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I poeti popolari del Carnevale di Avola
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2024 @ 01:51 In Cultura,Società | No Comments
di Sebastiano Burgaretta
L’antica tradizione, ancora oggi viva, dei poeti dialettali di Avola che si esibivano in pubblico fino a tutto l’Ottocento trovava modo di esprimersi in occasione dei festeggiamenti in onore di San Corrado, il 19 febbraio, e nei giorni di Carnevale. All’antica tradizione delle sacre rappresentazioni certamente doveva risalire l’usanza, descritta dal Pitrè [1], delle gare poetiche in onore di San Corrado. Scrive il Gubernale che nella chiesa di San Giovanni nel febbraio del 1602 fu inaugurata una cappella dedicata al Santo [2]. «In seguito – aggiunge lo studioso – furono stabilite per l’occasione le accademie poetiche o gare fra i poeti contadini analfabeti che cantavano le lodi del Santo» [3].
Nel corso dell’Ottocento anche Mattia Di Martino si occupò di questa tradizione, in cui poeti popolari declamavano, da un piccolo pulpito, i loro componimenti in ottave siciliane a rima alternata, soffermandosi sui particolari della vita del Santo, al quale chiedevano protezione per i loro campi e i raccolti annuali delle loro fatiche. Scrisse lo studioso notigiano:
Nelle richieste e nelle invocazioni i poeti interpretavano l’anima popolare e le davano voce nell’esporre pubblicamente problemi della collettività e temi di interesse generale. Scrive il Pitrè: «Poiché non ne venivano risparmiate le autorità locali per loro mal governo e pe’ loro abusi, questa cantata mattutina è stata da qualche anno, con sommo dispiacere del popolo minuto, interdetta» [5].
I riferimenti satirici alla vita sociale e politica del tempo, oltre a inquadrare tali componimenti poetici nel solco secolare della storia dello strambotto siciliano, danno la misura della partecipazione delle classi subalterne alla vita di allora, rivelando la matrice popolare di certo dissenso, e contemporaneamente evidenziano la parentela strettissima con l’altra manifestazione di espressione di poesia popolare che si praticava, come ancora oggi, ad Avola, quella appunto dei canti carnevaleschi, comunemente detti storii ri Cannaluvari [6]. La cosa si spiega anche a causa della vicinanza cronologica tra i festeggiamenti in onore di San Corrado e i giorni del Carnevale, che allora andavano dal 7 gennaio al mercoledì delle Ceneri; ciò che di fatto è accaduto anche quest’anno, con il martedì grasso caduto il 13 di febbraio, cioè sei giorni prima del 19, giorno della solennità di San Corrado. Qualcosa di simile accadeva, nel corso dell’Ottocento, a Catania, quando le maschere delle cosiddette ntuppateddhi, in tutto simili ai nostri ruffiani, imperversano tra la folla nelle giornate della festa di Sant’Agata [7].
I poeti erano gli stessi per le due manifestazioni nel corso dell’Ottocento. Verso la fine del secolo la gerarchia ecclesiastica, per intervento dei procuratori della chiesa di San Giovanni, proibì le declamazioni dei poeti dialettali, in occasione della festa di San Corrado, all’interno della chiesa, allo scopo di evitare grane con i potenti colpiti dai versi dei poeti. La stessa cosa non avvenne nelle pubbliche piazze e nei crocicchi delle strade di Avola, dove i poeti declamavano le storii nei giorni del Carnevale. Allora i poeti giravano per il paese soprattutto nelle ore pomeridiane su dei carretti siciliani riccamente addobbati per la circostanza [8], alle cui sponde erano attaccati ramoscelli di oleandro (rànnulu), alcuni dei quali gli occupanti del carretto usavano agitare in aria con le mani.
Gli argomenti delle storii, scrive il Gubernale,
Di alcuni di questi poeti contadini vissuti nell’Ottocento si occupò, nei primi anni del Novecento, il Gubernale, che ne scrisse in vari numeri della rivista da lui fondata e diretta, “La Siciliana”. Tra questi poeti ricordiamo Antonino Inturri, inteso Lucerta, nato nel 1812 e morto nel 1897, il quale tra i suoi discendenti ha avuto altri poeti [11]. Altri poeti furono Giuseppe Artale, inteso Mumma (1813-1893) [12]; Giuseppe Amato, inteso Maccarruni (1864-1918) [13]; Rocco Caruso (1820-1864) [14].
La tradizione delle storii ri Cannaluvari si mantenne, pur con non poche difficoltà, anche nel ventennio fascista, ma fu poi nel secondo dopoguerra che essa ebbe rinnovato vigore, nel clima della ricostruzione e delle lotte politiche dei primi anni della Repubblica, allorché i poeti poterono tornare a trattare liberamente gli argomenti politici e le questioni sociali.
Nel secondo dopoguerra, tra i molti pueti avolesi, dei quali molti analfabeti, si distinsero Giovanni Dell’Albani [15] (1918-1974), Corrado Artale, il vivente Antonio Monello (1935), Salvatore Andolina (1924-1996), Sebastiano Parisi, Salvatore Tiralongo (1937-2016), Antonino Carbè, del quale ultimo si tramanda un componimento ispirato ai tragici fatti del 2 dicembre 1968, Lotta ppe diritti re braccianti. Il più grande fra tutti è stato Salvatore Di Stefano, che vinse spesso il primo premio in concorso e all’età di 84 anni lo vinse ancora con un componimento dedicato alla satira di costume intitolato A moda[16]. Le storii di Di Stefano (1920 – 2011) erano tutte ispirate a fatti reali, dei quali il poeta sviscerava, con modi comici e accenti satirici, le pieghe più amare, gli aspetti più duri, in un fluire spontaneo e veloce di suoni fonetici e di cadenze ritmiche che evidenziavano una perfetta padronanza del siciliano, anche nelle sue espressioni arcaiche e pregne di valenze semantiche ormai cadute in disuso o definitivamente perdute [17].
Tra le voci più fedeli allo stile tradizionale delle storii negli ultimi decenni ha primeggiato Francesco Caruso [18], che ha vinto ben dieci volte [19] il primo premio nell’annuale concorso. Nelle sue storii Caruso tratta argomenti vari, inerenti alla vita vissuta, ai valori morali, alle tradizioni e agli usi locali. Nel 1984 partecipò per la prima volta al Concorso carnevalesco indetto dal Comune con una storia intitolata Malu tempu. Ricorda che quell’anno la vittoria andò al pluripremiato Salvatore Di Stefano, che presentò la sua storia intitolata A antinna lucali. Da allora ha partecipato a più di trenta volte al Concorso annuale. La vena poetica non è nuova nella sua famiglia, poiché già nell’Ottocento il suo bisnonno, padre della nonna paterna, il siracusano Carmelo Messina, componeva poesie, e lo stesso padre di Francesco, Gaetano, amava motteggiare e giocare con le parole.
Francesco Caruso compone e scrive di suo pugno le sue storii, in quartine a rime alternate. Versi e rime gli vengono facilmente all’orecchio, senza sforzi di sorta, perché egli obbedisce a una sorta di musica interiore che gli detta i versi e le cadenze ritmiche di essi. Quello che di studiato c’è è lo sforzo che egli ha fatto inizialmente in passato, per rendere fonograficamente i suoni e i ritmi musicali che armonizzano i versi, cosa evidente anche nel tentativo di sistemare empiricamente accenti e punteggiatura. Dettagli comprensibilissimi in una persona che non ha condotto studi letterariamente adeguati [20]. Segno, comunque questa sua ricerca, di serietà e di impegno creativo degno di apprezzamento. Una storia recentemente scritta da lui e ancora inedita è Vita cara, che, col suo permesso, ho il piacere di pubblicare in conclusione qui di seguito:
Un’ultima nota: voglio riservare, infine, un omaggio al decano oramai dei poeti popolari avolesi fedeli alla tradizione, il vivente Antonio Monello, che io ho incontrato più volte nel corso degli anni, registrandone la voce e trascrivendo i suoi componimenti. Allego qui i versi di una storia che presentò negli anni Novanta. Si tratta di quella intitolata I pulitichi, componimento che mantiene i caratteri tematici della tradizione con la satira politica esplicitamente espressa e con il linguaggio pittoresco e anche osceno tipico del rovesciamento dei ruoli e del parlare sboccato contemplato e permesso nei giorni del Carnevale. In questa sede io l’ho trascritta fonograficamente, per rispettare il vernacolo dell’autore, che è analfabeta e non ha scritto di suo pugno i versi, affidati perciò soltanto alla sua memoria:
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