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Fede e obbedienza in Don Milani
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2018 @ 00:35 In Letture,Religioni | 1 Comment
«Secondo i dettami della psicoanalisi “obbedire” significa seguire le parole dell’altro in maniera così coraggiosa e gentile, seria e serena, precisa e paziente da essere disposto a comprenderlo più di quanto egli in quel momento osi comprendere se stesso; significa percepire le figure, le esperienze e le scene condensate presenti nelle e dietro le sue descrizioni, aiutarlo a prendere coscienza dei contrasti e delle contraddizioni tra il suo pensiero e i suoi sentimenti e, a volte, significa anche interpretare per lui il suo vissuto con l’aiuto di immagini, che riflettono i suoi sogni che, in un certo senso li anticipano». Così Eugen Drewermann in Funzionari di Dio. Psicodramma di un ideale (1995).
Don Milani pacificato
Affrontare il tema Fede e obbedienza in Don Milani [1], è per me fonte di sofferenza. Leggendo per intero la sua opera e meditandone i contenuti [2], ho sempre sentito un dolore fortissimo emanare da quelle righe. Dolore che trovava «una strada per emergere ed esprimersi» nella rabbia dell’escluso. Rabbia che poteva essere facilmente scambiata per indolenza o – ancora peggio – in insubordinazione e disobbedienza nei confronti dell’ordine costituito. Oggi, a distanza di molti anni, siamo in grado di poter comprendere come al centro delle preoccupazioni di Don Milani ci fosse il problema dell’essere riconosciuto come un prete autenticamente fedele al Vangelo. Un discepolo che obbedisce fedelmente al messaggio del suo Maestro [3]. Quella di Don Milani è la vicenda di un’obbedienza non riconosciuta e scambiata per il suo contrario. Questa tragica inversione ci costringe a fare un passo indietro per andare alla fonte delle intenzioni di Don Milani, alla radice della sua volontà di aderenza.
Obbedire a Dio e non agli uomini
Vorrei ricordare un momento drammatico nella storia della Chiesa nascente che avrebbe potuto decretarne anche la fine e riportato negli Atti degli apostoli. Gli apostoli di Gesù colpevoli di compiere prodigi sono condotti di fronte alla massima autorità ebraica che ha compito di far rispettare la Legge della Torah in ogni suo atto:
Gli apostoli sono disobbedienti di fronte alla legge del Sinedrio – e quindi degni della morte – mentre sono obbedienti a un Dio che sembra agire in maniera diversa da come lo percepiscono i membri del Sinedrio.
Non sono disobbedienti in assoluto ma solo rispetto alla legge fissata dal Sinedrio. Ai loro occhi esiste un’altra legge alla cui obbedienza non possono rinunciare, neanche al rischio della vita. Essi sono portatori di un nuovo inizio, di una nuova narrazione e le “regole grammaticali” della precedente narrazione non contano più. Loro parlano una nuova lingua con nuove regole. I rischi cui vanno incontro non solo sono accettabili ma anche desiderabili. Non dobbiamo avere nessun timore a dire che agli occhi del Sinedrio sono dei fanatici, degli esaltati pronti a morire [5]. L’intervento del dottore della legge Gamaliele non è solo un esempio di lungimiranza politico-strategica ma l’apertura ai possibili dello spirito che ci deve far riflettere.
Così ancora gli Atti:
«Si alzò allora nel sinedrio un fariseo, di nome Gamaliele, dottore della Legge, stimato da tutto il popolo. Diede ordine di farli uscire per un momento e disse: «Uomini d’Israele, badate bene a ciò che state per fare a questi uomini. Tempo fa sorse Tèuda, infatti, che pretendeva di essere qualcuno, e a lui si aggregarono circa quattrocento uomini. Ma fu ucciso, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui furono dissolti e finirono nel nulla. Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento, e indusse gente a seguirlo, ma anche lui finì male, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui si dispersero. Ora perciò io vi dico: non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questo piano o quest’opera fosse di origine umana, verrebbe distrutta; ma, se viene da Dio, non riuscirete a distruggerli. Non vi accada di trovarvi addirittura a combattere contro Dio!».
Seguirono il suo parere e, richiamati gli Apostoli, li fecero flagellare e ordinarono loro di non parlare nel nome di Gesù. Quindi li rimisero in libertà. Essi allora se ne andarono via dal Sinedrio, lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù. E ogni giorno, nel tempio e nelle case, non cessavano di insegnare e di annunciare che Gesù è il Cristo» [6].
Dunque, la possibilità – anche se remota – che la nuova legge cui fanno affidamento gli Apostoli venga direttamente dalla suprema entità inspiratrice di tutte le leggi, lascia aperto un margine di “tolleranza” che frena rispetto all’esecuzione della pena capitale ma non della tortura.
Ora, quest’atteggiamento di prudenza, possibilista, ci descrive bene come l’ebraismo del tempo si fosse arroccato dietro un legalismo asfittico intenzionato a proteggere la propria struttura di potere e i propri privilegi.
Il cristianesimo nella sua fase nascente è stato dunque una setta [7] con le sue regole e i suoi rituali. Disobbediente all’ordine costituito e portatore di un nuovo ordine. Gesù era il diretto ispiratore di questa disobbedienza?
Quando nacque Gesù esisteva già un complesso sistema religioso e sociale con le sue regole e i suoi schemi prestabiliti. Se avesse voluto adattarsi a questa realtà e scomparire nell’ortodossia ebraica lo avrebbe potuto fare senza nessun problema. E sembra quasi – anche se di questo non abbiamo nessuna certezza – che fino a quando non cominciò ad agire pubblicamente fosse un uomo che viveva pienamente nello schema tradizionale [8] della sua realtà sociale. Tuttavia, superata la fase in ombra, egli emerge prepotentemente con una carica anti quotidiana incontenibile. Egli agisce oltre le regole della sua appartenenza religiosa e persino oltre le regole della sua appartenenza al genere umano. I suoi “miracoli” sono il segno accessibile a tutti del fatto che egli agisce con una potenza nuova e inaudita.
Se è vero che Gesù “obbedisce a Dio”, è vero anche che quest’obbedienza è sentita dalla comunità religiosa in cui vive come scandalo e come critica alle fondamenta della legittimità. Un fatto gravissimo che deve essere compreso anche dal punto di vista della coesione sociale. Gesù agisce mosso da una potenza che mette in discussione l’ordine prestabilito. Ribaltando i tavoli dei cambiavalute e scacciando i venditori dal Tempio egli agisce con un furore religioso talmente sconvolgente da causare lo sdegno nei sommi sacerdoti e negli scribi. Le sue meraviglie per i poveri e gli esclusi sono tormento per la classe dirigente ebraica.
Una classe che per conservare se stessa è disposta a sacrificare Gesù e il suo potenziale di liberazione. Uccidendo Gesù non si uccideva il figlio di Dio – perché, di fatto, nessuno gli credeva – ma un uomo dotato di un potere di liberazione degli oppressi che metteva in discussione la legittimità del potere religioso. Con il suo modo di fare, con la sua aperta sfida lanciata al legalismo, Gesù si espone alla ritorsione di un potere che si sente minacciato sino alle fondamenta.
La domanda che i sommi sacerdoti e gli anziani del popolo pongono a Gesù entrato a predicare nel Tempio è di fondale importanza: «Con quale autorità fai questo? Chi ti ha dato questa autorità?» (Mt, 21, 23). Chi permette a Gesù di fare quello che fa? Dove attinge tutta questa forza, convinzione, determinazione, saggezza, profondità di dottrina e di pensiero? Non è forse questi il falegname, il figlio di Maria, e il fratello di Giacomo e di Iose, di Giuda e di Simone? (Marco 6, 3).
Dobbiamo sforzarci di comprendere che l’agire di Gesù è sconvolgente. Egli non è il capo di una rivolta o il leader di un movimento politico. La sua rivoluzione è totale, profonda, radicale. È una trasformazione che va ben oltre una possibile “riforma dell’ebraismo”. Con Gesù comincia un nuovo racconto su l’uomo.
Fondamentale è dunque capire come Gesù si rapportava con i suoi più intimi seguaci. Quelli che lui stesso ha chiamato con Lui per una vita nomade e comunitaria. Ho trovato utile questo schema di Giovanni Pezzuto sullo stile educativo di Gesù che vi ripropongo:
Non c’è nessuna traccia nei Vangeli di un Gesù autoritario e dispotico. Gesù non è un generale a capo di un esercito e neanche un comandante partigiano pronto a guidare un assalto. Gesù stabilisce con i suoi più intimi un clima di convivialità spirituale al cui centro c’è una nuova idea di amicizia basata sull’amore reciproco. A differenza dei servi che eseguono passivamente degli ordini, i discepoli di Gesù sono amici perché sono stati fatti compartecipi della verità dell’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte a Dio.
La comunità nuova fondata sull’amore reciproco non può, in nessun caso, prevedere un’obbedienza cieca. Nessuno obbedisce ciecamente ai propri amici – tranne che non si tratti di rapporti malati che non possiamo più definire amicizia – proprio perché mantiene nella relazione una propria autonomia di giudizio e di azione.
Questo non significa che nella comunità non ci siano delle figure di riferimento che la guidano. Ma, in nessun caso, si tratta di impartire ordini o di stabilire rapporti piramidali. La comunità nuova di Gesù è uno spazio dove nessuno «è bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno» (At 4, 34-35). Una comunità in cui si vive «con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo la simpatia di tutto il popolo».
La Chiesa come macchina burocratica
Cosa resta oggi di quella prima comunità? Che cosa è oggi la Chiesa? Qualcuno dei primi Apostoli avrebbe mai immaginato una Chiesa come quella di oggi?
Quella che oggi chiamiamo Chiesa – con particolare riferimento alla Chiesa cattolica alla quale apparteneva Don Milani – è una struttura enorme. Una struttura sociale che ingloba complessi apparati amministrativi, finanziari, comunicativi, organizzativi, sanitari, educativi, diplomatici. Nel 1967 Ivan Illich scriveva a proposito:
All’interno di questa enorme macchina burocratica, la figura del prete assolve funzioni molto complesse che, spesso, hanno poco a che vedere con lo “spirituale”. Vestire l’abito talare permette di accedere a privilegi non indifferenti, soprattutto, per quanto riguarda la stabilità economica e il prestigio sociale [11]. Allo stesso tempo, il prete è spesso talmente impegnato in attività di vario genere (educative, organizzative, amministrative) da non avere neanche il tempo da dedicarsi alla preghiera o alla meditazione del Vangelo.
Il prete deve obbedire a una gerarchia piramidale che se da un lato gli garantisce protezione e sostegno, dall’altro, esige aderenza di pensiero e disponibilità di tempo e di vita. Non è difficile entrare in contrasto con questa struttura, sentire che certi “ordini” non sono veramente ispirati alla logica del Vangelo ma a semplici e diretti interessi corporativi.
Spesso al prete è chiesto di sacrificare parti importanti della propria individualità per favorire le ragioni di una “logica di gruppo” molto più grande e impersonale. Ha scritto bene il gesuita Michel de Certeau:
Per garantire la coerenza di un gruppo così complesso ed esteso è fondamentale creare un pensiero forte e coerente capace di creare stabilità e di rassicurare. Ogni deviazione, ogni messa in discussione dell’ordine stabilito, ogni comportamento capace di creare scandalo sarà prima ignorato, poi condannato e, infine, apertamente osteggiato. Obbedire agli ordini della gerarchia è funzionale al funzionamento di questa megamacchina. Anche quando non lì si comprende o lì si considera sbagliati.
Poco conta – in questa prospettiva – il discorso rassicurante del “libero arbitrio”. Certo, un prete può anche non obbedire agli ordini che gli sono dati. Ma a che prezzo? Cosa rischia? Chiunque si sia arrampicato sul rigido sentiero che conduce a Barbiana è in grado di offrire un primo abbozzo di risposta a questa domanda.
Il problema del riconoscimento
Credo che Don Milani sia stato percepito dalla gerarchia della Chiesa del suo tempo come un disobbediente, un portatore di disordine e di autonomia di azione e di giudizio che non potevano essere perdonati. Ho scritto nella recensione a un volume che analizza gli anni della sua gioventù fino alla scelta del sacerdozio [13]:
«Sono convinto che Don Milani sia morto perché ha sofferto fino al midollo l’esclusione e l’isolamento, il non essere amato e non essere riconosciuto. Soprattutto da una Chiesa dalla quale ha sempre cercato un riconoscimento che in vita non è mai arrivato. Don Milani era un figlio “che nessuno vuole” una linguaccia sconcia in grado di suscitare scandalo. Un prete che credeva che “Tacere non è rispetto. È fare dare una spallucciata dopo aver visto degli infelici che non sanno vivere, gente in mare che non sa nuotare”. Un prete che doveva essere dimenticato e censurato. Una visita a Barbiana può bastare per rendersi conto di come si possa essere stati crudeli nei confronti di un giovane uomo pieno di entusiasmo e di speranza evangelica. Don Lorenzo ha sofferto molto durante la sua vita. Non accetto che questa sofferenza – che è poi la sofferenza dell’escluso, del marginale, del povero e del reietto – sia ricondotta a una narrazione vincente, a un mito pedagogico funzionale al sistema di dominio, a un santino immacolato.
Credo che sia un’ulteriore mancanza di riconoscimento, un’ulteriore ferita nei confronti di un uomo che bramava solidarietà e amore e che l’ha avuto principalmente da quei piccoli montanari che erano diventati la sua Chiesa e la sua ragione d’essere» [14].
Don Milani ha pagato con l’isolamento e la marginalizzazione la sua disobbedienza ed è veramente difficile stabilire se e come il suo operato abbia, in qualche modo, messo in discussione la macchina burocratica della Chiesa e dello Stato.
Martedì, 20 giugno 2017 Papa Francesco si è recato a Barbiana e dopo aver ripercorso le tappe del cammino spirituale di Don Milani ha detto:
«Non posso tacere che il gesto che ho oggi compiuto vuole essere una risposta a quella richiesta più volte fatta da don Lorenzo al suo Vescovo, e cioè che fosse riconosciuto e compreso nella sua fedeltà al Vangelo e nella rettitudine della sua azione pastorale. In una lettera al Vescovo scrisse: “Se lei non mi onora oggi con un qualsiasi atto solenne, tutto il mio apostolato apparirà come un fatto privato…”. Dal Card. Silvano Piovanelli, di cara memoria, in poi gli Arcivescovi di Firenze hanno in diverse occasioni dato questo riconoscimento a don Lorenzo. Oggi lo fa il Vescovo di Roma. Ciò non cancella le amarezze che hanno accompagnato la vita di don Milani – non si tratta di cancellare la storia o di negarla, bensì di comprenderne circostanze e umanità in gioco –, ma dice che la Chiesa riconosce in quella vita un modo esemplare di servire il Vangelo, i poveri e la Chiesa stessa» [15].
Questo gesto non cancella le amarezze vissute da Don Milani e non lo trasforma in un modello di ubbidienza. Però ci dice qualcosa di prezioso. Che spesso l’apparente disubbidienza può essere «un modo diverso di sentire e di vivere, dettato da una nuova sensibilità» [16] «o da un modo più sincero e diretto di aderire a quella che si ritiene essere la Verità».
Occorre quindi – se si voglia evitare il baratro della violenza – prestare molta attenzione alle ragioni dei disubbidienti e dare ascolto alle loro intuizioni in un paradossale movimento di aderenza alla radice etimologica della parola “obbedienza” che significa proprio ascoltare chi sta dinanzi, in altri termini, prestare ascolto.
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