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Fontane magiche e il caso di una fontana sarda
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2024 @ 03:47 In Cultura,Letture | No Comments
di Paolo Cherchi
Non è difficile capire perché le fontane nel corso della nostra lunga storia abbiano una loro costante vicinanza al mondo magico. Se la magia ha come principio primo la nozione che la natura abbia un’anima, allora le fontane offrono la dimostrazione più chiara di questa verità. Il loro sgorgare vivo, fluente e sempre mutevole ma perenne dalla madre Terra, quindi da una matrice solida e compatta, offre la prova visiva di quest’anima che vive entro quella immobile massa materiale. non è un caso allora se la mitologia — il linguaggio che trasfigura idee o concetti in narrazioni e personificazioni — ci tramanda numerose storie di fontane legate ai nomi di divinità e di ninfe e semidei che servono a dare corpo o concretezza alla forza misteriosa che fa sprigionare l’acqua dalla terra. Ricordiamo solo a titolo d’esempio qualche nome: la fontana di Aretusa e di Salmace e di varie altre cantate dai poeti perché contengono storie di persone assorbite nel grembo di una natura empatica.
Ma la magia non è il solo fenomeno che renda viva la presenza delle fonti nella storia. Fondamentale, infatti, è quello della “socialità”. Le fonti sono i luoghi di ritrovo attorno ai quali si sviluppano i consorzi umani, che non potrebbero esistere senza la presenza dell’acqua. Erano le oasi in cui sostavano le carovane; erano i luoghi visitati dai cavalieri durante il loro costante muoversi inseguendo avventure; ed erano i luoghi in cui gli eserciti si rifocillavano, i pastori vi tornavano sistematicamente per abbeverare i loro greggi. E non solo: le fontane erano il luogo in cui sbocciavano storie d’amore, perché le giovani che andavano a far provvista d’acqua, si incontravano talvolta con dei cavalieri di passaggio. E l’incontro alla fontana divenne un topos della poesia dei trovatori [1].
Non c’era e non c’è città che non abbia i suoi monumenti alle fontane, e spesso venivano e ancora vengono celebrate da monumenti che ne riconoscono l’importanza vitale, la bellezza e la forza perché rappresentano, la vita e il rito del suo scorrere sempre uguale e generoso, festivo, sonoro e scenico.
Se tutto questo è ovvio e facile da spiegare, meno facile è capire che attorno alle fontane siano nate tante leggende che in molti casi le rendono singolari e diverse dalle altre. Alcune fontane hanno un’acqua salmastra e altre no, alcune fontane hanno fasi di intermittenza e potenza e altre no, e altre con varianti e proprietà singolari che le distinguono tanto da avere un nome proprio. E quando ciò accade, si invoca spesso il potere magico della natura, e non si manca di prenderne nota. Nacque così nel mondo antico il gusto di ricordarle come “fenomeni” degni di nota, e questo gusto si spense solo quando la rivoluzione scientifica e lo scetticismo storico lo considerò come un frutto delle superstizioni antiche.
Una lista di tali fonti è stilata da Plinio nella sua Naturalis Historia, che citiamo nella traduzione di Lodovico Domenichi pubblicata a Venezia da Giolito de’ Ferrari nel 1561. Il grande naturalista se ne occupa a varie riprese. Una volta nel secondo libro e al capitolo 103 che il traduttore intitola “Miracoli dell’acque, de’ fonti et de’ fiumi” (vol. I: 52-55), dal quale stralciamo qualche paragrafo:
Plinio riprende il tema nel libro ventunesimo al capitolo secondo, “Della differentia dell’acque, et duecento sessanta sei tra medicini e osservazioni d’esse (ivi: 976-981). L’elenco è troppo lungo per riprodurlo, per cui ci limitiamo a trarne qualche caso.
Plinio non fu il primo a rilevare le diverse peculiarità di tante fonti, e infatti dai passi citati si deduce che spesso si rifà ad altri autori; e non fu neppure l’ultimo. Era inevitabile, infatti, che i geografi e i naturalisti prestassero attenzione alle fontane speciali. Le troviamo in numerose descrizioni della Natura, insieme a tutti gli elementi che entrano a comporla – i boschi, i mari, i laghi, le vie di comunicazione, le città – e sono immancabili fra i luoghi che costellano le mappe dei geografi antichi. Sono presenti anche in opere non strettamente geografiche, ma aventi una sezione dedicata alla geografia, come accade nelle enciclopedie indipendentemente dall’ordine tassonomico adottato.
Esistono anche opere nate con il piano di enumerare tali fonti, come ad esempio vediamo nell’opera di Boccaccio, De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis, seu paludibus et de diversis nominibus maris, opera che include la fonte del Sorga, non perché presenti anomalie fisiche, ma perché era la fonte presente nella vita e nelle opere dell’ammirato Petrarca [2].
Non credo, però, che sia molto utile fare una rassegna di queste opere, quanto invece vedere come una di queste fontane “attraversi la storia”, dal momento in cui nasce a quello in cui viene “cancellata” dalla mappa, offrendo un esempio di come il razionalismo dell’epoca moderna abbia relegato molte di queste leggende al mondo del folklore o, nei casi migliori, alla mitologia. La fontana di cui seguiremo la storia è una fontana sarda, quindi appartenente al patrimonio culturale del Mare Nostrum. La sua peculiarità è che gli spergiuri che si aspergano gli occhi con le sue acque diventino ciechi. È registrata per la prima volta da Solino nel suo Polyhistor che citiamo traducendone il testo in italiano:
Il passo fa parte di in un capitolo nel quale Solino traccia un profilo geografico e storico della Sardegna, ricordando i suoi primi abitatori, le loro storie e i loro costumi, e citando gli auctores dai quali avrebbe ricavato i dati che riporta. Solino trasmise al mondo di lingua latina una serie di notizie che raccoglieva da autori greci e latini, prestando particolare attenzione ai mirabilia, alle cose che destavano meraviglia. Tale scelta assicurò all’opera una fortuna straordinaria e ne fece un modello imitatissimo. Una fontana che scopre gli spergiuri è certamente una cosa ben degna di stare fra le cose che destano meraviglia, molto più delle notizie relative al cielo piovoso. Grazie a Solino, la leggenda della fontana sarda entrò nelle liste dei portenti di natura che affascinano sempre numerosi lettori.
Riprese la leggenda Isidoro di Siviglia e l’accolse nelle sue Etymologiae, che anche in questo caso, come nei successivi, traduciamo in italiano:
È una nota scarna, ma, inserita in un’opera fortunatissima e consultata per secoli, godette di una presenza costante. In effetti dopo secoli la notizia riappare fra gli enciclopedisti del Duecento. Lo prova il caso di Vincent de Beauvais nel suo Speculum naturale, che al Libro XX, 166, ripete quanto poteva leggere in Solino:
Una volta entrate nelle opere di consultazione, questi dati trovano una via aperta alla divulgazione. Il primo a dar notizia di questa leggenda nel nostro volgare fu Fazio degli Uberti nel Dittamondo, precisamente nel canto dodicesimo del terzo libro dove riporta varie leggende relative alla Sardegna, dall’aria pestilente, all’erba che provoca il “riso sardonico”, alla mancanza di serpenti e di animali velenosi, con la sola eccezione della solipuga. Fazio parla anche delle fonti in Sardegna:
Sono notizie che Fazio riceve da fonti che giudica affidabili, e a guidarlo nel viaggio è Solino! E naturalmente trova quei dati “meravigliosi”, quindi li accoglie volentieri nella sua opera che intende dare ai suoi lettori cose veramente mirabili.
Siamo alla metà del Trecento, e da questo punto in poi perdiamo le tracce della leggenda per quasi due secoli. Sospettiamo che rimase in vita, ma non sappiamo dove, anche se abbiamo spulciato molti testi di natura enciclopedica, inclusi i Commentari urbani di Raffaello Maffei, il Volterrano, il più diligente raccoglitore di dati mescolati a mirabilia. Per ritrovarla dobbiamo andare in Sardegna dove rispunta, sebbene con qualche riserva da parte del raccoglitore.
Questi è Sigismondo Arquer, un indimenticabile sardo che finì sul rogo dell’Inquisizione. A lui si deve il recupero della leggenda, ma già ne contestava la credibilità: era un sardo che in essa vedeva non tanto una superstizione quanto una ingenua creazione che poteva essere imputata ai sardi stessi con tutta l’irrisione che poteva comportare. Vi accenna nella Sardiniae brevis historia et descriptio che fu incorporata nella Cosmographia universalis di Sebastiamo Münster del 1550. Qui il passo relativo alla nostra leggenda dice:
Arquer è consapevole che ai suoi giorni (metà del Cinquecento) l’immagine della Sardegna sia del tutto libresca (“fabulantur quidam scriptores”), e questa consapevolezza orienta la sua opera in senso demitizzante. Ma la leggenda riemerge nell’opera di Leandro Alberti, il quale non ha prevenzioni patriottiche, semmai ha solo il rimpianto di non poter dare notizie più specifiche ai lettori della sua splendida guida turistica, quasi un Baedeker del pieno Cinquecento:
Leandro Alberti morì nel 1552 e il libro dal quale abbiamo estratto la citazione è del 1561, quindi postumo. Esso doveva essere una continuazione dell’opera La descrittione di tutta Italia, uscita nel 1550. Le due opere poi fuse insieme ebbero numerose edizioni e costituirono un vero bestseller stampato per l’ultima e dodicesima volta nel 1631. Sembra chiaro che Alberti conosca il testo di Arquer e che lo traduca cercando di renderlo più chiaro glossandolo. In ogni modo, entrambi gli autori ebbero ampia diffusione e la leggenda riprese vita, anche se non si deve dimenticare che la Cosmographia di Münster non ebbe circolazione in Italia essendo l’autore un luterano, fatto che costituì il capo d’accusa maggiore contro Arquer che con l’autore tedesco aveva collaborato.
La fonte con le sue proprietà ma senza nome né localizzazione rispunta anche Pedro Mexía nella sua celeberrima Silva de varia lección (1550) nella seconda parte dell’opera al capitolo 31, intitolato “En qual se cuentan muchos rios y lagos y fuentes, cuyas aguas tienen propriedades maravillosas y singulares” [9]. Lo stesso accade in Antonio de Torquemada il quale nel suo Jardín de flore curiosas (1570) dice di aver letto di tale fonte in Solino, ma che, avendo visitato la Sardegna, non ne sente parlare dagli isolani e naturalmente non la vede in alcun luogo. Comunque la menziona nel suo Jardin de flores curiosas [10] del 1570.
Riporta la leggenda della fontana “svela-spergiuri” Giovanni Francesco Fara nella sua Corographia sarda in quattro libri che apparvero solo nel 1835, ma furono stesi nel periodo 1580-1585. È un passo interessante per vari motivi. Intanto perché riporta la nostra leggenda, e lo fa in modo simile/diverso da quello visto in Arquer [11]: di questi conserva l’atteggiamento scettico, e tuttavia cerca in qualche modo di “contestualizzare” la leggenda e di trovarle una qualche misura di veracità. L’astenersi dal negare in modo categorico la leggenda, crea la possibilità di mantenerla in vita magari riportandola ad un luogo comune letterario; ma anche tale possibilità può a sua volta screditare la leggenda ascrivendola fra le creazioni letterarie prive di fondamento storico, come farà qualche anno più tardi un autore di formazione teologica e molto insospettito davanti ad un fenomeno di magia. Comunque per il momento citiamo in traduzione l’intero passo di Fara:
Fara non crede che questa leggenda abbia un fondamento di vero, però in lui la vena negativa non ha la forza che abbiamo visto in Arquer: in fondo non era una leggenda che disonorava la terra che l’ospitava, e dopo tutto era stato Solino a riportarla. In termini più o meno identici la leggenda era stata riportata di Tommaso Porcacchi nel suo Le isole più famose nel mondo:
E questa fonte insolita e meravigliosa non poteva mancare nell’enciclopedica rassegna di “fontes” che occupa il tredicesimo libro dei Dies caniculares di Simone Maioli, vescovo di Volterra:
E commenta: «haud dubie id ad superstitionem pertinet Ethnicam». Comunque sia, le superstizioni, una volta riconosciute come tali, possono essere ricordate impunemente anche da persone molto diffidenti verso le credenze magiche.
Non tutti, però, erano della stessa opinione, anzi qualcuno decise di rivedere la leggenda da un punto di vista meno benevolo e di condannarla fermamente; e per farlo dedicò un capitolo di una sua opera. Inaspettatamente la leggenda sarda assurgeva al livello di problema teologico la cui soluzione poteva porla a rischio di scomparsa se si provava che il tutto era una pura invenzione di cui non valeva la pena discutere. L’autore in questione si chiama Tomaso Garzoni, il quale creò una “stanza sarda” nel suo libro Serraglio degli stupori del mondo [15]. L’autore morì nel 1589 e l’opera fu continuata, integrata e ampliata dal Fratello Bartolomeo e fu pubblicata solo nel 1613.
Premettiamo che il capitolo di circa 20 fitte pagine non è dedicato interamente alla leggenda sarda, la quale, però, avvia soltanto il tema e segna il tono della trattazione. Comunque ad essa viene dedicata una prima parte del capitolo che serve ad impostare il “problema” della leggenda della fonte di cui bisogna capire lo strano potere di smascherare gli spergiuri. Si tratta di potere naturale oppure di potere magico e/o diabolico? In questo secondo caso la Chiesa non può esimersi dall’interessarsene in quanto, dove il diavolo fa capolino, la Chiesa deve essere guardinga; se invece quel potere fosse naturale, sarebbero stato cómpito dei “naturalisti” darne una spiegazione.
Tomaso Garzoni (1549-1589) era un canonico lateranense e un militante della Chiesa in un periodo in cui questa correva ai ripari contro gli effetti della Riforma e cercava di frenare nel modo migliore la grande ondata di superstizione e di pratiche magiche sollecitate in gran parte dalle insicurezze sociali e religiose. Non è neppure il caso di ricordare i roghi che si accesero in molte piazze italiane ed europee per bruciare streghe e stregoni ed eretici. Né sembra necessario dedicare qualche paragrafo allo scontro che andava profilandosi fra una nuova visione scientifica del mondo e le resistenze che le opponeva una visione “magica” del mondo: pochi paragrafi non direbbero niente, e molti paragrafi ci porterebbero fuori tema.
Il punto però è che tutti sappiamo che un uomo di Chiesa era avverso alla superstizione e alla magia almeno quanto lo era alla scienza che mette in dubbio le sicurezze garantite dal credo religioso. Garzoni scrisse un’opera che segue quella strada di mezzo perseguita distinguendo fra due forme di “magia”, una bianca ed una “nera”. Quest’ultima veniva realizzata con la partecipazione del diavolo, mentre la prima era di un tipo che la ragione e la scienza riuscivano a spiegare e quindi a riportare alla normalità. Ad esempio, se una statua suda, non bisogna pensare che sia il diavolo o un intervento divino a produrre questo fenomeno, ma capire che la porosità del materiale della statua assorbe l’umidità dell’aria che poi un caldo eccessivo fa essudare. Riuscire a spiegare fenomeni simili in termini naturali o di scienza naturale significa ridurre la presenza del diavolo e dei miracoli nel mondo. E il libro di Garzoni si occupa prevalentemente di questa “magia bianca” cercando di offrire le spiegazioni di fenomeni naturali avanzate da teologi e uomini di scienza.
Garzoni avvia il discorso osservando che Ariosto aveva parlato di una coppa che rivela le infedeltà delle consorti, presentando così un fenomeno affine a quello della fonte sarda. Quindi riporta vari passi classici che descrivono la Sardegna come un sandalo, come una terra priva di animali velenosi, eccetto la “solipuga”; quest’ultima lo porta a parlare dell’aria e dopo aver citato vari aspetti della geografia sarda, viene a parlare della fonte che dà il nome alla stanza. Citiamo il passo sfoltendolo del bagaglio bibliografico:
Garzoni allarga il regesto degli autori moderni che ricordano leggende analoghe e cita alcune pagine dei Dies geniales di Alessandro d’Alessandro, il quale ricorda che gli antichi solessero giurare sulle acque dell’Averno perché evidentemente alle acque attribuivano proprietà sacre. Chi spergiurava, dunque, infrangeva un patto fatto con una divinità ed era punito con un malessere. Con una simile constatazione il grande giurista napoletano offriva una spiegazione di questa reazione divina: le acque dello Stige erano così mefitiche che chi sostava sulle sue rive anche per breve tempo si ammalava a causa degli effluvi nocivi. Inoltre Alessandro d’Alessandro ricorda varie altre fonti che producono effetti strani – come ad esempio una fonte dedicata al dio Libero o Bacco nei pressi di Andro, le cui acque in un determinato giorno festivo dell’anno prendono il sapore del vino – e che i Dies geniales registrano fedelmente. Ma Garzoni osserva che:
Importante in quest’ultima constatazione è il fatto che dati così straordinari siano “presi dagli altri”, cioè che nascano non dall’osservazione diretta degli autori ma dai libri che essi leggono. Garzoni enumera molti di questi casi in cui si vede un intervento della natura su fatti psicologici e di elementi che modificano altri elementi (il vento che ingravida un animale). In tutti questi casi Garzoni utilizza due costanti metodologiche: da una parte raccoglie un numero sempre alto di casi analoghi di un fenomeno, e dall’altra trova le auctoritates che servono a mettere in dubbio la veracità di quei casi. Il primo procedimento ricostruisce una serie di fenomeni che potrebbero provare il contrario di quello per cui sono stati addotti. Nella fattispecie, una serie di fonti analoghe può voler dire due cose: o che il fenomeno sia normale, e quindi non “stuporoso”, oppure che siano tutti una variazione del primo caso che apre la serie. In altre parole, le catene di esempi analoghi sono un topos che non presuppone necessariamente una novità per ogni singolo membro della serie, ma indica una ripetitività di un modello che è riuscito ad imporsi.
Una fontana magica ha sempre un bel gruppo di utenti incantati, ma una loro serie, oltre a rompere l’incanto, fa sospettare che siano modelli facili da copiare, magari apportandovi qualche semplice variazione. Succede, insomma, quel che accade nella creazione e nell’utilizzo di topoi letterari. Le serie, quindi, non possono contare sulla quantità dei dati poiché, per quanto numerosi siano, non fanno altro che ripetere il modello; e Garzoni dice bene che i poeti prendono uno dall’altro le cose meravigliose alle quali poi gli storici ingenui prestano fede. Se la ricchezza di tanti dati analoghi porta a conclusioni simili, vuol dire che sono creazioni fantastiche, letterarie, e non degne di credibilità. La fonte sarda, quand’anche fosse documentata da opere letterarie, sarà, appunto, di natura letteraria, vale a dire fittizia. L’altra costante del metodo garzoniano consiste nel confutare la veracità di questi dati citando filze di auctoritates che sostengono l’irricevibilità di quei dati fantastici. Egli ricorre al metodo scolastico che ricava dai libri le verità del mondo reale, e usava la logica aristotelica per provare o meno la verità delle cose che trovava nei libri. Era la logica, insomma, dei Simplicio e non ancora quella galileiana che non parte dalle categorie logiche bensì dall’esperimento. Con quel metodo i teologi della Controriforma salvavano la magia nera – in quanto riconoscevano la presenza del demonio dove la ragione non poteva trovare una spiegazione alternativa – e la magia bianca – in quanto la ragione riusciva a spiegare con i testi alla mano fenomeni che sembrano innaturali.
Con il suo metodo libresco Garzoni distruggeva la leggenda della fonte sarda, la racchiudeva in una stanza dopo averla imbalsamata, ma in questo processo le conservava quel carattere letterario che la portava nella sfera della menzogna. Non molti sono entrati in quel sarcofago, in quanto il Serraglio, stipato di citazioni di auctoritates, non ebbe una grande diffusione. Poco importa. Le leggende come gli oracoli entravano ormai in una stagione che le avrebbe mostrate per quello che sono: favole fantastiche. Esse erano legate in qualche modo ad una nozione magica del mondo, di un mondo che si pensava avesse un’anima, che fosse un organismo vivente tenuto insieme da una forza armonica divina. Esse erano anche legate ad un subconscio che, in tempi tormentati quali erano quelli del primo Seicento italiano, desiderava che i miti si trasformassero in realtà e creassero un mondo più sincero e trasparente.
Sta di fatto che dopo quella data, la leggenda sembra destinata alla sepoltura. Lo proverebbe la menzione sbrigativa della fontana nell’opera di Francisco de Vico il quale non crede all’esistenza della fontana magica [17]. Tuttavia bisogna stare attenti a non condannare in blocco il “mirabile incredibile” con il “mirabile credibile”. Vico in genere non contesta la credibilità di autori come Isidoro e altri, e parla anche di altre fonti che stupiscono per alcune qualità. E sono le “fonti termali” che erano consigliatissime dalla scienza medica fin dall’antichità [18]. Esistono, insomma, fonti che stupiscono e che hanno poteri terapeutici senza che per questo si debba chiamare in causa il demonio o qualche potere magico. Da storico, Vico deve solo registrare un fatto, e lascia poi che i filosofi e gli scienziati spieghino cosa dia a queste fonti un potere così grande.
Scompariva in questo modo una fonte che non sfigurava davanti a tante altre che la storia ricorda. Aveva però uno svantaggio: non aveva un nome, non aveva un’ubicazione e non aveva un eroe o comunque un personaggio capace di imporsi alla memoria dei posteri. Queste deficienze impedirono che qualche poeta se ne appropriasse e ne facesse una vera leggenda la quale deve avere sempre un nucleo narrativo per stare in vita: priva di un eroe e di una storia, la fontana diventava del tutto irreale. Presentava una proprietà mirabile che la presenza di un personaggio (ad esempio, un ladro come Caco) l’avrebbe resa indimenticabile. Il terreno era dispostissimo ad accettarla perché le fonti erano molto vive nell’immaginario di tanti secoli. Il mondo antico conosceva le fontane di Narciso e di Salmace; il Medioevo cortese immaginò le fonti come luoghi magici attorno ai quali nascevano amori di pastorelle e il Rinascimento aveva inventato le fontane dell’odio e dell’amore nell’Orlando innamorato (I, 3). E non poteva essere altrimenti: la fonte sarda entrò in quella classe di cose belle e fantastiche della natura, ma il suo anonimato e il possibile zampino del diavolo, le negarono un posto visibile e permanente.
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