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Il peccato originale, il jihad e le anime dell’Islam
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2024 @ 01:37 In Letture,Religioni | No Comments
di Antonio Bica
Una delle caratteristiche delle fedi religiose, soprattutto in ambito monoteistico, è di pensare sé stesse in modo assoluto, cioè di immaginare che il trionfo della verità assoluta coincida con quello della propria verità, e pertanto propongono la propria dottrina in termini di esclusività. Partendo da tale presupposto, possiamo pensare al jihad come ad una specie di azione forzosa che ha come obiettivo il prevalere di una sola fede rispetto a tutte le altre. Il mujahid lotta per la supremazia del proprio credo, ma la prima battaglia è rivolta innanzitutto contro sé stesso, e il campo d’azione è quello della propria anima; è lì infatti che egli deve stabilire come agire, se propendere verso sentimenti di bene e giustizia oppure verso ciò che è riprovevole; il primo jihad è rivolto contro l’invidia, l’avarizia, la calunnia, la cupidigia, la brama di potere ed altre cose negative che intaccano l’anima dell’uomo.
La religione invita a compiere uno sforzo supremo al fine di acquisire consapevolezza, autocritica, così da giungere a purificare la nostra anima carnale, l’anima corrotta, liberandola dagli istinti più bassi. Questo impegno convoglia le energie negative verso l’esterno e conduce ad un rapporto di equilibrio armonico fra noi, il nostro sé, e ciò che ci circonda. Il vero credente deve concepire questa forma di jihad interiore come un dovere che restituisca all’anima la sua purezza originaria.
La battaglia contro la propria anima è lo sforzo più grande del credente, ed è ancora più difficile della guerra fisica sul campo contro il nemico. Nella tradizione dell’Islam si fa riferimento a due anime distinte fra loro, una è l’anima che ci sprona verso il male (visione questa che percepiamo con una certa difficoltà, essendo come avvolta da un mistero oscuro, l’inclinazione al male infatti è per tutti noi un aspetto alquanto imperscrutabile), l’altra invece che ci spinge al bene; ma è sempre l’uomo a dirigere l’azione col supporto della propria coscienza, facendo prevalere la forma più alta della sua esistenza interiore o, viceversa, quella più infima e spregevole.
L’uomo nasce libero dal peccato, non presenta gravame alcuno quando viene al mondo e, in una concezione antideterministica, segnata dal prevalere del proprio arbitrio, può usare a suo piacimento la capacità di giudizio di cui è dotato. Nell’Islam non è contemplata l’idea del peccato originale; tale concezione, cioè quella di una colpa che si eredita, non fa parte della tradizione dottrinale dell’Islam, piuttosto rimane ad essa totalmente estranea. Il peccato originale incarna la trasgressione dei precursori del genere umano, Adamo ed Eva, e si manifesta con la disobbedienza nei confronti del volere divino. Esso rappresenta un momento di separazione fra il cielo e la terra, una linea di frattura, una cesura fra l’umanità e la divinità. L’uomo è libero di usare la propria capacità di discernere il bene dal male, e di propendere ora verso l’uno ed ora verso l’altro. Lo sbaglio commesso dai primi uomini viene riconosciuto come tale da Dio, ma Dio stesso è capace di perdono, pertanto la colpa primordiale non si ripercuote sull’intera umanità.
Nella sura An-Najm, “La Stella”, così è scritto:
È la pratica del bene la sola cosa che può aprire le porte del Paradiso; alla fine non servirà il denaro né la progenie, piuttosto si salverà colui che giunge a Dio col cuore pulito. Chi ha operato in vita secondo giustizia, vedrà anche dopo la morte i frutti spirituali del suo agire e ne godrà i benefici nel Giorno del Giudizio; lo stesso accadrà a chi si è impegnato ad arricchire l’umanità col proprio sapere e con la conoscenza, e ancora a coloro che sono stati figli devoti e pregano per i genitori morti, invocando su di loro la misericordia di Dio. Nella sura 74, “L’Avvolto nel Mantello”, vediamo come il destino di ogni anima sia irrimediabilmente vincolato alle sue opere ed azioni:
Scacciati dal Paradiso per il peccato commesso, colpiti dal rimorso, come conseguenza del loro pentimento, Adamo ed Eva imploreranno la misericordia divina e saranno perdonati. A sottolineare l’inferiorità dell’uomo, la sua finitezza, Dio pone loro l’albero come limite da non oltrepassare; in quel limite insiste un chiaro invito alla sottomissione. L’uomo e la sua donna, nella quotidianità della vita, saranno destinati a lottare contro i demoni, saranno “nemici gli uni degli altri”, in uno sforzo eterno, maschi e femmine, per sconfiggere il male:
Nel Corano è insito il concetto di come l’Islam sia una religione connaturata all’uomo, nel senso che si è musulmani già alla nascita, si viene al mondo in una condizione di purità naturale, e il rifiuto di sottomettersi al Creatore getta l’uomo nel disordine e nella disperazione, stravolgendo l’armonia del Creato. Gli esseri umani nascono pertanto liberi dal peccato, la colpa ancestrale non pesa su di loro, sulle loro anime, piuttosto nascono liberi nella misura in cui siano sottomessi a Dio e non violino in qualche modo la Legge:
È nell’atto stesso della Creazione che Dio infonde nell’animo dell’uomo una predisposizione naturale alla fede che coincide col monoteismo puro; questo significa che esiste un principio di fede ancestrale, primitivo, nel senso che l’inclinazione al credo in un Dio Unico è parte integrante e fondante di ciascun essere umano già nel suo atto di nascita, sin dal momento in cui viene al mondo. Il credo islamico rammenta all’uomo questa sua condizione primitiva in base alla quale l’umanità intera si dovrebbe costituire in un’unica comunità di credenti.
Gli uomini formavano in un primo momento una comunità sola, successivamente, in seguito a divisioni interne, nacquero discordie fra loro; nel Corano è testimoniata l’omogeneità della comunità primitiva. Sulla ‘umma’ primigenia si sarebbe poi riversato il castigo divino e i malvagi avrebbero ricevuto la giusta punizione se solo Dio avesse voluto:
Dio ha parlato agli uomini a più riprese, plasmando la storia umana con un processo educativo dinamico che si dipana in una evoluzione continua a partire dalla Legge di Noè, poi attraverso l’Antico Testamento, i Vangeli, e fino al Corano che costituisce la sintesi ed il perfezionamento delle precedenti Rivelazioni, ristabilendo la purezza originaria della fede di Abramo. Per prima cosa Dio fece scendere la Rivelazione della Toràh, poi fece giungere Gesù come Profeta, ed infine rivelò in maniera definitiva il Libro a Mohammed, il Profeta dell’Islam:
Se Dio avesse voluto avrebbe creato una sola nazione, ma gli ingiusti fra gli uomini alimentavano i contrasti fra loro, contrasti che riguardavano la dottrina, le pratiche cultuali e rituali:
La comunità musulmana è certamente unica fra tutte, è coesa, si sottomette interamente a Dio ed è in contrapposizione con altre comunità dove piuttosto regna la discordia. Dio, tramite le Rivelazioni manifestate ai vari Profeti in tempi successivi, ha inteso dar vita ad una comunità di credenti che ne riconoscesse la sovranità e ne avesse timore. Inoltre, sia i giudei che i cristiani dimenticarono parte della Rivelazione che era stata data loro, e questo creerà ulteriori dissidi in mezzo a loro:
Nei versetti che seguono vengono rifiutate la dottrina cristiana della filiazione di Gesù, e quella giudeocristiana insieme che vorrebbe tutti gli uomini come figli di Dio:
Il Corano mette in luce pertanto un evidente contrasto fra la dottrina islamica, che dovrebbe essere l’unica degna di accoglienza, e le altre tradizioni dottrinali, quella giudaica e quella cristiana; sottolinea inoltre come l’unità della comunità primitiva sia stata compromessa dall’ingiustizia, dal caos, dalla bramosia di potere, dalle passioni incontrollate dell’uomo. È l’atto di disobbedienza dei primi uomini (Cor. 7, 22 “Non vi avevo vietato quell’albero, non vi avevo detto che Satana è il vostro dichiarato nemico?”) a determinare la sofferta transizione da quella condizione primaria predisponente ad una religione naturale, segnata dall’impronta del più puro monoteismo, all’abisso del caos, allo sconvolgimento etico.
Ma l’Islam deve essere soprattutto conosciuto, spiegato e diffuso, finché tutta la terra non ne sia conquistata, al fine di liberare l’intelletto da ogni tipo di superstizione, di dare certezze alla ragione, in un cammino di emancipazione che possa condurre alla salvezza affrancando l’anima dal peso del peccato primordiale. Ciascun credente, in ogni angolo della terra, si sforza di far conoscere l’Islam ai miscredenti tramite il dialogo e la prassi, senza addossare loro colpa alcuna per la propria ignoranza, piuttosto illuminando di luce divina le tenebre della non conoscenza. È questa libera volontà di scelta dell’uomo che dà senso alla sua vita, rendendolo responsabile delle proprie azioni verso sé stesso e verso Dio; è su questa libertà che si costruisce il significato dell’alleanza fra uomo e Dio. Il determinismo divino renderebbe vano il patto con Dio.
L’assenza del peso della colpa per un peccato non ancora commesso dirige la visione dinamica della vita del credente; egli nasce libero e libero rimarrà dal peccato finché egli stesso deliberatamente non decida di commetterlo. Il peccato originale sarebbe per l’anima un fardello troppo pesante da sopportare, il dogma dottrinale genererebbe uno stato di tensione, una forma d’ansia nell’indirizzare le proprie azioni.
Non può il musulmano patire per espiare una colpa di cui non è responsabile; tutto ciò sarebbe antitetico alla logica del perdono. Se ci si trova dinanzi ad un Dio perdonatore, non è ragionevolmente pensabile che Egli non avrebbe perdonato Adamo a seguito del suo pentimento, caricando sulle spalle dell’umanità intera un peso così determinante, una punizione non meritata. Che senso avrebbe allora pensare Dio ed invocarLo come indulgente, misericordioso e capace di perdono? Impensabile dunque immaginare Gesù come un Profeta che giunge in terra per espiare i peccati dell’umanità intera, e allo stesso modo non si può immaginare una morte ingloriosa sulla croce per lo stesso fine. L’idea del Cristo crocifisso contrasta pertanto con i concetti di giustizia e compassione misericordiosa di Dio.
Dio mostra ai credenti la strada del bene, fa da guida all’uomo sulla via della giustizia in una prospettiva soteriologica che vede l’uomo come protagonista della propria salvezza. Condizione essenziale in questa visione escatologica è che la fede non sia una prigione dogmatica, luogo di comodità statica, ma si faccia prassi, cioè che si trasformi in vita vissuta attraverso il pensiero, l’azione e l’opera.
Nessuno tuttavia può essere punito per aver violato la Legge prima che non sia apparso un Messaggero a diffondere la Parola; solo a partire da quel momento l’uomo sarà responsabile di inadempienza dinanzi a Dio. I Messaggeri diffonderanno la dottrina a tutti, mentre vi sarà un messaggio specifico per ogni comunità; essendo il Profeta dell’Islam il “Sigillo dei Profeti”, da un lato attesterà quanto riportato in termini dottrinali dai Suoi predecessori, e dall’altro abrogherà molte delle norme rivelate fino a quel momento, sostituendole con altre in maniera definitiva. Ogni forma di legislazione pregressa cederà il passo alla Sharia. L’informazione e l’istruzione fanno parte dei piani divini, cosicché nel Giorno del Giudizio nessuno potrà dire che non sapeva; Dio quel giorno non ammetterà giustificazione alcuna:
Attestata l’assenza del concetto di peccato originale nella dottrina dell’Islam, possiamo riprendere la questione delle due anime che agiscono in antitesi l’una con l’altra. Innanzitutto, secondo la dottrina islamica l’anima è immortale, essa sopravvive al corpo, cioè alla sua morte fisica e si ricongiunge a Dio partecipando della condizione originaria della Creazione; trarrà godimento perpetuo dalla visione dei Giardini di Eden:
Da sempre l’uomo, seguendo la sua indole naturale, presta scarsa attenzione alla dimensione dello spirito, e questo vale per la società tribale della Penisola Arabica al tempo del Profeta, come per noi oggi, per la nostra civiltà malata di materialismo e immanentismo, violentata dal tracollo del sentimento etico, dominata dall’egoismo e dal consumismo, l’umanità dai “cuori distratti”:
Dio concede a chi vuole le ricchezze ed i beni effimeri, consolazione provvisoria che accompagna gli uomini verso la dannazione eterna, allo stesso modo però accoglie lo sforzo dei credenti che mirano a un’altra vita e seguono la via della fede:
Le scelte dell’uomo vanno orientate seguendo un percorso di sforzo spirituale, un jihad interiore, una vera e propria lotta continua ed incessante contro gli istinti primordiali, in modo che non prevalga la componente più bassa della propria anima. La parola ‘nafs’, nella lingua araba, rimanda al concetto di anima o psiche, qualcosa che ha a che fare con il “sé”, con l’ego, e comunque con la nostra sfera più intima:
In particolare nella mistica islamica, essa rappresenta il livello inferiore dell’esistenza umana, in relazione con la natura animale della nostra creazione. Mentre lo spirito costituisce la parte più nobile della nostra interiorità, la nafs ha una differente specificità, essa infatti non appartiene alla dimensione fisica o corporea, tuttavia è in grado di provare passione, odio, rabbia, rancore, frustrazione, desideri, elementi questi, tipici dell’anima carnale. Nella relazione fra il cielo e la terra, tra la trascendenza e l’immanenza, l’anima concupiscente si aggrappa alla terra fino a scegliersi da sola la propria divinità, elevando la passione al rango di riferimento etico e dottrinale:
Se lo spirito è attratto dalle cose del cielo, la nafs è nemica dell’uomo, in quanto si lascia sedurre dai piaceri materiali, cedendo agli istinti carnali e facendosi condurre dai demoni. Una simile contrapposizione fra Ruh e nafs, la ritroviamo, oltre che nell’Islam, anche in altre tradizioni dottrinali, come nel caso del cristianesimo con Spirito e anima, dell’ebraismo con Ruach e nephesh, o nel pensiero greco con Pneuma e psyché, e fino al Brahman e atman dell’induismo. Da un lato abbiamo un’entità universale senza tempo, eterna, essenza cosmica e fonte di vita che ci ricollega alla nostra matrice divina, e dall’altro la scintilla divina custodita nella nostra parte più intima, luogo tuttavia di turbamento, di conflitto interiore che tende alla purezza e alla liberazione dagli istinti negativi primordiali, per trasformarsi in pura sostanza spirituale.
Per quanto difficile da attuare, in tutta la cultura arabo-islamica esiste una propensione ad uniformare la sfera del divino e del sacro con quella del Creato, ciò che è immanente, con le sue leggi, regole, principi, l’idea di Stato e di politica con ciò che è trascendente e riguarda la relazione del credente con Dio. Tutto quanto attiene alla realtà deve convergere nella dottrina della fede e nella Parola rivelata che, essendo Parola di Dio, è eterna ed immutabile.
Se fede significa soprattutto affidarsi, la realizzazione di tale relazione fra la sfera dell’umano e quella del divino, in termini di unione e totale sottomissione, prevede la stipulazione di un patto con Dio che affranca gli uomini da ogni incombenza; basta pertanto affidarsi ai dettami divini e seguire le regole prescritte. Da un punto di vista psicologico, l’affidarsi totalmente alla Legge, insieme all’accettazione del concetto di determinismo divino, predispongono il vero credente ad una condizione di relativa deresponsabilizzazione personale, al godimento di un equilibrio interiore che deriva dalla volontà e dalla necessità di collaborazione. Il credente si sente in pace, non alimenta tensioni sociali, deve solo sottomettersi alla volontà superiore e vivere in armonia con essa; la tensione spirituale che guida e governa la vita del credente è garanzia di società giusta ed unita in Dio. Ma tutto questo non basta perché si realizzino giustizia e benessere, bisogna anche tenere a freno le passioni, non lasciarle prevalere fino a traviarci, impegnarsi continuamente in uno sforzo che identifica il jihad interiore.
L’importanza del jihad contro se stessi è sottolineata in un celebre detto del Profeta riportato nel vol. 19 della raccolta di hadith ‘Bihar al-Anwar’ (Oceani di Luci) di Muhammad Baqir Al-Majlisi, teologo persiano del XVII secolo:
A proposito della necessità per l’uomo di sottomettere l’anima, dominandola ad ogni costo, piuttosto che da essa farsi sottomettere, Al-Sulami, mistico arabo del X secolo, riporta le seguenti parole (da I custodi del segreto, trad. G. Sassi, Ed. Luni, ’97):
Il Corano sprona il credente a combattere contro le passioni dell’anima al fine di ottenere la dimora nel Paradiso:
Bisogna evitare dunque che la nafs spadroneggi, essa è qualcosa da maneggiare con cura, un’entità che non deve avere il sopravvento e di cui non vanno sottovalutate le forme più negative e controverse. Tale aspetto è stato contemplato nelle riflessioni della tradizione mistica. Rumi, letterato persiano del XIII secolo, riporta le seguenti parole attribuite a Dhu l-Nun al-Misri, mistico e asceta sufi egiziano del IX secolo:
Nel Corano, il sostantivo ‘nafs’ può indicare sia l’anima nella sua singolarità, che riferirsi più ampiamente alle radici comuni dell’esistenza di tutto il genere umano. Se, in termini collettivi, gli esseri viventi sono accomunati dalla perfezione che scaturisce dall’origine divina, sul piano personale ed individuale ciascuno è responsabile delle proprie scelte ed azioni:
Il Corano descrive tre diverse tipologie o condizioni di nafs; una è ‘Nafs al-Ammara Bissù’, cioè l’anima che comanda il male, poi segue ‘Nafs al-Lawwama’, l’anima che incolpa, e infine ‘Nafs al-Mutmainna’, l’anima pacificata.
Il primo tipo, ‘Nafs al-Ammara Bissù’, è l’anima della cupidigia, della concupiscenza, l’anima che sprona l’uomo a commettere azioni negative e riprovevoli; sotto questo aspetto, l’anima tende a dirigere il sé interiore, vuole governarci, imporre i desideri, decretando cosa fare e cosa non fare, nell’ottica sovrana di soggiogarci, di assecondare i suoi dettami in un rapporto di totale subordinazione che asseconda una naturale inclinazione al male. Praticare il jihad contro i propri istinti è la via che conduce all’equilibrio e all’armonia interiore, dovere che ogni buon credente deve compiere per purificare la propria anima e pacificarla:
Questa tendenza a compiere il male, combattendo la sfera delle passioni, dei desideri terreni, può essere ostacolata ricorrendo all’aiuto divino, invocando la Sua grazia e la Sua misericordia, rendendo sé stessi partecipi di quella Luce divina che è sorgente di conoscenza e di salvezza, non senza tuttavia rinunciare ad operare, ancor prima dentro sé stessi, quei cambiamenti che si riveleranno poi nella realtà esterna:
Se da un lato abbiamo la propensione al pensiero buono che, unita agli atti volontari, è propedeutica a propiziare la benevolenza divina, dall’altro rimane il peso della precarietà del pensiero negativo; la Rivelazione, come acqua che scende copiosa dal cielo, può nutrire la terra e vivificarla; la schiuma e i detriti si disperdono lungo il cammino, lasciando il posto sulla terra solo a ciò che è utile agli uomini:
Nella sura Yusuf (Giuseppe figlio di Giacobbe), il Corano racconta la storia di Giuseppe che, dopo essere stato venduto ad Al-Azìz, tesoriere reale d’Egitto, subisce le attenzioni di Zuleikha, sposa di Al-Azìz, innamorata di lui e disposta in tutti i modi a conquistarlo; Giuseppe le oppose resistenza e non cedette alle pretese della donna.
Nella narrazione coranica vengono descritte proprio le tre componenti dell’anima, da quella concupiscente della donna, a quella di Giuseppe che cerca di discernere ciò che è giusto da ciò che non lo è, l’anima che lotta fino a redimersi, per giungere infine all’anima acquietata, quella che ha guadagnato la pace interiore opponendosi al tentativo di seduzione, l’anima che potrà avere libero accesso al Paradiso. Il peggior nemico che abbiamo è la nafs al nostro fianco:
Quello di Zuleikha è un classico esempio di ‘Nafs al-Ammara Bissù’. Nel jihad rivolto contro l’anima passionale, bisogna che il proprio corpo sia mantenuto in uno stato di purità, evitando di abbandonarsi agli istinti sessuali; allo stesso modo non bisogna indulgere ai pettegolezzi e alle maldicenze, evitare la bugia, proclamare sempre la verità, astenersi dal complotto verso gli altri, dalla gelosia immotivata, dall’odio, dall’egoismo, dal sospetto. Questo tipo di jihad comporta una purificazione del corpo e della mente, della parola e del cuore, essendo la dottrina dell’anima legata all’uomo in tutto il suo essere, coinvolgendo corporeità, spiritualità e, ad un livello ancora più alto, mistica. È l’equilibrio armonico fra tutte queste componenti che ci rende degni della visione di Dio.
La seconda tipologia di Nafs è ‘Nafs al-Lawwama’, cioè l’anima che svolge una forte azione di autocritica, quella che si autoaccusa, che possiede la consapevolezza del male, che è capace di distinguerlo dal bene e cerca di porre rimedio:
Colui che ha commesso un peccato si sente responsabile fino a provare rimorso, a quel punto subentra il pentimento e il proposito di non avere cedimenti la volta successiva; ecco allora che si fa strada come bisogno interiore l’invocazione del perdono. L’anima del rimprovero si pone in antitesi con l’anima che comanda e con l’anima che ha conquistato la pace, essa tuttavia non si sottrae al confronto dialettico con una realtà superiore e misteriosa, anzi ne riconosce la purezza autentica.
Il terzo tipo infine è la ‘Nafs al-Mutmainna’, che gode della pace realizzata e si è purificata, ha raggiunto la tranquillità, finalmente libera dalla passione e dal rimorso. Essa obbedisce a Dio, è in relazione con l’Uno, in uno stato di completa e beata sottomissione, non teme più la seduzione del male e può avere accesso al Paradiso. Questo è un concetto particolarmente caro al misticismo sufi e ne fa cenno il Corano nella sura al-Fajr o “dell’Alba”:
È indubitabile come il prevalere dell’ego, dell’interesse personale su quello comunitario, della passione non controllata dalla ragione, contamini l’anima del credente e così pure la sua fede; il jihad interiore serve proprio ad illuminare la coscienza e ricondurre l’anima smarrita sulla retta via, in armonia con lo stato di pace primordiale. Il superamento della conflittualità interiore diventa il mezzo per superare la frammentazione del sé ed unificarsi con Dio sottomettendosi al potere sovrano dello spirito. È fondamentale il riconoscimento della connotazione filosofica dell’anima come respiro vitale dell’essere umano, dotata di un intelletto superiore, capace per natura di tensione divina, di immaginare e comprendere la perfezione dell’Assoluto.
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