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Diritti e visioni. Suggestioni di lettura
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2024 @ 03:11 In Cultura,Società | No Comments
Nel corso del 2023 la rivista semestrale Animot, in occasione del suo decimo anniversario ha pubblicato un volume a cura di Monica Gazzola dal titolo Diritti e visioni. Animali non umani e diritto [1]. Il libro, uscito come numero speciale della rivista, ha giustamente goduto di qualificate presentazioni in questi mesi, ma tuttavia mi sento in dovere di ritornarci. Ciò non solo perché – e ne vado orgoglioso – c’è, con la curatrice, un percorso che in parte ci accumuna, in parte torna a sovrapporsi ad intervalli. A ciò si può aggiungere che la stessa, avvocato in Venezia, è stata ed è tuttora membro del Centro studi sui diritti umani (Cestudir) dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, di cui sono stato a suo tempo tra i fondatori; nel contempo, le comuni origini nella bassa padovana (Este nel suo caso), ne fanno il referente (con il suo compagno Fabio) per apprezzate – dai fortunati fruitori, quorum ego – serate conviviali estive con cene rigorosamente vegetariane nei nostri colli.
Tuttavia, in questo caso l’urgenza e la drammaticità dei temi affrontati dal testo, il dovere di contribuire, per quanto in misura minima, alla loro ulteriore circolazione, fanno aggio sullo stesso rapporto di amicizia, scusandomi per la rozzezza dell’espressione. Intendo allora richiamare, in primis, il percorso che porta Monica Gazzola ad editare questo nuovo lavoro: Monica è stata dapprima co-curatrice, con Maria Turchetto, del volume pubblicato da Mimesis Per gli animali è sempre Treblinka (2016) [2]; due anni dopo ha dato alle stampe (con Roberto Tassan) l’importante Oltre l’antropocentrismo [3]. In questo nuovo testo l’intento della curatrice, espresso in termini non equivocabili già nella presentazione [4], è quello di attaccare la “barriera fonocentrica” vista come cardine dell’antropocentrismo e – via “equazione aristotelica del logos come linguaggio e ragione”, riduzione cartesiana degli animali a macchine [5], infine identificazione tra mondo e linguaggio umano operata da Heidegger [6] – arrivare a giustificare il perdurare dell’oppressione.
L’attacco condotto da Gazzola si colloca, giova premettere, in maniera del tutto congrua al nome ed alla storia della rivista. Senza soffermarmi sul secondo elemento [7], ricordo invece l’origine del termine Animot. È una parola coniata da Jacques Derrida per «pluralizzare e ridare volto agli animali» [8], In altre parole non esiste l’animale in generale. Esiste piuttosto un particolare vivente, con sue caratteristiche affatto peculiari e inconfondibili, che sin trova a vivere in un certo momento ed in un certo posto. L’animale in generale è solo un “animot”, un animale-parola, un’invenzione del linguaggio insomma, che azzera tutte le differenze e stabilisce l’esistenza della categoria astratta, e del tutto generica, dell’animale (da contrapporre, è perfino ovvio, a quella di Umano con la maiuscola). Orbene, il numero speciale di Animot in discorso assume su di sé un compito davvero speciale: dar voce ai senza voce, raccogliere riflessioni in grado di offrire spunti per riflessioni non antropocentriche.
Alcuni dei saggi che compongono il volume vanno direttamente al cuore della più antropocentrica delle scienze, il diritto, nel cui ambito l’animale, ci dice Gazzola, continua a figurare come res. Altri contributi vedono l’alternarsi di fenomeni attualissimi, come lo smascheramento dell’ipocrisia congenita all’industria della fashion, e l’incubo degli animali da sperimentazione, chiusi nei (c.d.) centri di ricerca, ad una prospettiva storica originale sul ruolo dell’animale nei processi penali del medioevo. Ancora, vi è un contributo importante (anzi due [9]) sul rapporto tra le tematiche al centro del volume e l’emergenza climatica (definizione ormai inadeguata a dar conto di una situazione come quella in cui siamo chiamati a vivere).
Il volume è, a più riprese e in modo diverso, attraversato dal momento della creazione artistica. Consiglio il lettore di andare sul primo blocco di Visioni, consultando le immagini, dopo aver letto bene la pagina dedicata al progetto I Was Born to Fly, che consente di collocare con precisione quanto ci è offerto alla vista [10].
Prima di occuparmi dei saggi che, a mio avviso, costituiscono l’ossatura del volume, merita soffermarsi sulla conversazione ivi contenuta relativa alla recente evoluzione nel mondo della moda [11]. Si tratta di una conversazione gradevolissima che, al di là del tono leggero, mette in risalto sia alcune modificazioni importanti di atteggiamento, sia i pericoli di uso strumentale che dietro certe inattese (e improbabili) prese di coscienza da parte di importanti marchi possono celarsi. È il caso di alcune sfilate animaliste di Schiaparelli e di Gucci, su cui l’esito della discussione tra Vaccari e Segre-Reinach mi sembra convincente; il discorso della Segre-Reinach in particolare induce anche a meditare sugli orrori ulteriori che il diffondersi della c.d. economia circolare facilita (anche sul piano ideologico) in relazione alla sofferenza animale.
Di converso, le autrici ci informano del progetto in corso di svolgimento presso l’ex Museo coloniale, ora Museo delle civiltà, di Roma, dal titolo Decolonizng the Gaze. Tale progetto si occupa dell’impatto del passato coloniale nell’immaginario collettivo della moda contemporanea. Confermo, questa conversazione è una delle cose più deliziose che abbia letto di recente: solo il ricorso per così dire neutro all’espressione “post-coloniale” crea in me un certo disagio. Siamo in tempo di ritorno prepotente di un colonialismo trionfante (possiamo chiamarlo neo-, ma non cambia), cui si contrappongono cristalli, fragili e sempre a rischio, di teorie e pratiche di decolonizzazione. L’espressione “post-colonialismo” in tale contesto non ha altra funzione che non sia il ricordarci i conati tragici di socialismo reale africano della seconda metà del secolo scorso e, più da vicino, le squallide gesta della “sinistra estrattivista” che ha governato ampie parti dell’America centro-meridionale nei primi due decenni del nuovo secolo, con esiti drammatici ad un tempo per varie specie di altri animali e per ampie fasce di popolazioni indigene.
Gradevoli sono anche i due testi che, diversamente tra loro, hanno a che vedere con il rapporto tra animali e fenomeni in senso lato legati alla stregoneria [12]. Il livello è senz’altro alto: avendovi tuttavia “annusato” tracce di quello che a me sembra un diffuso pregiudizio, ritornerò in seguito.
Veniamo ai contenuti a carattere più direttamente politico e/o politico-giuridico. Viene subito in rilievo lo scritto di Maria Cristina Giussani su vivisezione e processi agli attivisti [13]. Con tono molto sobrio richiama gli avvenimenti del (lontano ormai) 20 aprile 2013, con l’occupazione da parte di un gruppo di studenti dello stabulario della Facoltà di Farmacologia dell’Università di Milano per “mostrare al mondo” le condizioni in cui gli animali erano tenuti. Era, quello, un periodo in cui sull’onda dell’azione svoltasi negli Stati Uniti contro l’allevamento di cani Beagle per esperimenti, si era creato grande interesse sul tema. Gli attivisti uscirono dopo una giornata di trattative portando con sé alcuni animali, e con la promessa da parte del Rettorato di provvedere in seguito all’affidamento di tutti gli animali rimasti ad una associazione specializzata nel recupero di animali da esperimento. Ovviamente la promessa non venne mantenuta, e altrettanto ovviamente si arrivò ad un processo penale in cui gli autori dell’irruzione diedero conto con atteggiamento giustamente rivendicativo del proprio comportamento, sbarrando così la via ad ogni possibile riconoscimento da parte del giudice di “ravvedimento”. Ci fu anche una drammatica (per la cifra richiesta) azione di risarcimento civile (in aggiunta a quella penale) portata avanti dall’Avvocatura dello Stato non giunta a buon fine anche per l’incredibile status di abbandono del controllo-dati nel centro che si pretendeva scientifico (lo stabulario): non solo non si riuscì da parte di chi tutelava gli interessi dei vivisettori a dimostrare l’importanza delle ricerche ivi condotte, ma vi era assoluta incertezza sul numero degli animali rinchiusi. Uno degli attivisti che prese parte all’azione, Giuliano Floris, è intervistato dall’autrice per ri-collocare quell’azione nella situazione attuale, ed il giudizio è sconsolato, nel senso che dopo quella punta non vi è stata più azione adeguata. E tuttavia Floris mi par ancora troppo soft, nel senso che la sua considerazione finale è dedicata al tessuto di continuità tra «le gabbie fisiche nelle quali vivono gli animali e le nostre gabbie mentali» che non ci consentono di immaginare una società senza distinzioni di specie. Troppo soft, intendo, quando vede ancora una separazione netta tra gabbie fisiche per gli altri animali e gabbie mentali per umani: il presente-futuro-prossimo del bio-capitale pare avviato a superare tali distinguo.
Di estremo interesse è il contributo su “oltre la giustizia climatica” [14]. Nel riportare le cifre aggiornate del disastro, tale contributo opera una distinzione decisiva che non sempre si trova in interventi dedicati al tema. Alle specie in estinzione da mancata riproduzione per motivi ambientali vanno aggiunte le specie in estinzione per sovra-riproduzione, che peraltro, essendo la sovra-riproduzione legata al ciclo degli allevamenti intensivi, le condanna comunque alla non-vita. In altre parole: il 70% della biomassa dei volatili è costituita da pollame da allevamento, e la cifra è spaventosamente più alta per i mammiferi [15]. Su questa base, Musarò e Villani denunziano con forza la miopia di quanti, non solo nelle fasce di popolazione genericamente preoccupate dei cambiamenti climatici, ma anche all’interno della componente di attivisti particolarmente attenta alla questione dell’estinzione di specie animali e vegetali, non riescono tuttavia a cogliere la centralità, nel complessivo fenomeno di deriva eco-sistemica, dei mostruosi allevamenti intensivi. Su questa base, gli autori passano poi a vedere in concreto come i principali movimenti che si occupano di tale deriva – Fridays For Future, Extinction Rebellion, Ultima Generazione, Animal Rebellion – trattano il rapporto con le specie non umane nella crisi globale in atto. La questione tocca delicati problemi di giustizia intergenerazionale e multispecie, imponendo di fare definitivamente i conti con il «mito del progresso strettamente occidentale, umano-centrico e capitalistico» [16]. Apprezzabile è poi il fatto che l’ultima parte dello scritto, commentando la prassi dei gruppi radicali sopra citati (in particolare XR, Extinction Rebellion), risulta aperta al confronto con chi ha portato avanti esperienze di azione diretta sul campo, prendendo nettamente la distanza da chi (gran parte dei media) cerca vergognosamente di far passare per eco-terroristi, per fare un esempio, i militanti di Ultima Generazione [17].
Assai sobrio è anche il contributo giuridico di Monica Gazzola, dedicato alla tutela, nell’ordinamento penale italiano, degli animali non umani [18]. Il saggio distingue prioritariamente, e con assoluta chiarezza, l’approccio c.d. welfarista, cioè di chi vuole porre limitazioni e regole allo sfruttamento animale (il discorso sulla dolce morte, per capirci: la distopia, infame anche se coperta di belle parole, di una macellazione “dal volto umano”), da quello, di formazione più recente, volto a riconoscere, e quindi proteggere, diritti spettanti agli altri animali per sé [19]. Non a caso, ricorda Monica, le normative oggi esistenti – a livello nazionale, europeo, internazionale – hanno sempre come fine la tutela della sensibilità umana, non degli animali per sé. Si vogliono evitare (quando lo si vuole davvero) sofferenze ulteriori e non necessarie rispetto al fatto di nascere, vivere e morire negli allevamenti intensivi per venire poi macellati, o scuoiati, o passati a qualche laboratorio. Indicativo al riguardo è l’art. 727 del Codice penale che, nella formulazione originale, è chiaramente destinato a tutelare la sensibilità umana verso le sofferenze animali, salvo subire una evoluzione nel corso degli anni ’70 [20].
A seguito di lunghe battaglie, è vero, è stata introdotta nell’ordinamento la Legge 189 del 20 luglio 2024 che modifica l’art. 727 c.p. e introduce i nuovi articoli dedicati ai delitti contro i sentimenti degli animali, rispettivamente il 544-bis (uccisione) sia il 544-ter (maltrattamenti); vi compare peraltro l’inciso: «senza motivazione o per crudeltà». Tali comportamenti non sono dunque vietati per sé, trattandosi di tipico esempio di regolamentazione della fabbrica di morte. Peggio ancora, l’art. 19-ter introdotto dalla stessa legge esclude l’applicazione degli artt. 544-bis, 544-ter, e naturalmente 727 modificato, in tutti i casi disciplinati dalle leggi su «caccia, pesca, allevamento, macellazione, sperimentazione scientifica, zoo, attività culturali». In tutti i casi, dunque, ove non si tratti di pets.
Gazzola si sofferma poi sui vari tentativi succedutisi in questi anni per cambiare in meglio la situazione, anche avvalendosi dell’avvenuta modifica dell’art. 9 della Costituzione [21] che attribuisce alla Repubblica il compito di tutelare ambiente, biodiversità ed ecosistemi, prevedendo che sia una legge dello Stato a prevedere modi e forme della tutela degli animali. Le proposte finora intervenute, pur in qualche caso significative (abolire l’art. 19, consentendo quindi l’applicazione degli artt. 544-bis e ter anche negli allevamenti, nei macelli, negli zoo) restano comunque, allo stato, tutte interne alla prospettiva welfariana.
Mi soffermo da ultimo sul contributo di Sara De Vido e Sara Dal Monico [22], avente ad oggetto la tutela del lupo dopo l’incoraggiante sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea a conclusione del caso Topiola [23], ma anche dei contrastanti, e pericolosi, segnali venuti in seguito dal Parlamento europeo, e dalla stessa Commissione; in sintonia allora, temo, con quanto sta avvenendo a livello generale. Si parte dai dati forniti sia dall’ISPRA (che parla al 2022 di una popolazione di lupi di oltre 3000 esemplari lungo l’arco alpino italiano) sia, a livello europeo, dalla Commissione per la conservazione della fauna selvatica [24], che vede una rafforzata presenza di tale animale.
Il lupo, va premesso, è riconosciuto come specie a rischio dal 1972, e la Convenzione di Berna pone un rigoroso sistema di divieti e di vigilanza sulla loro applicazione agli Stati parte, divieti e vigilanza che vengono peraltro meno in presenza di una serie di deroghe previste dall’Allegato [25].
A livello europeo la Direttiva 93/43/CE [26], recependo i punti salienti e la logica della Convenzione di Berna, prevede un sistema articolato di protezione che a grandi linee riattraversa quello convenzionale, ma con specificità che lo rendono ulteriormente frammentato. Per un verso la Direttiva distingue anche tra specie, ponendo al vertice dell’obbligo di protezione le specie a rischio di estinzione (tra cui il lupo), per l’altro verso però non solo i divieti – tra cui quelli in apparenza più assoluti – continuano a prevedere deroghe, ma queste si intersecano con la differenza di regimi territoriali, nazionali e anche regionali. Di conseguenza, solo prima facie la protezione offerta dal regime europeo appare più rigorosa di quella internazionale; all’atto pratico gli Stati hanno ampia mano libera sul piano legislativo, la possibile differenza di disciplina tendendo a trasformarsi rapidamente in corsa ad pejus (come già avvenuto in relazione al trattamento dei migranti).
La Finlandia presenta una situazione particolare: il lupo vi è protetto, ma non nel nord del Paese (area delle renne). Il punto è che tale Paese aveva elaborato un regime specifico per le renne, e al momento di negoziare l’ingresso nella UE (anni ’90 del secolo passato) ne aveva ottenuto il mantenimento di tale regime, inserendovi poi all’ultimo istante del lupo. In definitiva, la caccia al lupo, malgrado l’ingresso nella UE, risulta pressocché libera nel nord di quello Stato, la sola presenza di singoli esemplari nell’area delle renne giustificandone l’uccisione. Di qua un ricorso contro l’Agenzia finnica della fauna selvatica, che aveva autorizzato per il 2015/2016 l’uccisione di un certo numero di lupi, da parte dell’associazione naturalista Tapiola. Giunto il ricorso al grado ultimo di giudizio, la Corte amministrativa della Finlandia, richiedendo a suo avviso la soluzione del caso la previa interpretazione dell’art. 16 della Direttiva Habitat, operava un rinvio pregiudiziale alla CGUE. Senza scendere nei dettagli: il giudice finlandese vuole sapere i limiti delle deroghe che l’art. 16 consente all’obbligo di protezione, trattandosi in particolare di una specie in pericolo di estinzione. La Corte, ricordato come appunto il lupo sia specie a rischio, e quindi i divieti di cattura e abbattimento incontrino il solo limite delle deroghe di cui all’art. 16, interpreta queste ultime in modo molto restrittivo. Peraltro, sulla base dei dati trasmessi alla CGUE, non risulta chiaro a quei giudici se le misure prese dall’autorità finnica, e la stessa legge finlandese, siano conformi al rigore che gli stessi affermano essere necessario per l’applicazione delle deroghe ex art. 16 della Direttiva. A tale scopo si rende inoltre necessaria un’accurata interpretazione del principio di precauzione [27]. Nel 2020, il giudice finlandese traeva le dovute conseguenze dalla pronuncia preliminare della Corte, riconoscendo come la decisione dell’Autorità finnica avesse nel concreto violato la legge vigente.
Le Autrici sono chiarissime, nel presentare il caso, le sue implicazioni, il significato positivo della soluzione e il nuovo clima che la sentenza – chiamando per la prima volta in causa la necessità di rigorosa applicazione del principio di precauzione in relazione all’abbattimento dei c.d. grandi predatori – rendeva legittimo attendersi. E tuttavia la parte più importante del loro contributo è a mio avviso l’ultima, in cui De Vido e Del Monico, con addolorato realismo, mettono in rilievo come le istituzioni UE marcino ormai in direzione contraria alla giurisprudenza della Corte, con l’esplicito intento di annullarne gli effetti. Così la Risoluzione del Parlamento europeo del 2022 [28] invita senza mezzi termini la Commissione a presentare una proposta di direttiva che declassi il lupo da specie protetta in quanto in via di estinzione a semplice «specie di interesse comunitario» (sic!), che gode di protezione (ulteriormente) ridotta; la proposta parla a chiare lettere di «“allentamento dello stato di protezione», non più – si dice – necessario. La proposta ha purtroppo trovato pronta udienza nella Commissione, nelle parole della sua Presidente Van der Leyden. Orbene, De Vido e Dal Monico colgono pienamente la brutalità formale, ma anche la centralità teorico-politica della Risoluzione del PE; questa assume invero, riletta a qualche anno di distanza, il significato di un vero e proprio proclama del bio-capitalismo in via di espansione, consolidamento e centralizzazione su scala (almeno) europea [29].
Al momento di concludere, vorrei limitarmi ad abbozzare alcuni flash, in ordine sparso, e anche con differenti tonalità, dal momento che comincerò parlando di gatti.
Per esempio: si discute da più parti sul se Derrida, riconosciuti i suoi meriti pionieristici nella lotta contro l’antropocentrismo, sia davvero all’altezza del compito che si è prefisso. Alcuni contributi prodotti in ambito eco-femminista, in effetti, scalfiscono la giustezza di un atteggiamento forse di eccessiva venerazione. Ma sia chiaro: quella che non può venire scalfita è la maestà della gatta di Derrida. Questa si impone come operatrice della relazione inter-specie di livello alto, come fu per la gatta della Krupskaia (anche se nell’infernale viaggio in vagone blindato attraverso l’Europa in guerra credo che la gatta si sia occupata fattivamente più del compagno della stessa, preparandolo a quanto lo attendeva una volta sceso alla stazione di Finlandia); come fu anche della gatta del Profeta, in un altro tempo e contesto; e come fu per il gatto del poeta più amato, condotto all’estasi attraverso le modulazioni della voce [30]. Sono tutti casi in cui il rapporto inter-specie si crea senza utilizzo del logos da parte del soggetto non umano; nel caso di Baudelaire, peraltro, si tratta di un autentico interlocutore, nel senso che il gatto parla all’umano, aggira ogni ossessione fonocentrica.
Un ignoto gatto, gettato dalla finestra da Cartesio, condanna con il suo sacrificio anche la stoltezza del filosofo, ma bisogna stare attenti. Dietro la mostruosità del gesto è nascosta una inflessibile manifestazione di coerenza ideologica con l’enunciato più famoso, e più sbagliato, di tutta la storia della filosofia, l’errore di base da cui tutti gli altri hanno origine, riduzione a macchina degli altri animali in primis. Preso alla lettera il Cogito ergo sum «suggerisce che il pensare e la consapevolezza di pensare siano i veri substrati dell’essere … esso celebra la separazione della mente, la cosa pensante (res cogitans) dal corpo non pensante, dotato di estensioni e parti meccaniche (res extensa)» [31]. Niente di nuovo, certo, se non instillare in noi la consapevolezza che combattere il dualismo in tutte le sue manifestazioni comporta la necessità di confutare del pari ogni costruzione gerarchica “ontologica” del vivente, che ne è la versione subdola. Altrimenti ci mettiamo sulla strada in cui lo stesso terreno dei rapporti interspecie diventa ambiguo, si popola di gerarchie inevitabilmente discrezionali, di scale tipo “anelli nell’io” [32]. Le grandi scimmie antropomorfe rientrano nell’anello più interno, quindi vanno loro riconosciuti diritti, ma … anche i gorilla? E cosa diciamo degli elefanti? I mammiferi marini certamente sì, arruolati; ma il folpo? E al contrario: proteggiamo senz’altro i grandi predatori, ma sia chiaro, per le zanzare (e i pappataci, maledetti) l’unica soluzione è quella chimica. Non parliamo degli stormi di corvidi, tra i più vicini nel comportamento sociale agli umani, ma (anche per questo) antipaticissimi. Insomma, non se ne viene a capo, la discrezionalità degli umani rispetto alle altre specie risulta addirittura moltiplicata, la critica dell’antropocentrismo si trasfigura nel suo opposto. Ecco, ci danno un grande esempio di corretto procedere, al riguardo, proprio i ragazzi che hanno occupato anni fa lo stabulario di Farmacologia a Milano: sappiamo una cosa è sensibilizzare l’opinione pubblica sulle torture inflitte ai cani, molto più difficile lo è per i topi/cavie.
Ancora, procedendo a ruota libera. Davvero il sacrificio animale alla deità (anche la deità negativa, come nel caso degli animali sacrificati a Satana dalle streghe) sarebbe una vicenda evolutasi in modo lineare, priva di contrasti, avendo le proprie radici nell’antichità mediterranea? Solo alcune delle civiltà antiche sacrificavano animali: alcuni grandi imperi, certo: Assiri, Babilonesi, Ittiti, i Fenici e quindi nei secoli successivi i Cartaginesi, le tribù periferiche semitiche trasformatesi nel tempo in veicolo del monoteismo (diversificatosi in seguito al suo interno, con l’attenzione che il percorso del cristianesimo delle origini è, sul punto, più complesso). Ma, anche a non parlare delle civiltà dell’India, il percorso della civiltà egiziana, quello dei Medi e dei Persiani si distinguono nettamente, il sacrificio di altri animali agli Dei essendovi sconosciuto, e fortemente criticato, e il vegetarianesimo vero e proprio risultando assai diffuso. Ma soprattutto la Grecia, e Atene in particolare, sono attraversate da un dibattito radicale, che dura secoli [33] e che solo dopo l’assorbimento nell’Impero Romano avrà fine con la vittoria definitiva degli sterminatori/sacrificatori di altri animali [34]. Su questo c’è ormai una letteratura ampia, convincente, e profondamente innovatrice, cui giova senz’altro rimandare [35]. Abbiamo bisogno degli arricchimenti che di là ci vengono [36].
Non ho segnalato in precedenza come il volume possieda una forte caratterizzazione di genere [37]. È questa l’occasione della prima osservazione finale: non vi è dubbio che le espressioni politiche e culturali che più chiaramente e in profondità si muovono per superare le barriere che impediscono la comprensione del doveroso inserimento degli (altri) animali in un, peraltro difficilissimo, processo di liberazione, vengono da evoluzioni interne all’universo del movimento femminista internazionale. Certo, è sotto gli occhi di tutti come fette di tale movimento siano interessate solo ad un generico ridimensionamento del patriarcato (bianco, occidentale), e al massimo ad una prospettiva welfarista nei confronti degli altri animali [38]. Però dobbiamo dare atto di una netta superiorità di passo delle cultrici dei critical animal studies, superiorità di passo che non può essere casuale. Il punto è, concordo, che «le femministe non godono chiaramente di alcun privilegio epistemico per parlare dell’oppressione del vivente e della liberazione totale, ma vantano una discreta esperienza di lotta e anche di oppressione che le rende interlocutrici credibili per il progetto di liberazione comune»[39].
In questa presentazione di Diritti e visioni non ho, confermo, trovato passaggi degni di critica. Certo, i richiami pressocché inesistenti alla nozione di bio-capitalismo [40], l’assenza completa di utilizzo dei termini bio-politica e bio-poteri, risultano sorprendenti, tanto più in un simile contesto. Ma ciò non inficia l’esito, al limite rende il testo più facilmente consultabile da chi si muove a disagio, o al limite diffida, di certe terminologie.
Il contrario, piuttosto, è imperdonabile. Il fatto cioè che vi sia ancora, tra quanti ritengono che malgrado tutto “un altro mondo è possibile”, un … contingente esteso di persone che continuano a ritenere la sfera dell’umano essere l’unica coinvolta nei processi bio-politici attuali e prossimi. Ma qui comincerebbe, anzi comincerà, un diverso discorso.
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