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Il mondo nella provincia di Antonio Castelli
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2022 @ 01:43 In Cultura,Letture | No Comments
Ricercata, elegante, rarefatta, la prosa di Antonio Castelli. Scrittore madonita schivo e dalla rara sensibilità musicale – che trovava espressione in uno stile melodioso e a tratti aforistico –, Antonio Castelli fu tanto geniale quanto incompreso. Bastano pochi esempi per sottolineare la limpidezza della sua prosa: ‹‹Galassie di gridi: le rondini››, ‹‹Nel cielo, cianotico, la convulsa pulsazione delle aorte pallide; i fulmini››, ‹‹Concerto d’estate. Le prime cicale; le seconde cicali; la cicala solista››. Prosa d’arte riconducibile, per certi aspetti, a quella di Emilio Cecchi? Forse. Ma è difficile circoscrivere negli angusti ambiti di una corrente letteraria la produzione di Castelli. Per diversi motivi: le poche opere che l’autore ci ha lasciato e la loro assoluta originalità.
I temi che prevalgono nella sua raffinata prosa sono l’osservazione, minuziosa e venata di sottile ironia, della vita di provincia e la testimonianza di una residuale civiltà contadina. Con pochi tratti di penna – quasi note sul pentagramma – Antonio Castelli descrive, cogliendone ogni sfumatura, la psicologia, ombrosa o eccentrica, inquieta o nitida, introversa o estroversa, di personaggi che trae dalla vita quotidiana di Castelbuono e Cefalù, i paesi della sua anima. Una quotidianità che ruota attorno a due poli: il circolo e il corso. Luoghi che costituiscono per quei personaggi rifugi sicuri, al di fuori dei quali le loro esistenze avvertono tutte le insidie di una società ostile.
Si legge in una sua pagina:
Vi sono poi le lettere, che Castelli ha raccolto, degli emigrati. Le Lettere dei deportati della terra, come lui le ha definite. Toccanti, dolenti, espressione di una civiltà rurale che, sommessamente, fa sentire lo strazio, disperato e accorato, dinanzi alla prospettiva del suo tramonto. «Perché queste lettere?» si chiede Castelli, che tenta di abbozzare delle risposte nella sua prosa preziosa:
Quelle lettere, che rispecchiano nel linguaggio naif dei contadini strappati alla loro terra l’anima lacerata di un universo di valori e sentimenti refrattario al declino, costituiscono uno dei più alti esempi di “letteratura sulla emigrazione”. La voce degli emigrati è pura, non filtrata da alcuna interferenza, e riflette il legame ancestrale al proprio territorio:
Del progetto di tenere in vita la voce dei contadini, Castelli informò Antonino Uccello che lo incoraggiò a definirlo senza indugi: «Mi permetto di suggerirle di proseguire e di raccogliere quanto più materiale è possibile: è un problema di vita e di morte. Basta un mese di ritardo per non avere più la possibilità di raccogliere un documento a volte importantissimo». La sua non vuole essere un’operazione di “archeologia” della cultura rurale, una ricerca fine a se stessa di catalogazione, di sterile documentazione. Per lui la civiltà contadina (siamo alla fine del 1966 quando scrive a Uccello) ha ancora una residua vitalità e occorre impegnarsi per testimoniarne la presenza perché nel suo humus si ancorano le speranze in un’esistenza dignitosa e non contaminata dai mali incombenti dell’industrializzazione selvaggia e del consumismo. Da qui la denuncia di chi – non era certo il caso di Antonino Uccello – ne certificava freddamente e anzitempo l’estinzione:
Come ben osserva Giuseppe Saja che ha curato la raccolta dei suoi scritti in Opere (Salvatore Sciascia, 2008), Castelli intendeva «sì documentare, ma non per celebrare il caro estinto; bensì per far comprendere che il contadino, la sua cultura, il suo legame primordiale con la terra dovessero essere salvati, aiutati, mantenuti come una delle anime, e non quella minoritaria, di una società per altri versi diversa, poco propensa a guardarsi indietro, a osservarsi dentro».
Castelli collaborò sporadicamente con Il mondo di Pannunzio e pubblicò due soli libri: Gli ombelichi tenui per i tipi di Lerici nel 1962 e Entromondo per Vallecchi nel 1968. Proprio con Entromondo Castelli sfiorò l’affermazione in un premio letterario. Si era nel 1968 e si svolgeva la prima edizione del premio Brancati-Zafferana Etnea. I membri siciliani della giuria, Sciascia e Consolo, caldeggiarono la sua causa. Ma senza esito: prevalse la posizione dei giurati del “gruppo romano” (Moravia, Pasolini, Maraini) che gli preferirono la già affermata Elsa Morante con Il mondo salvato dai ragazzini.
Su iniziativa di Leonardo Sciascia, suo grande estimatore, Sellerio pubblicò nel 1985 Passi a piedi passi a memoria, un florilegio delle sue due raccolte. Significativa è la lettera che Castelli scrive all’editore per segnalare un refuso nel titolo – per lui gravissimo –: una virgola che andava cassata:
L’attenzione per la punteggiatura era in Castelli maniacale, indice della cifra melodica delle sue pagine e della sua dimestichezza con gli spartiti musicali – in fondo per lui la scrittura esigeva un esercizio non molto diverso dal solfeggiare. Ciò sottolinea Giuseppe Saja nel citato volume:
Negli scritti sparsi di Castelli (articoli e lettere per quotidiani, collaborazioni con riviste) emergono altri aspetti della personalità di Castelli: la sua vena polemista, ad esempio, che si accompagna a una sensibilità partecipe alle afflizioni umane. Il che si manifesta in brani polemici in cui si eleva la sua vibrante protesta contro il degrado urbanistico di Palermo:
Il testo, sinistramente profetico, risale al 1962. Ciò è evidente anche in un articolo pubblicato sul Giornale di Sicilia nel 1976 in cui Castelli si mostra solidale con i malati di mente («La pazzia, quando non derivi da gravi lesioni organiche del sistema nervoso…è configurabile, sempre più persuasivamente, come danno da “svezzamento”, violento, svezzamento dalla madre, o dall’ambiente familiare e di lavoro, o dalla società») e formula la proposta provocatoria di consegnare ai “matti”, reclusi nell’Ospedale psichiatrico di Palermo, il parco della Favorita:
Tanta vicinanza al mondo dei “matti”, o di quelli che tali sono considerati, si spiega in Castelli perché anche lui, spirito incline alla malinconia, soffrì, per dirla con le sue stesse parole, del “danno da svezzamento”, che gli fu fatale. La biografia di Antonio Castelli è scarna, priva di accadimenti eclatanti.
Castelli nasce a Castelbuono il 14 settembre del 1923. Il padre è segretario comunale e i suoi frequenti spostamenti per lavoro lo costringono a frequentare scuole e città diverse. A 17 anni consegue la maturità classica al Liceo Mandralisca di Cefalù. Non fa il militare in quanto dichiarato «rivedibile» per «debolezza di costituzione caratterizzata da deficienza del perimetro toracico». Nel 1945 si laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Palermo. Nel 1952 viene assunto alla Regione Siciliana, ma il lavoro impiegatizio non soddisfa i suoi interessi culturali rivolti, oltre che alla scrittura, alla musica. È amico di musicisti del calibro di Ildebrando Pizzetti, Luigi Dallapiccola e Giannandrea Gavazzeni. Quest’ultimo, consapevole del suo talento di critico musicale, tenta, senza riuscirci, di farlo assumere alla Mondadori. Nel 1954 Castelli inizia a collaborare con Il mondo, ma la collaborazione, peraltro discontinua, dura poco, appena tre anni. Nell’aprile del 1962 gli muore la madre e si trasferisce da Cefalù a Palermo. Questo evento, assieme al tumore alla gola del padre diagnosticato già da anni (si spegnerà nel ’69), acuisce le sue tendenze depressive.
Nel ’62 pubblica Gli ombelichi tenui e nel ’67 Entromondo, ma l’apprezzamento della critica non mitiga l’asprezza malinconica che si riflette anche nella scrittura. Nel ’69 sposa Liana Di Pace, con la quale si era fidanzato l’anno prima. Verso la fine di quell’anno diventa segretario del Soprintendente del Teatro Massimo di Palermo. Ma dopo appena due anni, alieno com’è ad ogni forma di compromesso, rassegna le dimissioni. Anche il fallimento della sua esperienza al Massimo incide sulla fragilità del suo sistema nervoso. Si chiude sempre di più nella sua solitudine, incontra rari amici, scrive e legge poco divorato com’è dal “male di vivere”. Tra i pochi amici gli è a fianco Leonardo Sciascia che, nel 1985, lo convince a pubblicare Passi a piedi passi a memoria nel tentativo di scuoterlo dallo spleen di cui è prigioniero. L’anno dopo – altro evento che potrebbe risollevarlo – gli viene conferita la cittadinanza onoraria di Cefalù. Ma tutto ciò si rivela vano: Castelli sprofonda nella voragine del suo male oscuro, soprattutto dopo un intervento chirurgico a cui nel 1988 è costretto a sottoporsi. L’11 giugno dello stesso anno Castelli pone fine alla sua esistenza gettandosi dal tredicesimo piano della sua casa palermitana.
Leonardo Sciascia ne tratteggerà con finezza il profilo su La Sicilia del 22 giugno 1988:
«Castelli era uomo di straordinaria discrezione, di incredibile delicatezza: in questo nostro mondo di tutt’altri sentimenti e comportamenti. Ad un certo punto, anzi, si chiuse nelle sue letture, nei suoi pensieri – e nei suoi mali. Soffriva anche fisicamente; e la dilagante, invadente, rumorosa imbecillità accresceva le sue sofferenze, sicché pochissimo usciva di casa, e per incontrare gli amici più sicuri…Con quella discrezione e delicatezza che sono state di tutta la sua vita, serenamente, senza dare alcun sospetto della sua tremenda decisione, la sera del 10 ha telefonato ad un amico, gli ha parlato a lungo, l’ha incaricato di salutarmi. E l’indomani…».
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