora una volta la sorte fingeva di ignorarlo. Ma il vortice già stava per chiudersi. Noi, illesi, si continuò a navigare. La divisione a cui apparteneva l’incrociatore colpito diminuì invece l’andatura, restando progressivamente indietro … Noi le scorgemmo vagamente allontanarsi dietro a noi; e c’era pure il suo bastimento. Lo intravedemmo per l’ultima volta, striscia di nero carbone sul nero lucido della notte».
Il rais sussurra socchiudendo gli occhi: «Non abbiamo potuto più sparare, la nave era ferma, non c’era più niente da fare». I due racconti scorrono paralleli e coincidenti ma alla fine l’inviato del Corsera potrà solo favoleggiare ciò che immagina e che in parte apprenderà in seguito dai brandelli di ricordi dei sopravvissuti: «Che cosa significavano quelle luci? Laggiù certo nostri compagni stavano combattendo, difendevano con suprema determinazione la nave colpita … E così, andando noi nella notte, sempre più rari e lontani si fecero i misteriosi lampi. Finché il buio e una cupa tranquillità regnarono sul mare, chiudendo il segreto di tanto eroismo. In tal modo egli sparì (oh, non lui solo), sagoma inconfondibile, entro il fondale tragico della notte … Dicono che comparve a poppa così come quando, rientrata la nave in porto e finita la manovra d’ormeggio, egli scendeva stanco dalla plancia diretto al suo alloggio … Disse a un ufficiale, incontrato nel buio, con accento assai tranquillo – eppure quanto dolore era dentro – disse: “Questa volta ce l’hanno fatta!”. Poi riunì gli uomini presenti, diede l’attenti, fece gridare “Viva il Re!”; così mi hanno raccontato … Sbandando finalmente la nave gli uomini si calarono in acqua. Un ufficiale, voltandosi indietro mentre si allontanava a nuoto lo vide ancora fermo in coperta … Si narra pure da alcuno che, in tal modo fumando, si sia allontanato verso prora, sulle lamiere già oblique, in silenzio, scomparendo tra nembi di fumo. Forse desiderava restare qualche istante ancora da solo, a pensare, per dire addio alla nave morente. E adesso, dove si trova? Lontano, abbiamo saputo, incredibilmente lontano … Anche se relegato di là del tetro fiume, anche se i suoi passi non risuoneranno mai più su coperta di nave ma trascorreranno invece sui teneri prati degli Elisi, eternamente in fiore».
Il giovane marò che quarant’anni dopo sarebbe diventato l’ammiraglio della tonnara di Bonagia era là, a poppa dell’incrociatore Zara, quando il Comandante salutò per l’ultima volta i suoi uomini, e gli occhi diventavano di pioggia quando lo raccontava: «In quel momento uscì il comandante in prima, Luigi Corsi, e chiamò l’adunata, noi eravamo fermi al buio e sentivamo gli spari anche se gli inglesi in quel momento non sparavano a noi, il Pola intanto andava alla deriva … Il mio comandante ci disse di buttarci in mare: avete venticinque minuti, poi la nave salta in aria, già sono pronte le bombe nella Santabarbara e in altri locali. Quando vi prenderanno non dite da dove siamo partiti né perché. Dio vi assista, gettatevi in mare!, e se ne va abbasso, prima lui e dietro il comandante in seconda Giannastasio. Li ho visti io, non me l’hanno raccontato. Perché l’hanno fatto? me lo sono chiesto mille volte. Erano le dieci e cinque della notte, buio fitto, senza luna, eravamo al largo di Capo Matapan, il tempo fortunatamente era bello, il mare calmo. Era il 28 marzo del ‘41, quello era un anno bisestile … mi ritrovai solo a guardare quella massa di uomini che si buttavano in mare uno sopra l’altro, una cosa pazzesca, mi allontanai il più possibile verso poppa, levai le scarpe ma non avevo il coraggio di buttarmi a mare. Proprio in quell’istante sentii gli spari, erano aerei inglesi che mitragliavano la nave, allora che c’era da fare? Mi gettai a mare anch’io, mi tuffai a chiodo, dritto dall’alto della poppa, una cosa terribile, andai a fondo e prima di risalire in superficie passarono chissà quanti secondi, mi sembrava di morire affogato, però ce la feci, venni a galla, ma intanto i venticinque minuti erano passati o quasi, e quindi mi levai il salvagente e mi misi a nuotare come un pazzo per allontanarmi dalla nave che stava per scoppiare, non ho sentito nemmeno l’acqua fredda, veramente in quel minuto non sentivo freddo né caldo …Intanto, proprio mentre cercavamo disperatamente di attaccarci a una zattera sento lo scoppio, la nave era saltata in aria. Quanto ero distante dallo Zara? chi lo sa?, quanto mi ero potuto allontanare in venti minuti di nuoto? Due, trecento metri, non di più, l’acqua sembrò ribollire, l’onda d’urto degli scoppi attraversò le nostre carni, fu una cosa terribile, ma di quelli che eravamo lì nessuno ebbe ferite. Lo scoppio fu fortissimo, le fiamme si alzarono più della montagna di Cofano, e la nave si capovolse in un attimo, la chiglia si mise in aria come se si trattava di una barchetta di sughero, né più né meno».
La prosa aulica di Dino Buzzati, quella scarna di Mommo Solina. Due voci per narrare la medesima tragedia. I Campi Elisi del comandante Corsi, quello di concentramento del rais Solina, perché la storia non si ferma 100 miglia al largo di Capo Matapan, ma anzi da qui sembra ripartire.
Le busiate all’aragosta favoriscono i ricordi cui la notte di San Vito lo Capo, nostro luogo dell’anima (tutti e tre abbiamo scelto di vivere qui), dà forma e nome: da questo paese veniva anche il giovanissimo marinaio Giovanni Galante che fu una delle 799 vittime dello Zara, ucciso dal fuoco degli inglesi o dallo scoppio della nave o, chissà? dal gelo del mare di marzo. Semplicemente, è scomparso quella notte e soltanto il rammarico di una discendente per l’oblio calato sulla sua vita spezzata ne perpetua la memoria.
Dopo il salvataggio da parte dei cacciatorpediniere inglesi che continuarono a raccogliere i naufraghi pur sotto gli attacchi degli aerei tedeschi, il marò Solina fu portato nei campi di prigionia di Alessandria d’Egitto e successivamente in Sudafrica nel campo di internamento di Zonderwater. Anche di questa frazione di storia il rais mi raccontò tutto, dell’organizzazione del campo e del suo comandante saggio e lungimirante Hendrik Fredrik Prinsloo, della vita tutto sommato dignitosa dei prigionieri italiani e delle tante attività in cui venivano impegnati, dall’artigianato all’agricoltura e soprattutto nello sport, con veri e propri campionati di calcio e incontri di boxe. Anche in questo caso mi è venuto incontro un bel libro di Carlo Annese, I diavoli di Zondewater, per confermare tutto quanto avevo appreso nelle giornate in tonnara. Qui “diavoli” non sta per dannati, ma per una delle più forti squadre di calcio che partecipava al campionato del Campo.
Annese tra le tante riporta anche la testimonianza del marinaio fuochista Araldo Caprili che era a bordo dell’incrociatore Pola la notte di Capo Matapan, e i suoi ricordi combaciano perfettamente con quelli di Mommo Solina: la nave era immobilizzata nel buio dal siluro lanciato dall’incrociatore inglese Jervis e lo Zara era ormai vicino per prenderlo a rimorchio quando si scatenò il fuoco inglese. Anche Caprili restò una lunga notte in mare prima di venire salvato dai marinai britannici.
Annese narra anche della lunga navigazione dei prigionieri da Port Suez a Durban a bordo del transatlantico francese Île de France che otto anni prima era stato battuto dall’italiano Rex nella traversata atlantica del “Nastro Azzurro”.
Le busiate erano sparite dai piatti quando Stefano Carletti e Andrea Murdock Alpini mi hanno guardato chiedendo all’unisono: «Il transatlantico Île de France, sicuro? Proprio quello?». Io non capisco. «L’ Île de France – mi spiegano – è la nave che la notte tra il 25 e il 26 luglio 1956 recuperò 750 naufraghi del transatlantico italiano Andrea Doria speronato dallo Stockholm in oceano Atlantico, al largo di Nantucket». I miei due commensali sono stati il primo e l’ultimo italiano (a oggi) a immergersi sul relitto del Doria. Ecco far capolino il fil rouge che parte da Capo Matapan e arriva al faro di Nantucket attraversando il Mediterraneo e l’Atlantico per quasi 5.000 miglia nautiche, 9.000 chilometri: Zara e Andrea Doria, i loro comandanti Luigi Corsi e Piero Calamai, Mommo Solina e Dino Buzzati, Île de France e Zonderwater, io Stefano Carletti e Andrea Murdock Alpini, le busiate e le aragoste. Storia e storie.
Stefano Carletti col regista Bruno Vailati e il sommozzatore statunitense Al Giddings si immersero sul relitto dell’Andrea Doria nel luglio 1968 per un progetto che aveva lo scopo di documentare lo stato in cui versava uno dei gioielli della cantieristica navale italiana verificando la possibilità di un suo eventuale recupero. Fu, quella, la prima vera missione sul transatlantico affondato per cause realmente mai chiarite; i tre sommozzatori effettuarono ventuno immersioni sul relitto realizzando fotografie e filmati che rappresentano ancora oggi la base da cui partire per un ragionamento sullo stato e sul futuro di quella che era la nave più lussuosa del mondo. Da quella missione, la prima condotta con professionalità e grande competenza, nacquero un libro di enorme successo scritto da Carletti e un film diretto da Vailati premiato col David di Donatello nel 1970; il titolo era il medesimo: “Andrea Doria –74”.
La “missione” Doria e i suoi protagonisti diventarono immediatamente leggenda in tutto il mondo: mai nessuno prima aveva osato sfidare gli squali del Banco di Nantucket, le sue correnti furiose, le tempeste oceaniche, le acque gelide e scure dell’Atlantico, per un sogno romantico dal sapore antico: «Siamo venuti fin qui / per lavorare / perché l’impossibile diventi possibile / e l’Andrea Doria /ritorni alla luce» è scritto nella pesante targa allora posta sulla nave e oggi misteriosamente sparita.
) Al Giddins, Bruno Vailati e Stefano Carletti nella prima missione sull’Andrea Doria, 1968 (da “Andrea Doria -74”)
Stefano Carletti e Bruno Vailati diventarono gli eroi per migliaia di subacquei che si sono formati al racconto delle loro avventure; l’Andrea Doria diventò l’Everest dei sommozzatori, non tanto per la profondità (74 metri al massimo) che non era eccessiva rispetto a quelle raggiunte dai corallari, ma per l’aura leggendaria che l’avvolgeva e per i grandi pericoli e le difficoltà che l’immersione sul relitto comportavano. Come Edmund Hilary e Neil Armstrong che sono stati i primi sull’Everest e sulla Luna, a loro spetta il posto nella storia.
«Per noi è stato solo un lavoro, duro e faticoso ma non il più difficile, solo un buon lavoro» commenta Stefano sorseggiando il Bianco di Alcamo che scioglie le emozioni: «… a mio avviso è legittimo che l’Andrea Doria rimanga lì. Oggi essa appartiene al mare, ha una sua funzione, ha una sua sinistra bellezza, ha una ragione di essere laggiù: non è più un’opera dell’uomo, è una scogliera»: queste parole le aveva scritte nel ‘68 in chiusura del suo libro.
Dopo l’avventura sul Doria Carletti ha partecipato alla serie televisiva “I 7 mari” diretta da Bruno Vailati e ha scritto diversi libri tra cui il fortunato Naumachos da cui è stata tratta una ulteriore serie televisiva, ha inoltre scritto diverse sceneggiature di film d’avventura. Il suo nome resta però indissolubilmente legato alla nave più bella del mondo, ed è per questo che Andrea Murdock Alpini, architetto, gallerista, docente, sommozzatore tecnico e istruttore in grado di immergersi a 150 metri e più, esteta sopra e sotto il mare, ricercatore di relitti sommersi, lo ha cercato, corteggiato, inseguito … per scalare anch’egli la vetta all’incontrario dell’Everest di Nantucket, per vivere la leggenda, per ripercorrere le rotte tracciate dalle pinne di Stefano nel gelo dell’Atlantico, nella nebbia del Banco. Anche questo un sogno romantico. Solo chi è stato sul Doria può dire di avere toccato con mano la storia del Mare.
Nel nome del transatlantico che incarnava la voglia dell’Italia di uscire dal tunnel oscuro della guerra i due hanno creato un sodalizio che prima ha condotto alla ristampa di Andrea Doria –74 esaurito da decenni, poi alle missioni di Andrea proprio sulla nave dei suoi sogni. Progetti nati attorno al mio desco colorato del rosso delle aragoste, del verde del finocchietto selvatico, dell’argento del tonno, del bianco del vino. Sott’acqua si sogna a colori.
Alla fine Andrea Murdock Alpini sul Doria c’è andato davvero dando corpo ai suoi sogni, e fino ad oggi per ben due volte (e si prepara per la terza, nel 2024): la prima dal 30 agosto al 12 settembre 2022, la seconda dal 18 luglio al 2 agosto 2023; non è una data casuale quest’ultima, la notte tra il 25 e il 26 luglio 1956, 67 anni addietro, il gigante della marina mercantile italiana affondava portando con sé nell’inferno di Nantucket 51 persone. Nell’anniversario dell’affondamento Andrea con i suoi compagni di immersione David D’Anna e Marco Setti era sulla perpendicolare del relitto a bordo della motonave Tenacius e tutti insieme hanno lasciato sul Doria un omaggio al gioiello dei cantieri Ansaldo dalla vita troppo breve (era stato varato il 16 giugno 1951). La Fondazione Ansaldo e il Comune di Genova hanno patrocinato la missione, a cui Andrea Murdock Alpini ha dato il medesimo titolo del libro che sta già scrivendo sul suo incontro con la nave del mito e con l’uomo che per primo ne violò l’intimità protetta dai 74 metri di oceano gelido e oscuro, e ora gusta accanto a lui le busiate con l’aragosta: Andrea Doria. Un lembo di patria, in uscita a dicembre con l’editore Magenes di Milano.
Un lembo di patria, figura retorica che rende bene l’idea della nave che portava con sé per l’oceano l’orgoglio del Paese, ambasciatrice di bellezza ed eleganza. «Già, mi è piaciuto ribadire il titolo dello straordinario reportage che il Corriere della Sera dedicò alla tragedia del transatlantico» spiega Andrea. «Un pezzo d’Italia se ne è andato, con la terrificante rapidità delle catastrofi marine ed ora giace nella profonda sepoltura dell’oceano, che non ha rimedio. Proprio un pezzo dell’Italia migliore, la più seria, geniale, solida, onesta, tenace, operosa, intelligente» [7] si legge nell’articolo del 27 luglio 1956. L’Andrea Doria è eleganza solitaria e taciturna coricata sul fondo dell’Oceano Atlantico che custodisce il sonno fascinoso di un’epoca irripetibile, scrive Andrea nella postfazione al libro di Stefano.
«Giù, nel silenzio e nel buio, per l’eternità, lei, fino a poche ore prima così forte, bella e lieta. Era un pezzo dell’Italia migliore … Addio», così conclude il suo reportage sul Corsera l’inviato Dino Buzzati. Proprio lui. L’uomo che quindici anni prima da bordo della corazzata Vittorio Veneto aveva narrato del sacrificio del comandante Luigi Corsi al largo di Capo Matapan, dell’affondamento dell’incrociatore Zara e dei suoi uomini affidati al Fato, di Mommo Solina tornato dopo cinque anni di prigionia a casa e di Giovanni Galante mai più tornato.
Un lungo viaggio nella storia e per il mare si è compiuto quella sera a casa mia davanti alle busiate con l’aragosta, iniziato con il racconto tragico di Buzzati della notte di Matapan («Giunto era sì il bastimento, ma a un porto amaro, dove sarebbe rimasto per sempre …») e proseguito con le narrazioni dei due italiani che più di ogni altro conoscono l’anima della più italiana delle navi inghiottite dall’oceano, «uno dei più perfetti concentrati, per così dire, del nostro Paese, una sintesi della sue qualità più nobili» scrisse lo stesso Buzzati.
Un viaggio affascinante, malinconico ed esaltante. Ora nei piatti splendono i colori dei canditi e della ricotta, bianco rosso giallo verde, trionfo della pasticceria siciliana che ha creato la sua Cassata copiando le cromie della gariga mediterranea. Il faro di San Vito buca la notte e indica il mare, fonte inesauribile di Storia se solo ne vogliamo ascoltare i racconti e interpretare le coincidenze.
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