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Echi alla periferia del popolo: il ruolo dei confini nelle costruzioni identitarie

copertinaPopulismo e demologia

di Nicola Martellozzo

 «L’uomo non si chiama uomo che disegnando i limiti che escludono il suo altro dal gioco della supplementarietà» (Deridda 1998: 328)

 Populismo ed egemonia

 Si può ripensare un concetto come quello di popolo, categoria situata al cuore del sistema politico-giuridico degli Stati moderni? In questo senso, l’antropologia ci può indicare una strada: sapere eclettico, inquieto, l’antropologia si caratterizza anche per una costante rielaborazione delle proprie “categorie fondative”, con tutti i vantaggi e i pericoli del caso. Cultura, popolo, identità, rito: questi termini, ormai entrati di diritto nel lessico antropologico, più che descrivere puntualmente dei fenomeni permettono di circoscriverli, delimitandoli come campi d’indagine sempre in relazione con differenti contesti storici e culturali. Ogni analisi antropologica, ogni etnografia, è sempre situata, prendendo posizione all’interno di specifiche dimensioni storiche, sociali, economiche, ecc. Interrogarsi sulla contemporaneità e su come questa si rifletta sulla disciplina e sui suoi strumenti analitici, diventa una necessità metodologica. Com’è cambiato allora il concetto di popolo? E che cosa intendiamo quando facciamo riferimento a questa categoria in antropologia? Due domande che vanno attentamente distinte, per non rischiare di proiettare acriticamente nella realtà sociale dei costrutti teorici, o viceversa accogliere nella disciplina delle categorie culturali senza problematizzarle.

gramsciIn un recente articolo sulla relazione tra popolo, populismi e trasformazioni sociali, Fabio Dei (2020) fa riferimento ad Antonio Gramsci e alla suo concetto di «egemonia culturale». Il pensiero di Gramsci ha trovato ampio spazio nell’antropologia politica già dagli anni Novanta (come nel lavoro dei Comaroff) ma anche in Italia non mancano recentissimi segni di interesse (Pizza 2020). Le analisi politiche di Gramsci, in particolare quelle elaborate nei Quaderni del carcere (Gramsci 1977), applicano il materialismo dialettico di Marx e la teoria della lotta di classe alla genesi e allo sviluppo dello Stato italiano. Il rapporto tra classe egemone e subalterna ruota attorno al concetto di «egemonia culturale»:

«[…] la supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come “dominio” e come “direzione intellettuale e morale”. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a “liquidare” o a sottomettere anche con la forza armata ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo» (Q19, §24).

 Questa è una definizione “classica” che troviamo nei Quaderni, in cui Gramsci distingue due possibili modalità di controllo. Limitandoci al contesto occidentale, la seconda forma è certamente quella più interessante per le sue possibili implicazioni culturali. Tuttavia, per riprendere correttamente e criticamente il concetto di egemonia, occorre tenere conto di due aspetti problematici. Anzitutto, l’egemonia culturale non è una categoria astorica, ma viene elaborata da Gramsci durante (e in risposta a) una precisa stagione politica internazionale, che in Italia si lega alla formazione, militante e ideologica, del PCI. Inoltre, l’interpretazione gramsciana del marxismo non ne elimina il carattere dialettico tra classi sociali (borghesia/proletariato, egemone/subalterna), il quale rischia di congelare una situazione storica specifica, universalizzandola. In verità Gramsci è consapevole di questo rischio, o quantomeno esprime dei dubbi, domandandosi per esempio se una nazione possa ancora esercitare una reale egemonia culturale sulle altre (Q9, §132). L’interrogativo di Gramsci può essere trasposto oggi all’interno dello Stato, se come Dei ci chiediamo se sia ancora possibile individuare una classe egemone e una subalterna. Spingendo più in là la questione, la stessa categoria di popolo appare come una costruzione storica e ideologica ereditata dall’Ottocento, rielaborata oggi dai vari populismi e sovranismi nazionali in modo retorico e finalizzato.

Sforziamoci però di mantenere distinte le due domande che ci siamo posti all’inizio. A prescindere dalle trasformazioni storiche di questo concetto, in antropologia ne possiamo parlare come di una costruzione identitaria, e in questo senso l’egemonia culturale può essere uno strumento analitico ancora valido, pur con le dovute accortezze critiche. Giustamente, Dei si interroga su dove passi oggi il confine tra classi egemoniche e subalterne, nella nostra società. È ancora possibile, vista la nuova condizione socio-economica di benessere “di maggioranza”, individuare una classe subalterna? Pensando all’assetto globale contemporaneo, forse possiamo tornare al dubbio di Gramsci e spostare lo sguardo al di là dei confini nazionali, guardando a quei gruppi che vivono fuori dagli Stati, tra di essi, marginali per definizione e subalterni di fatto. Non è pensabile affrontare qui le implicazioni di questo “semplice” cambio di prospettiva, ma possiamo iniziare a considerare ciò che rende possibile la marginalità, e che allo stesso tempo è alla base di numerosi processi identitari: il confine. Del resto, una nazione si definisce sulla base dei suoi confini, e lo stesso concetto di popolo si lega molto presto alla questione delle frontiere. La creazione, l’irrigidimento e la moltiplicazione dei confini, territoriali o meno, sono parte integrante delle costruzioni identitarie, ma rappresentano anche delle pratiche egemoniche che mettono drammaticamente “fuori gioco” gruppi e comunità.

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Esempio di frontiera come “linea avanzante”: l’espansione ad Est del nazismo (collections.ushmm.org)

Tra confini, frontiere e margini

L’intero pianeta, compresi gli oceani e l’atmosfera, è attraversato da confini e frontiere stabilite dagli uomini, un’immensa griglia culturale che, a poterne seguire le trasformazioni nel tempo, restituirebbe una sorta di immagine per contrasto dei fenomeni politici mondiali. I confini attraversano il corpo del pianeta come il corpo degli uomini e delle società che li creano, con riferimento alla macro-distinzione tra territoriale e simbolico. Oggetto interdisciplinare, in antropologia è improbabile non imbattersi almeno una volta in questo tema; impossibile, quando si parla di identità. Un esempio su tutti, la recente riflessione di Remotti sulla funzione culturale e sulle diverse forme di confini, che per certi versi riprende la frase di Deridda riportata in esergo:

 «[…] la costruzione di qualsiasi soggetto (si tratti di “io” o si tratti di “noi”) non può prescindere dalla delineazione di confini: un soggetto deve guadagnarsi una sua riconoscibilità e i confini svolgono una funzione insostituibile in questo senso. Ma – come si è detto – ci sono confini e confini: confini fatti per chiudere, per proteggere e per impedire l’accesso ai rispettivi territori, e confini fatti invece per organizzare lo scambio e la comunicazione con gli altri» (Remotti 2019: 12).

Il confine rappresenta indubbiamente un «taglio» identitario nell’intreccio di somiglianze che percorre il mondo, e che agisce proprio negando alcune somiglianze, enfatizzando per contrasto la vicinanza di altri tratti. Il taglio del confine implica perciò sia un’esclusione, sia un contenimento: ogni identità si costituisce sempre attraverso la negazione di un’alterità, a vari gradi e su vari livelli. Tutto questo diventa evidente considerando l’epoca dei nazionalismi novecenteschi, con la creazione di Stati-nazione di cui le frontiere sono parti integranti, fondative. Il caso di Friedrich Ratzel, etnologo tedesco e fondatore della geografia politica, è emblematico: Ratzel considera la frontiera come un elemento costitutivo del popolo, la periferia viva del corpo della nazione (Ratzel 1902: 606-617). Al geografo tedesco dobbiamo anche la prima formulazione del concetto di Lebensraum, elaborato dall’ideologia nazista come spazio territoriale e identitario naturalmente conflittuale, una frontiera in espansione a spese degli altri Stati.

Tuttavia la frontiera non coincide sempre con il confine. In proposito, Viazzo (2007) ci ricorda la ricchezza semantica di questo concetto: “confine”, “frontiera”, “limite”, “margine”, esprimono sfumature differenti che occorre contestualizzare. Del confine abbiamo già sottolineato il carattere duplice, la sua funzione di contenimento ed esclusione (come taglio), ma anche la possibilità di accesso e attraversamento (come soglia). Solo in geometria esistono confini privi di estensione, perfettamente netti: ogni confine culturale è poroso, passibile di interruzioni, irregolarità, eccezioni. Perfino le frontiere, solitamente associate a linee invalicabili tra le nazioni, possono essere instabili, mobili, come nella descrizione fattane da Turner come di una “linea avanzante”, applicabile tanto al West americano quanto all’Ostraum nazista.

La storia degli studi ha contribuito non poco a differenziare i concetti di confine e frontiera: un momento chiave è stata la pubblicazione nel 1969 del volume Ethnic Groups and Boundaries, curato da Fredrik Barth. Nella sua magistrale introduzione, Barth sottolinea il ruolo dei confini nel fondare l’etnicità, intesa come particolare tipo di costruzione identitaria (Barth 1969); vengono inoltre distinti nettamente i termini frontier e boundary, traducibili – al netto delle inevitabili sfumature terminologiche – come “frontiera” e “confine” (Viazzo 2007: 21-23). Negli anni Settanta questa distinzione viene rafforzata dal differente favore che questi due termini ricevono all’interno delle discipline. Seguendo la via tracciata da Barth, le scienze umane e sociali si concentrano maggiormente sul boundary, inteso sempre di più come confine simbolico e sociale, avviando così una forte de-territorializzazione del confine. Lo stesso Gramsci, del resto, riconosceva l’esistenza di «confini sociali» (Q13, §23), che in virtù della loro dimensione simbolica permettevano la creazione di gruppi interni alla società dotati di un forte senso identitario. Al contrario, il concetto di frontier rimarrà fortemente ancorato alla dimensione fisica e territoriale tipica degli studi geografici e geo-politici.

fig-3Occorrono quasi vent’anni perché la prospettiva duale inaugurata da Ethnic Groups and Boundaries cominci a cambiare, con l’introduzione del nuovo concetto di border. Per molti aspetti, nessuno dei quali casuale, il 1989 rappresenta l’annus mirabilis per i Border studies. La caduta del Muro di Berlino innesca una profonda trasformazione globale: nei lavori di Donnan e Wilson (1999) il concetto di border permette di cogliere la nuova complessità che tocca identità, nazioni e confini. È interessante che, negli stessi anni in cui Wilson e Donnan si occupano dei borders, anche Fabietti rielabori il concetto di frontiera. In un lavoro ormai classico, Fabietti analizza il legame tra costruzioni dell’etnicità e confini (1998: 95-116), soffermandosi sul loro ruolo di formatori d’identità. L’antropologo italiano sottolinea come la frontiera sia il luogo – simbolico e fisico – del meticciato, dell’ibridazione delle differenze: non solo produttore di identità, ma anche spazio liminale dove le identità si sovrappongono e si confondono, lontano dal “centro”. Di nuovo, tematiche che trovano piena cittadinanza all’interno dei Border studies.

Per caratterizzare il border rispetto ai concetti confinanti di frontier e boundary torna utile l’esempio storico del mark tedesco. I mark (march, marque, marca) erano parti della struttura territoriale e politica dell’Impero carolingio, stabiliti per delimitare le regioni di confine. Costituivano al tempo stesso i limiti dell’Impero, le sue frontiere d’espansione e delle zone cuscinetto (buffer zone) con le altre comunità. Come molte altre parole usate in Europa per riferirsi al confine, il termine mark deriva dalla radice indoeuropea *merg, con il senso di «segnare, tracciare (un confine)”, e per estensione “contrassegno, marca, margine» (Watkins 2000: 55). Qualcosa di questa eredità etimologica è sopravvissuta nel tempo, dato che nei Border studies viene posta molta attenzione alle condizioni di marginalità e subalternità. Come ricordavamo sopra parlando della porosità dei confini, ogni border attraversa il campo sociale con un proprio spessore: i suoi margini non si limitano ad escludere e circoscrivere in modo netto, ma possono anche nascondere, rendendo invisibile ciò che sta sotto quel contrassegno.

Le condizioni di marginalità lungo le frontiere sociali rimangono un tema forte anche negli anni Duemila. In un importante resoconto sui boundaries, Molnár e Lamont (2002) evidenziano come il focus degli studi sia rivolto ai confini simbolici e al loro ruolo nel creare, contestare e perfino dissolvere le differenze sociali. I due autori riscontrano quattro macro-tematiche: identità sociali e collettive (a), disuguaglianze razziali, di genere, di classe (b), scienza e sapere specialistico (c), confini spaziali e identità collettive (d). È facile notare come ciascuna di esse rifletta un particolare “effetto” dei confini simbolici: processi di costruzione identitaria (a), condizioni di subalternità (b), produzione, diffusione e accesso alla conoscenza (c) e infine costruzione dell’identità collettiva (d). Solo l’ultimo punto comprende la questione dei confini fisici, segno che ancora la maggioranza degli autori condivide l’ottica della de-territorializzazione inaugurata da Barth. I due autori arrivano perfino a definire il border come un «territorial boundary» tout court (Lamont & Molnár 2002: 184).

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Caduta del Muro di Berlino (www.businessinsider.com)

Gli effetti culturali della globalizzazione, come i vari «-scape» di Appadurai, hanno certamente incentivato questa visione de-territorializzata dei confini. D’altra parte ha permesso di evidenziare come confini e frontiere, sganciati dal substrato fisico, siano oggetti costruiti culturalmente attraverso precise retoriche pubbliche. Wimmer (2008) è uno degli autori che riflette maggiormente sulla strutturazione moderna del confine in funzione del consenso culturale. Il suo approccio multi-livello per i confini etnici considera tre aspetti del campo sociale: l’ordine istituzionale, la distribuzione del potere, il network politico. Non è causale che questi stessi fattori siano presenti anche nel concetto di egemonia culturale di Gramsci, pur se con termini differenti (Q1, §44). Ispirandosi alla linea d’analisi gramsciana, Wimmer considera «[the] ethnicity as the outcome of a political and symbolic struggle over the categorical divisions of society» (Wimmer 2008: 985). Rielabora criticamente il concetto di egemonia culturale, proponendo un cultural compromise tra le parti sociali, concetto più flessibile e adatto alle relazioni politiche del contesto contemporaneo (Wimmer 2008: 998).

Barth, Fabietti e Wimmer trattano dei confini come costruttori dell’etnicità, ma questa prospettiva può essere estesa anche alle identità nazionali. L’etnicità, del resto, rimane una delle possibili organizzazioni culturali della differenza (Verdery 1994: 35), così come quella di nazione e popolo. Dobbiamo chiederci quale sia il legame tra queste forme identitarie, specie quando consideriamo l’impiego – quantomeno ambiguo – del concetto di “popolo” da parte dei sovranismi nazionali. In un volume che recupera criticamente l’eredità di Barth, Verdery sottolinea la centralità del potere per l’affermazione e il riconoscimento dell’identità (Verdery 1994: 56), l’idea che le etnie siano delle “nazioni per difetto” di autorità. Di certo, lo scenario contemporaneo ci ha ormai abituato all’idea di popoli che sono nazioni “per difetto di confini”.

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Correlazione di Wimmer tra consenso culturale, disuguaglianza sociale e distribuzione del potere (Wimmer, Andreas, 2008, The Making and Unmaking of Ethnic Boundaries: A Multilevel Process Theory, American Journal of Sociology 113: 970-1022)

Sembra paradossale che negli ultimi trent’anni, mentre veniva enfatizzata la dimensione simbolica e sociale delle frontiere, assistiamo all’aumento e alla “ri-territorializzazione” dei confini moderni (Vallet 2014). La creazione di muri (USA/Messico, Cipro, Israele/Palestina), la Brexit, le rotte migratorie attraverso le frontiere dell’UE (mar Mediterraneo, confine Grecia/Turchia), sono tutti fenomeni che ripropongono il problema dei confini e dell’identità. Di pari passo, sulla scena politica mondiale si vanno affermando nuovi partiti e movimenti populisti, che recuperano il concetto di “popolo” all’interno di retoriche identitarie e sovraniste. L’insistenza del populismo sul tema delle frontiere non è casuale, ma “connaturata” alla struttura stessa di questo fenomeno politico. Sovranismi e populismi, pur differendo molto a seconda dei contesti, sono indicatori di un cambiamento storico all’opera intorno alla categoria di popolo.

Ora, riprendere in antropologia le riflessioni di Gramsci sul “popolo” come soggetto storico e politico, significa domandarsi se sia (ancora) possibile pensare un progetto demologico che sia anche percorso democratico. In questo senso, la crisi della demologia rilevata da Dei (2020) è anche un segnale di una più ampia e complessa crisi delle modalità democratiche, ossia delle forme con cui il popolo esercita il proprio potere sovrano. La demagogia, che accomuna così tanti populismi, è un’altra faccia di questa crisi. Classificarla frettolosamente come una “degenerazione” della democrazia – sulla scorta di una lunga tradizione di pensiero che passa per Platone e Machiavelli – non permette di comprenderne appieno la portata di fenomeno politico. Non è casuale che questo avvenga a livello di partiti e movimenti, cioè in fenomeni che sono parte della società civile, in cui secondo Gramsci si produce una egemonia culturale fondata sul «libero consenso» delle masse (Q25, §5). La demagogia populista appare come una modalità contemporanea di esercizio del potere, basato su un cultural compromise mediato e incanalato da figure carismatiche, su un popolo che si costituisce e si contrappone “dal basso” ai poteri costituiti (contro governo nazionale, UE, istituti finanziari internazionali, ecc), e su una forte narrazione identitaria. Apparentemente, un’inversione della «direzione intellettuale e morale» di Gramsci: la massa del popolo sembra delegare il proprio potere ad una figura vicaria, come in quella sorta di «gioco dell’irresponsabilità» ipotizzato da Baudrillard. Ma si tratta in realtà di un effetto di senso generato dalla stessa demagogia populista, una distorsione (questa volta sì) della percezione collettiva, di un gioco di echi in cui il “popolo” si conferma anzitutto come costrutto narrativo.

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Opera di Bansky a Clacton-on-Sea (Essex, UK)

Sono le narrazioni pubbliche, insieme di linguaggi e simbologie del potere, che permettono al concetto di popolo di prendere corpo all’interno della comunità. La costruzione del consenso nella demagogia populista avviene con un “sovraccarico retorico” del concetto di popolo-nazione, enfatizzando la condivisione di certi tratti valoriali mediante l’esclusione di altri. In altre parole, il mantenimento e la moltiplicazione dei confini rappresentano la principale strategia usata dai populismi per modellare l’auto-percezione della comunità, elemento centrale nel processo di costruzione identitaria (Dei 2020). L’identità nazionale diventa così una categoria non discutibile, totalizzante, legata a doppio filo con il territorio dello Stato: in questo senso, i confini costituiscono degli “echi periferici” del popolo. Il “corpo della nazione” è sempre duplice: umano e geografico. Bisogna difendere i confini, impedire l’accesso ai migranti, espellerli se possibile; corpi estranei, la loro presenza mette doppiamente a rischio l’integrità dello Stato. La moltiplicazione delle frontiere e la loro ri-territorializzazione è anche frutto delle narrazioni sovraniste, in cui la costruzione simbolica dell’identità avviene riaffermando il controllo fisico dei confini dello Stato. Su questo sfondo, le pratiche di securizzazione e sorveglianza appaiono quasi come un corollario necessario.

Siamo partiti chiedendoci se fosse possibile ripensare la categoria di popolo. Il fenomeno dei populismi mostra come questo concetto stia già venendo ripensato nella quotidianità, all’interno di retoriche pubbliche e costrutti identitari. In questo processo, in cui i confini giocano un ruolo centrale, la tripletta boundary-frontier-border conferma la sua validità di strumento analitico (Wastl-Walter 2011; Wilson & Donnan 2012). I populismi presuppongono un popolo “dal basso”, che si auto-percepisce e rappresenta come centro di irradiazione identitario, e in questo senso “originario”. Una prospettiva etnocentrica che ribalta il processo di costruzione dell’identità: prima esiste il reticolo delle somiglianze, e solo dopo i confini intervengono distinguendo, contenendo ed escludendo. E tuttavia, l’insistenza dei populismi per le frontiere è un segnale del loro disagio verso queste costruzioni culturali: realizzate per dividere, ma al tempo stesso possibilità di accesso, meticciato, passaggio. Nessun taglio identitario può essere davvero netto, ogni confine per quanto rigido non è mai davvero privo di eccezioni.

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Migranti al confine tra Grecia e Turchia (www.repubblica.it)

Infrazioni, eccezioni

I periodi di crisi rappresentano fasi cruciali in ogni contesto culturale. Disastri e catastrofi sono per definizione imprevedibili, e costringono a rimettere in discussione i nostri modelli di vita, sospendendo la quotidianità. Ogni crisi infrange dei confini, mostrando l’assoluta contingenza delle frontiere e dei limiti stabiliti dall’uomo, In questo senso, l’attuale emergenza climatica ci sta rendendo sempre più consapevoli di quanto labile sia il confine tra catastrofe naturale e disastro umano: la lezione del Novecento evidenzia come alla base di entrambi vi sia una comune hybris distruttiva (D’Onofrio 2019). A queste drammatiche infrazioni dell’equilibrio, le comunità rispondono rimodellando la propria identità, stabilendo nuovi confini o irrigidendo quelli esistenti: un esempio è la moltiplicazione delle frontiere in Sud Sudan, dove il lungo conflitto civile sta portando alla formazione di identità territoriali cristallizzate (Martellozzo 2019). Ma l’esempio che più ci tocca da vicino è sicuramente quello dell’attuale pandemia globale causata dal Covid-19.

Penso sia doverosa una premessa, prima di entrare nel merito del Coronavirus. Stiamo vivendo l’inizio di un fenomeno complesso e per molti versi inedito, i cui effetti continueranno a riflettersi sulla società globale per i prossimi anni. Di fronte alla portata storica di questo evento, ad una situazione in costante evoluzione, ogni analisi corre il rischio di essere parziale e superficiale. Non solo questa pandemia globale avviene durante uno dei massimi periodi di sviluppo e traffico globale, ma anche – e per la prima volta – in presenza dei social network. Questo connubio ha implicazioni enormi sulla percezione del reale e sul modo in cui individui, comunità e nazioni stanno vivendo ed affrontando l’emergenza. All’interno dell’attuale plateau comunicativo, il rischio è quello di sovraccaricare il discorso scientifico, intorbidendo ulteriormente la percezione sociale con una mole impressionante di dati, interventi e articoli senza apportare un contributo reale. Un’ansia di commentare, di proporre riflessioni à la page i cui toni, a volte, hanno ben poco di scientifico, come nel recente “dibattito” a distanza tra due filosofi italiani (Agamben 2020; Flores d’Arcais 2020).

Tuttavia, un confronto sul Covid-19 è altrettanto importante, specie nelle scienze umane per la possibilità che hanno di fornire degli strumenti pubblici per interpretare la realtà quotidiana. Per questo motivo ho raccolto con piacere l’appello per un ampio confronto tra le pagine di questa rivista. In Italia, alcuni antropologi hanno già cominciato a riflettere sulla dimensione culturale del Coronavirus, «una entità che evade dall’ambito stretto della salute e intercetta tanto il piano della risposta sociale al pericolo [...] quanto quelli della narrazione [...] e, naturalmente, della risposta politica» (Saitta 2020), e sull’importanza della strutturazione sociale per condividere e gestire la paura individuale generata dal virus (Vereni 2020). Nella parte finale di questo articolo, proveremo a riflettere su come il fenomeno Covid-2019 stia agendo sui confini, territoriali e simbolici.

In effetti, fin dalla sua diffusione in Cina, il Coronavirus si caratterizza per la capacità di abbattere tutta una serie di confini e barriere, cominciando dalla “classica” divisione antropologica tra natura e cultura. Il Covid-19 è una zoonosi, ossia un’infezione che si trasmette dagli animali all’uomo attraverso uno spillover, un salto di specie che la rende pericolosa per l’organismo (Quammen 2014). Ebola, dengue, HIV, sono alcune delle zoonosi più conosciute, ma vi rientrano tutti i ceppi di influenza che ogni anno colpiscono la popolazione mondiale. La mutazione subìta dal Coronavirus ha reso possibile il passaggio dal pipistrello all’uomo, potenziandone inoltre la trasmissione per via aerea. La pandemia globale, frutto di questa nuova zoonosi, ha messo in evidenza la fragilità del taglio identitario promosso dall’antropocentrismo, che isola l’uomo all’interno della natura. Al contrario, la specie umana continua ad essere parte di un ecosistema globale, intrecciata alle altre specie animali e vegetali, e agli stessi agenti patogeni.

Passando ai confini territoriali, il diffondersi del Coronavirus in Europa ha portato alla chiusura dell’area Schengen. Gli Accordi di Schengen sulla libera circolazione dei cittadini sono uno dei pilastri dell’Unione Europea, parte di un “mito fondativo” di segno opposto rispetto alle frontiere nazionaliste del primo Novecento. Il blocco della circolazione riguarda solo le persone, non le merci, ma si tratta comunque di una decisione straordinaria: prima della decisione di marzo, gli accordi di Schengen erano stati sospesi solo per ragioni di ordine pubblico durante i G8 del 2001 e del 2005, limitatamente a Italia e Germania. La chiusura dei confini comunitari è stata per certi versi anticipata dai singoli Stati membri, i quali hanno scelto di bloccare le frontiere con l’Italia e i Paesi più contagiati.

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Distribuzione globale del Covid-19 al 26 marzo 2020 (www.ecdc.europa.eu)

La sospensione degli accordi di Schengen ha importanti ricadute anche sulla situazione lungo i confini extra-comunitari, specie in relazione al transito dei migranti verso l’UE. Esiste una relazione conflittuale tra ogni fenomeno migratorio e il confine: le migrazioni, risultato di crisi strutturali, minacciano i costrutti identitari e l’ordine politico imposto allo spazio, ostinandosi ad attraversare le frontiere, le quali vengono moltiplicate e irrigidite per resistere e respingere i flussi migratori. L’agire del migrante evidenzia la duplicità del confine che avevamo segnalato sopra: contenitore rigido, ma anche soglia porosa. La globalizzazione ha per molti versi esasperato questa ambiguità dei border, come nel caso dell’attuale blocco di Schengen: come rileva Fassin (2011), la facilità di circolazione delle merci è controbilanciata dalla difficoltà nel transito delle persone. In questo senso, la sospensione degli accordi di Schengen per il Covid-19 e lo stallo dei migranti tra Grecia e Turchia sono accomunati da una medesima governance del confine. Sia chiaro, non si tratta di una scelta esclusivamente europea, ma di un approccio trasversale che, oltre alla ri-territorializzazione, impiega nuove pratiche di sorveglianza e controllo delle frontiere (Vallet 2014; Wille et. al. 2015).

Pertanto, la gestione dei fenomeni migratori può fornirci spunti preziosi per il caso del Coronavirus. L’analisi di Fassin evidenzia tre aspetti in particolare: una condizione di marginalità prodotta dai confini (a), un incremento degli «stati di emergenza» (b), la dimensione incorporata del confine (c). L’irrigidimento delle frontiere e le discordanti politiche d’intervento tra gli Stati contribuiscono alla gestione dei migranti attraverso quello che Agamben chiama «stato d’eccezione» (Agamben 2003), una particolare condizione di vuoto giuridico che viene supplita, de facto, con la tendenza a creare prassi tacitamente accettate dalle istituzioni. I grandi flussi migratori, così come le nuove forme di terrorismo e l’attuale pandemia globale, sono fenomeni della contemporaneità per cui non esiste ancora un riferimento preciso nel diritto, ma che ciascuno Stato si trova a dover gestire. Non una condizione anomica, ma anomala, per riprendere Baudrillard.

Il terzo aspetto considerato da Fassin permette di rielaborare la prospettiva della de-/ri- territorializzazione dei confini. L’antropologo francese nota come l’esperienza del confine, cioè l’insieme delle tecniche di controllo e sorveglianza, dei linguaggi simbolici e delle pratiche egemoniche che caratterizzano la dimensione culturale del confine, venga incorporata sia da parte dei migranti, sia dai funzionari dell’apparato burocratico-militare (Fassin 2011: 215). Oltre la dicotomia territoriale/simbolico, ogni confine prende sempre “corpo” negli uomini attraverso le loro inter-relazioni: ogni frontiera esiste solo nella misura in cui le persone cercano di stabilirla, consolidarla, attraversarla o infrangerla. Una parte sempre più grande della popolazione mondiale sta facendo esperienza di questa dimensione incorporata del confine. Il lockdown imposto dai governi nazionali sta creando milioni di nuove frontiere. Nonostante si stia spingendo verso misure più rigide di sorveglianza della popolazione (impiego di droni, app, campionamenti con tamponi, ecc), anche la semplice regola di mantenere una distanza minima tra le persone ha introdotto all’improvviso l’esperienza del confine nel quotidiano.

Ormai più di metà della popolazione mondiale sta sperimentando una condizione finora marginale, nel duplice senso di essere relegata ai margini e riguardante gruppi marginali. Questa moltiplicazione straordinaria dei confini rimane, in attesa della produzione di un vaccino, la misura più efficace per contrastare la diffusione del Coronavirus, riducendo il contagio. Quest’ultimo non rappresenta solo un «nemico invisibile che si annida in ciascun altro uomo» (Agamben 2020), ma una sistematica infrazione dei confini, data dalla capacità del virus di entrare, biologicamente e simbolicamente, nei corpi umani. Di corpo in corpo, come ogni malattia contagiosa il Covid-19 mette in crisi la nostra visione della persona come individuo, introducendo una inter-soggettività drammatica, “flussi virali” che mettono a contatto una parte crescente della popolazione globale.

Gramsci ricordava come ogni fatto storico non possa avere confini nazionali strettamente definiti: la storia è sempre storia mondiale (Q29, §2). La pandemia del Covid-19, come fenomeno virale e culturale, conferma la sua lezione, e di certo cambierà radicalmente il modo in cui penseremo e vivremo i confini. Di certo, finora ha mostrato come dietro le singole comunità, dietro le identità nazionali o regionali che siano, dietro a quella griglia culturale che imponiamo al mondo, esiste un intreccio di relazioni e somiglianze che non si lascia facilmente ridurre o respingere, e di cui siamo sempre più chiamati a prendere consapevolezza.

Dialoghi Mediterranei, n. 43, maggio 2020
 Riferimenti bibliografici
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 Fassin, Didier, 2011, “Policing Borders, Producing Boundaries. The Governmentality of Immigration in Dark Times”, Annual Review of Anthropology 40: 213-226.
 Flores d’Arcais, Paolo, 2020, “Filosofia e virus. Le farneticazioni di Giorgio Agamben”, MicroMega 16 marzo 2020, http://temi.repubblica.it/micromega-online/filosofia-e-virus-le-farneticazioni-di-giorgio-agamben/ [controllato 26/03/2020].
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Nicola Martellozzo, dottorando presso la Scuola di Scienze Umane e Sociali (Università di Torino), negli ultimi due anni ha partecipato come relatore ai principali convegni nazionali di settore (SIAM 2018; SIAC 2018, 2019; SIAA-ANPIA 2018). Con l’associazione Officina Mentis conduce un ciclo di seminari su Ernesto de Martino in collaborazione con l’Università di Bologna. Ha condotto periodi di ricerca etnografica nel Sud e Centro Italia, e continua tuttora una ricerca pluriennale sulle “Corse a vuoto” di Ronciglione (VT).

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