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Identità di transito e storie di vita
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2024 @ 00:37 In Letture,Migrazioni | No Comments
«Immigrazione: prima attestazione risalente al 1851 derivato da immigrare+zione, per tradurre il francese immigration, dal latino (im)migrare; “l’immigrare e il suo risultato”; in biologia, “l’insediarsi di specie vegetali o animali in zone nuove, dove prima non erano mai diffuse”.
Al di là della mera denotazione, esiste una connotazione negativa: l’immigrazione è un problema, gli immigrati vanno sistemati, sono tutti delinquenti, sarebbe meglio se stessero a casa loro. […] Fino all’incirca a una ventina di anni fa, si parlava prevalentemente di immigrati ed emigrati: due participi passati che indicavano due movimenti conclusi, il risultato di una migrazione finita. […] Oggi, si parla piuttosto di migranti: un participio presente. […] Questo tempo verbale sottintende che il movimento non si sia concluso: i migranti, insomma, sono qui in transito non sono arrivati a destinazione, ma se ne devono andare, devono continuare il viaggio» [Gheno, 2023: 379].
Le tematiche spinose come quelle relative alle politiche migratorie, ai viaggiatori in transito come i migranti provenienti dai Paesi extra-occidentali, insieme con le routine quotidiane, che vedono protagonisti i più disparati attori sociali dediti all’accoglienza e ai processi di inclusione, nonché ai molteplici luoghi in cui le identità frammentarie degli invisibili si concretizzano; agli oggetti/soggetti che segnano processi di costruzione identitari sociali; alle pratiche di segregazione/integrazione di campi conflittuali di cui i migranti diventano protagonisti e i simboli di una corporeità vissuta, integrata, scolpita e persino annichilita; rappresentano il collante dell’etnografia condotta dai sociologi Giliberti e Palmas, nel periodo compreso tra l’ottobre del 2020 al novembre del 2023 (e tutt’ora in corso), che enuclea ogni singolo frammento della stigmatizzazione/normalizzazione/burocratizzazione dell’Altro Generalizzato, tra le frontiere esterne e interne dell’Europa.
Il titolo del volume è estremamente evocativo: Boza! Diari dalla Frontiera (Elèuthera 2024). La dizione proviene dall’area geografica delle ex colonie francesi, anche se ormai è diffusa lungo tutto il Maghreb, e porta dentro di sé diversi significati; nel quadro di una metafora bellica, l’espressione allude all’idea di vittoria/successo – il bruciare/bucare la frontiera e arrivare dall’altro lato – ma anche al tentativo ripetuto, e spesso fallimentare, di passare, di andare oltre; tutto sommato, significati simili a quanto viene chiamato game sui Balcani o rizqui nelle enclave di Ceuta e Melilla. Il suono, a volte il suo grido, lascia emergere da un lato un’enfasi di celebrazione, dall’altro un invito performativo, un’esortazione ad agire che è anche il riconoscimento della caparbietà e dell’insistenza, come habitus necessario per chi viaggia senza i giusti documenti. Dal termine deriva anche un sostantivo che agglutina coloro che si iscrivono in quella pratica, e in un certo ethos: i bozayeurs [1].
Queste forme di resilienza incorporate, di cui i migranti sono portatori, vengono sviscerate in ogni capitolo del testo in cui l’esistenza dell’attore sociale in viaggio in cerca d’identità giuridica e sociale diventa resistenza politica. Dopo una breve introduzione nella quale gli autori argomentano circa la militarizzazione dei luoghi di frontiera e sulle determinanti della ricerca empirica in cui i ricercatori si trovano a scardinare processi di costruzione identitaria, il volume presenta i dati dell’indagine sociologica condotta riportando i diari da campo che, senza filtri di sorta e con buon spirito critico, mostrano le facce del relativismo culturale e del dissenso esternato dai protagonisti dell’etnografia in quella dialettica che oscilla tra “governanti e governati”. Da qui, da questi nodi irrisolti è maturata la crisi epistemologica delle Scienze sociali e della metodologia della ricerca [2]. Applicando gli insegnamenti del sociologo francese Pierre Bourdieu, gli autori ricordano quanto sia importante fare indagini etnografiche collegando teoria e prassi, poiché: «la pratica sociologica è una specie di auto-analisi indotta dalla ricerca come conversazione; sia sul soggetto dell’osservazione che sull’oggetto della stessa».
Pertanto, citando, ancora, Bourdieu, gli autori proseguono: «il nostro sforzo è sempre quello di rendere circolanti i saperi che nascono da questi processi di riflessività allargata, includendo nella misura del possibile la pluralità dei soggetti che fabbricano la frontiera» [3].
L’approccio decostruttivo che propongono i sociologi si inserisce in una più ampia cornice di denuncia delle pratiche necropolitiche che dell’alterità plasmano rappresentazioni distorte offerte all’immaginario collettivo. Ponendo l’accento sulla riflessività dell’etnografia sociale, Giliberti e Palmas, asseriscono che: «l’etnografo è un corriere, un vettore di circolazione di narrazioni e significati, un chasqui per riprendere il termine attraverso cui nel mondo andino preispanico venivano chiamati i postini-messaggeri fra le diverse ramificazione di un territorio/impero sterminato». Posto che la dimensione dialogica, riflessiva, ciclica e aperta della ricerca, è il file rouge che guida l’intero volume, gli autori procedono applicando una pratica multisituata e policentrica, attraverso cui superare determinismi ancorati a certi modelli etnocentrici e a certi approcci dicotomici del tipo: locale/globale e universale/particolare.
In queste trame narrative si intrecciano diverse vite e molteplici iperluoghi [4]: dai campi di borgo Mezzanone ai valichi del Brianzonese, dagli uliveti tunisini al molo di Lampedusa, dalle metropoli marocchine, da cui partono gli harraga, alle Canarie e, per contro, si restituisce dignità ai cercatori di speranza attraverso la solidarietà informale e non istituzionalizzata della società civile che supporta i viaggiatori invisibili, lungo il viatico della libertà.
Gli iperluoghi di cui si narra nel testo sono plurali e densi, il cui senso performativo viene prontamente messo in evidenza dagli autori: montagne, che di giorno sono gremite dagli sciatori e di notte sono subite dai migranti, campi allocati nelle aree liminali della città che accoglie, confini e frontiere. La pratica del ramassage, che avviene nelle montagne, rimanda ad un rituale di passaggio strutturato e cadenzato da fasi specifiche: i migranti si vestono e si travestono, per prepararsi a superare la frontiera. In seguito, lasciano gli indumenti per poi procedere al ramassage. La frontiera diviene, pertanto, iperluogo identitario, continuamente fabbricato dagli attori sociali che la superano, ma i luoghi densi sono anche i garages di cui raccontano i protagonisti della ricerca che: «non servono solo per parcheggiare l’auto, ma costituiscono spazi in cui la dimensione privata si proietta nel pubblico, e viceversa in cui il pubblico entra nel privato» [5], poiché nei garages molti migranti entrano in contatto con le comunità ospitanti. Spazi sociali riconfigurati che segnano relazioni amicali ed inclusive tra soggetti “diversi” [6].
Mentre scrivo, le pagine dei giornali raccontano dell’ennesimo scempio in mare: da Lampedusa a Genova, un calvario di 4 giorni imposto a 199 migranti della “Humanity 1” che naviga con temperature roventi e con a bordo 77 minori. La cronaca mi ricorda quanto indagini sociologiche come queste siano quanto mai necessarie.
Quel che denota la densità profonda di questo testo è la dialogicità insita nella pratica etnografica dei ricercatori e la soggettività degli oggetti di vita [7] narrati, insieme con le storie degli attori sociali protagonisti di questi incontri/scontri ontologici, al di là delle questioni epistemologiche di cui di argomenta, che sollevano interrogativi radicali nella loro assoluta ed elementare semplicità: quali sono i documenti giusti? Perché i migranti non possono viaggiare regolarmente? Cosa rappresentano questi oggetti?
Le barche numerate allocate sulla battigia, veri e propri “oggetti burocratici”; la pulserita (bianca o rossa) che denota l’appartenenza ad una struttura piuttosto che ad un’altra, nonché la possibilità di varcare confini, oltre che rappresentare un marcatore identificativo che, alla stregua di un braccialetto, segna l’appartenenza ad un campo e le barriere all’ingresso e all’uscita del cercatore di speranze; gli indumenti, che ben rimandano al sistema della moda di barthesiana memoria, con assonanze tra corpo e sstrutture sociali; la pratica del Ramassage des vêtements (raccolta dei vestiti) [8] dei migranti che valicano il confine del brianzonese, che si denudano degli abiti indossati per superare la frontiera e lasciarli ai viaggiatori prossimi. Marcatori di corpi vissuti e identità di transito, involucro e, al contempo, prolungamento di identità plurali in continuo divenire; vestiti e sistemi sociali che riconfigurano l’esser-ci con segni distintivi e marcatori di confine.
Border and life in the walk of hope! Seguono le bottiglie di plastica colme di urine degli ospiti del campò, come lo chiamano i migranti che, banditi dall’accesso ai bagni per via dell’eccessivo numero di ospiti nei centri, versano il prodotto della loro minzione nel recipiente; ma è anche l’espulsione all’esterno della rete della bottiglia stessa, che denota il marcatore dello spazio esistenziale (essere fuori, per non essere dentro); e, ancora, i simboli di questi processi di costruzione identitaria nei racconti etnografici degli autori, rappresentati dal corpo biologico e vissuto dei viaggiatori invisibili che transitano, dai buchi scavati nell’hot spot, come varco catartico; dalle impronte digitali richieste nei processi di identificazione [9], dai sentieri e dai confini territoriali, dalle politiche migratorie e dalle pratiche di esclusione/inclusione tra enti istituzionali e organizzazioni del terzo settore, dalla società civile e dalla società politica che perseguono interessi differenti.
L’intera ricerca pone l’accento sui diversi sistemi percettivi esplicati dai soggetti che accolgono e che vengono accolti (operatori sociali, volontari, associazioni e comunità, centri, ma anche comuni, assessori e sindaci e forze dell’ordine). Alla burocratizzazione istituzionalizzata delle pratiche di accoglienza statali corrisponde un massiccio supporto da parte degli enti locali informali: i solidali francesi sui valichi delle frontiere; gli abitanti delle isole, i pescatori di Lampedusa che si interrogano sul quesito che potrebbe scardinare il “problema” a monte: “Ma come può essere che in mare siano naufraghi e poi subito dopo, a terra, clandestini e fantasmi?” [10]. Le regole note ai pescatori sui salvataggi in mare che confliggono con quelle istituzionali durante i naufragi; la dimensione patemica degli intervistati, uomini e donne di origini diverse provenienti dal continente africano, che raccontano della loro vita “precedente”; insieme con la stanchezza e il vuoto per una progettualità negata dalle lungaggini burocratiche; la voglia di evadere e di non essere considerato un vizio di sistema. Tutto questo in forte contrappunto con l’informalità delle pratiche concrete esercitate dai volontari e dalle organizzazioni che accolgono i migranti, siano essi in Val di Susa, alle Canarie, nelle Isole Pelagie e tra i campi del Brianzonese.
Le narrazioni biografiche relative alle esperienze dei migranti raccolte in fase di indagine sono estremamente interessanti. Chiedendosi cosa significasse per loro felicità e solidarietà, i protagonisti aprono varchi infiniti di esondazioni emotive; ed è così che Amadou, il più giovane migrante che i ricercatori incontrano, transitato anche da un Centro de Menores, pone al centro della risposta la famiglia: «Noi abbiamo perso una famiglia, felicità è riuscire a costruirne una». Anche Amadou, come la maggior parte dei ragazzi intervistati, torna ai fondamentali: felicità è «un tetto, cibo, farsi una doccia. Ma anche avere attorno delle persone amables, gentili». Poi chiude con una specie di aforisma: «Aver denaro senza avere persone amables attorno non è felicità». Awa, invece, a proposito di solidarietà dice: «un sorriso è solidarietà, aiutare una persona a mettersi in discussione» [11].
Il senso di inadeguatezza, di trovarsi “sempre nel posto sbagliato” per parafrasare Said, viene emblematicamente rappresentato dalle grafiche che costituiscono questo iconotesto plurale, in cui il dolore e i sentimenti che accompagnano i viaggiatori invisibili, vengono fotografati dalla penna di Stefano Greco. Le barche numerate, segno evidente di questi prolungamenti esistenziali, spesso veicoli di identità di transito e morti preannunciate; le scarpe debitamente riposte sugli scaffali, che denotano il cammino infinito dei cercatori di speranza; la rete del campo perforata e il simbolico buco, con una valenza semantica straordinaria, che rimanda bene alla libertà e alla rottura tra piano interno ed esterno di una sistema politico e scientifico viziato; un giovane seduto su di un lettino, con il volto coperto e uno zaino ai piedi, pronto per il cammino; e tante altre meta-rappresentazioni performative in cui il viaggio degli invisibili diviene immagine concreta, realtà di uomini e donne di carne e ossa. Il testo conclude presentando i dati relativi al diario di campo rilevati dialogando con i ragazzi Harraga del Marocco e i tunisini che lavorano sui campi agricoli. Racconti di vita e di morte, conflitti etnici e alleanze strategiche, giovani estenuati e ostinati, identità in transito.
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