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Dove sta il popolo oggi?
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2020 @ 01:43 In Cultura,Società | No Comments
populismo e demologia
di Francesco Virga
Nell’ultimo numero di Dialoghi Mediterranei, l’antropologo Fabio Dei si è chiesto come sia possibile «ripristinare una demologia di taglio gramsciano» [1] in un mondo che sembra aver messo a dura prova tante categorie gramsciane. Il saggio di Dei merita una attenta lettura anche perché, oltre a passare in veloce rassegna alcuni studi che hanno messo a fuoco le profonde trasformazioni sociali e culturali degli ultimi anni, pone domande particolarmente stimolanti: «dove sta il popolo oggi? Come individuare la linea di demarcazione fra l’egemonico e il subalterno?» e conclude così:
Riservandomi di tornare in modo più articolato ed approfondito sui tanti problemi sollevati dall’antropologo, in questo mio breve intervento voglio concentrare la mia attenzione sulla questione centrale posta: «dove sta il popolo oggi? Come individuare la linea di demarcazione fra l’egemonico e il subalterno?».
Gramsci nei suoi scritti usa poco il termine ‘popolo’. Soltanto nei suoi ultimi appunti scritti in carcere ne troviamo una chiara definizione, laddove precisa che per “popolo” deve intendersi «l’insieme delle classi subalterne e strumentali di ogni forma di società finora esistita» [2]. Non mi sembra casuale il fatto che questa definizione si trovi proprio nelle sue celebri Osservazioni sul ‘folclore’ che, a partire dall’ultimo dopoguerra, tanta fortuna hanno avuto negli studi demologici italiani. Lo stesso Dei, in un suo recente libro [3], ha dato una spiegazione delle ragioni della fortuna e del successivo declino di questi studi.
Indubbiamente le veloci e profonde trasformazioni della società italiana hanno contribuito a mettere in crisi alcune categorie gramsciane. La scomparsa, nel giro di pochi lustri, della millenaria civiltà contadina, in cui trovava radici gran parte della cultura popolare nazionale, non poteva non produrre effetti. Il boom economico prodotto dal disordinato sviluppo industriale del Paese, il consumismo e la mutazione antropologica degli italiani denunciati da un incompreso Pasolini [4], il proliferare delle mafie hanno fatto il resto. Per non parlare della rivoluzione informatica e della globalizzazione.
Appare oggi sempre più evidente che le classi dirigenti, specialmente in Italia, non hanno saputo governare i cambiamenti epocali avvenuti. E la maggior parte degli intellettuali italiani, con il loro conformismo e opportunismo, hanno fatto parte di questa classe dirigente e sono stati organici al sistema di potere esistente. Aveva ragione Pasolini di scrivere nel 1975:
La realtà è molto diversa da come spesso viene rappresentata. Intanto le “classi”, anche se diverse e molto più frammentate rispetto a quelle dei tempi di Gramsci, esistono ancora. E non credo che «le differenze tra le classi sociali dipendono più da elementi culturali che da elementi obiettivi»[6], come sostiene P. Sylos Labini, anche se gli elementi culturali contano e non vanno mai sottovalutati. Ma dove ha visto Luca Ricolfi la società signorile di massa? [7]
Una delle poche cose certe oggi mi sembra questa: la classe operaia non ha più, nel processo produttivo e nella società, la centralità che aveva prima. È questo dato di fatto ad aver indebolito il pensiero politico gramsciano e soprattutto la sua idea di partito. Anche per questo sbagliano, secondo me, quanti ancora pensano di trovare in Gramsci un prontuario per la soluzione di tutti i problemi odierni. Gramsci, come Marx, non ha predisposto ricette per l’osteria dell’avvenire. Anzi è Gramsci stesso in carcere a temere di non riuscire ad essere all’altezza del proprio tempo:
Dobbiamo tenere presente costantemente questa domanda per non diventare fossili prima del tempo. Secondo me la dialettica gramsciana tra il polo egemone e quello subalterno della società è ancora uno strumento utile per comprendere il mondo di oggi. Non a caso, mentre in Italia si archivia Gramsci, nel resto del mondo fioriscono i cosiddetti ‘Subaltern Studies’ [9] che, fin dal nome, si richiamano allo studioso sardo. Per non parlare del successo mondiale del film coreano Parasite che mette in scena una modernissima forma di “lotta di classe” che conserva, comunque, tratti dell’antica guerra tra poveri.
Insomma, anche se tanta acqua è passata sotto i ponti della storia, continuano ad esistere classi dominanti e classi subalterne e le disuguaglianze sociali, invece di diminuire, crescono. A mancare oggi è soltanto quella che una volta si chiamava “coscienza di classe”; e questa coscienza manca soprattutto tra le classi subalterne proprio perché subiscono spesso l’egemonia delle classi dominanti.
È la realtà dei fatti e non una nostra fissazione a rendere ancora attuale gran parte dell’opera di Gramsci. Il suo stesso concetto di “egemonia” aiuta ancora a comprendere quello che accade sotto i nostri occhi. Oggi, infatti, anche attraverso la televisione, è la visione del mondo delle classi dominanti che viene ogni sera rappresentata e che il popolo, ossia le classi subalterne, fa propria.
Esemplare appare, da questo punto di vista, il metodo di analisi seguito dal pensatore sardo per descrivere i subalterni. Uno dei suoi ultimi Quaderni, scritto nel 1935, ha questo titolo: «Ai margini della storia. Storia dei gruppi sociali subalterni».[10] In esso si sofferma ad analizzare alcuni studi del suo tempo intorno alla figura di Davide Lazzaretti e a dare alcune importanti indicazioni di metodo. Gramsci coglie acutamente il difetto principale di tali studi:
Ecco perché non si è compresa la ragione vera del successo avuto da Davide Lazzaretti nel 1870 tra i contadini e i pastori del monte Amiata, prima della sua brutale eliminazione fisica compiuta dagli apparati repressivi dello Stato. La verità è che si voleva nascondere il grande malessere sociale che regnava in Italia in quel periodo. La stessa cosa, aggiunge Gramsci, è avvenuta più in grande per il brigantaggio meridionale. Malessere sociale accresciuto anche dal fatto che, al Governo del nuovo Stato unitario, erano andate da due anni le sinistre suscitando nel popolo speranze e aspettative presto deluse.
È interessante anche notare l’attenzione prestata da Gramsci alla presenza di elementi e motivi religiosi nel movimento di protesta guidato dal Lazzaretti. Particolarmente significativo appare ai suoi occhi il fatto che la bandiera usata da Davide, nel corso delle sue manifestazioni, era rossa con la scritta «La Repubblica e il regno di Dio». E qui non si può non citare quanto aveva scritto due anni prima, in un contesto completamente diverso, anche per mostrare come, dietro la scrittura frammentaria del sardo, ci sia una unità ed una forte coerenza interna:
Tornando al Quaderno intitolato Ai margini della storia, rimasto purtroppo incompiuto, Gramsci, dopo aver notato che i gruppi subalterni subiscono quasi sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono, invita «lo storico integrale» a cercare e valorizzare ogni traccia di iniziativa autonoma dei gruppi subalterni. (ivi: 2283-4). Quanti storici hanno seguito il metodo di Gramsci per raccontare la storia delle classi subalterne?
In ogni caso Gramsci muovendosi nella direzione della “unificazione culturale del genere umano”, pur criticando il “senso comune” (dove spesso si depositano i pensieri egemoni) ha sempre avvertito maieuticamente l’utilità di partire da esso per superarlo. Da questo punto di vista è fondamentale l’idea gramsciana secondo la quale «tutti gli uomini sono filosofi»:
È questa sua profonda convinzione che permette a Gramsci di guardare con fiducia alla possibilità che le classi subalterne si liberino dalla loro subalternità:
Tra le numerose incomprensioni dell’autentico pensiero gramsciano un posto centrale occupa l’accusa di populismo. Su questo punto Asor Rosa, nel suo Scrittori e popolo del 1965, prese un incredibile abbaglio, mai abbastanza stigmatizzato, considerando populista la ben più complessa nozione gramsciana di nazionale-popolare. Gramsci non ha mai mitizzato il popolo e non l’ha mai considerato naturaliter progressista. Il sardo, con il suo spiccato realismo critico, ha semplicemente osservato che senza la partecipazione popolare nessun cambiamento potrà mai realizzarsi [13].
La cosa che rimane per me più viva e vitale in Gramsci è la sua serietà, la sua onestà intellettuale, la sua sobrietà. L’invito costante ad osservare storicamente e criticamente tutto e a respingere ogni forma di dogmatismo e di fanatismo. Le sue domande, spesso, contano più delle risposte. Il suo rifiuto di considerare il marxismo un formulario meccanico che pretende di avere tutta la storia in tasca. (Cfr. Q XI: 25). Ecco perché lo stesso Gramsci, nella solitudine del carcere, quando si sentì incompreso e tradito dai suoi stessi compagni, trovò la forza per superare i momenti di sconforto e scrivere:
E di questo mi pare che ci sia particolarmente bisogno oggi.
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