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Il secolo lungo: 1923-2023. Mio padre, Italo Calvino e Lorenzo Milani, anacronia di un centenario
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2023 @ 01:49 In Cultura,Letture | No Comments
di Vincenzo Guarrasi
“Hai portato il cervello all’ammasso!” così commentava mio padre la mia adesione al Partito Comunista. E per lui, uomo di sicura fede liberale, di destra però, la prova della mia scelta di campo consisteva nel fatto che, secondo lui, leggevo soltanto libri pubblicati dall’Einaudi. Forse aveva colto nel segno, ma io allora non lo sapevo. Magari non per quanto riguarda l’uso della mia dotazione cerebrale – su questo non mi sento di giudicare – né sulla lettura esclusiva di libri Einaudi che non era affatto così totalizzante.
Ma sulla scelta di campo sì, aveva visto giusto. Il “campo” delineato dalla Casa Editrice Einaudi con la scelta degli autori e dei titoli da pubblicare. Gran parte del pantheon delle mie scelte letterarie faceva capo a quella casa editrice: da Elio Vittorini a Cesare Pavese, cui avrei voluto dedicare la mia tesi di laurea [1], da Natalia Ginzburg a Italo Calvino e a Pier Paolo Pasolini.
Al fine di ricostruire sommariamente il circolo culturale che ruotava attorno alla casa editrice, proviamo a dare la parola agli stessi autori dell’Einaudi, in particolare a Italo Calvino e Natalia Ginzburg [2], che rappresentano testimoni di eccezione:
Italo Calvino era nato a Santiago de las Vegas (L’Avana, Cuba) il 15 ottobre 1923 ma proveniva da un ambiente di vita, a sua detta provinciale, perché era cresciuto a Sanremo, dove suo padre, da botanico di fama internazionale, aveva tentato senza successo di orientarlo verso gli studi dell’ambiente vegetale. Anche la madre, biologa, aveva collaborato per una vita con il padre [3]. Italo scoprì presto di avere una vocazione, piuttosto, per gli studi umanistici. Noto, per inciso, che deludere le aspettative del genitore pare sia un destino abbastanza comune tra i figli, soprattutto, in presenza di padri dalla forte personalità. Capiterà qualcosa di analogo anche a Lorenzo Milani – il terzo termine di questa mia personale triangolazione – quando, per seguire la propria vocazione religiosa, si allontanò traumaticamente da una famiglia borghese dalle solide tradizioni culturali [4]. Anche Lorenzo Milani era nato nel 1923 e precisamente il 27 maggio. Mio padre era nato il 3 febbraio dello stesso anno.
Ma torniamo a Calvino. Come egli stesso afferma, il contatto e la frequentazione dell’ambiente einaudiano, segna una vera e profonda svolta nella sua vita:
Piuttosto che coltivare la sua vocazione letteraria, farà un’intensa vita di redazione curando tanti libri di altri autori. Alcuni sarà lui stesso a scoprirli e a segnalarli all’attenzione dell’Editore. Il che contribuisce a esaltare la funzione della Casa editrice come intellettuale collettivo, per usare un’espressione di ispirazione gramsciana. D’altronde, nulla si potrebbe capire di Giulio Einaudi e della sua casa editrice se si trascurasse il suo profondo radicamento nella Resistenza italiana.
Leone Ginzburg, uno dei fondatori della casa editrice Einaudi, era morto nel febbraio 1944 a causa delle persecuzioni nazi-fasciste. Gelosa dei suoi sentimenti più profondi Natalia Levi, che firmerà le sue opere con il cognome del marito, accenna a uno dei momenti più dolorosi della sua vita con accenti furtivi. Così, ad esempio, nel Lessico famigliare si sofferma a parlare della morte di suo marito soltanto attraverso la sofferenza degli altri:
La sofferenza vissuta come esperienza di gruppo e come collante di quel cercle de l’amitié, che andiamo rapidamente tratteggiando si ripropone alla morte di Cesare Pavese, avvenuta nel 1950: «Quando Pavese si è ucciso, abbiamo diviso insieme quella sventura, Calvino, Balbo, Giulio Einaudi e io. Questa sventura ci ha tenuti uniti, nel corso degli anni, era nelle più profonde radici dei nostri rapporti. E così ci hanno tenuti uniti altre perdite…», scrive Natalia Ginzburg nell’ottobre 1985 sull’Indice un articolo intitolato “Il sole e la luna” (cit. in Album Calvino, 1995: 107).
Il suicidio accade proprio alla conclusione di un periodo di straordinaria produttività letteraria:
Tale impegno con tutta l’intensità dell’intento morale che esprime entra, per così dire, in rotta di collisione con una società come quella italiana, ansiosa di mettersi alle spalle la guerra con tutto il suo carico di angoscia e di dolore. Particolarmente incisiva appare in proposito la testimonianza di Calvino:
Si potrebbe chiosare l’incursione di questo straniero in patria con il brano conclusivo di Streghe, uno dei capitoli più suggestivi dei Dialoghi con Leucò:
«CIRCE L’uomo mortale, Leucò, non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia. Nomi e parole sono questo. Davanti al ricordo sorridono anche loro, rassegnati.
LEUCOTEA Circe, anche tu dici parole.
CIRCE So il mio destino, Leucò. Non temere» (Pavese, 1968: 116-7).
Ma sarebbe un po’ come fargli torto, rigettando la sua dolorosa esperienza umana proprio in quella dimensione del mito che per anni gli aveva offerto un pur precario rifugio. Più appropriato è forse richiamare, come fa Natalia Ginzburg, la perigliosa oscillazione tra il fondo ironico dell’esistenza che manifestava nell’amicizia e il severo impianto della sua scrittura:
Italo Calvino estende un giudizio, che appare appropriato se riferito alla sfera degli autori dell’Einaudi, su un’intera generazione, di cui si sente espressione:
Non so se tale generalizzazione possa apparire in qualche modo forzata. Così, in effetti, appare a me, che per ragioni anagrafiche appartengo alla generazione del Sessantotto, ma sono stato sempre ben consapevole che il movimento studentesco, in cui ho militato, pur essendo ampio, partecipato e diffuso su tutto il territorio nazionale è stato ben lontano dal connotare un’intera generazione. Mi viene da ridere quando sento dire che la decadenza della scuola italiana affonda le sue radici nelle velleità antisistema del Sessantotto. È vero, infatti, che in quegli anni esprimevamo una forte pulsione antisistema, ma – ve l’assicuro – credevamo nella cultura e nell’istruzione pubblica che negli anni successivi abbiamo dovuto difendere con le unghie e con i denti dagli assalti dell’ideologia liberista.
Non è un caso che, a partire dalla pubblicazione nel 1967 di Lettera a una professoressa, Barbiana, un piccolo centro del Mugello, sia diventato per molti di noi una sorta di patria ideale. Rispetto all’immediato dopoguerra, il periodo in cui un’esperienza come quella di Einaudi riuscì a imporsi come modello dell’intero sistema editoriale nazionale, negli anni successivi l’opinione pubblica italiana appare come incantata dalle sirene del capitalismo e dal miraggio del benessere alla portata di tutti, e il testimone dell’impegno sociale e dell’utopia egualitaria passa nelle mani di singole personalità che ispirate da profonde aspirazioni politiche e religiose riescono a sottrarsi ai modelli culturali dominanti. Bisognerà andarle a cercare nelle sperdute lande della provincia italiana, da dove non mancarono di far sentire forte e perentoria la loro voce e di indicare una strada impervia sì ma di salvezza.
Don Lorenzo Milani con le sue Esperienze pastorali e le lettere indirizzate a quotidiani e riviste – in particolare quella ai cappellani militari e quella ai giudici sul tema dell’obiezione di coscienza – si alienò i favori dei benpensanti e delle autorità civili e religiose [5], ma intercettò un disagio profondo che circolava tra l’intellettualità più avvertita e le frange più politicamente impegnate del mondo giovanile. Non sorprende, ad esempio l’approvazione incondizionata di Pier Paolo Pasolini [6], che in un’intervista rilasciata a ridosso della pubblicazione della Lettera della Scuola di Barbiana – è ancora possibile ascoltarla su Rai Play – afferma che «non gli era mai capitato di essere così entusiasta di qualcosa» e conclude osservando che c’è però una domanda che i ragazzi di Don Milani non si sono posti: a quale mondo culturale appartiene la professoressa cui indirizzano la loro lettera? La risposta di Pasolini a tale interrogativo è coerente con le sue radici e la sua visione: anche la cultura piccolo borghese della professoressa, a cui si rivolgono, nasce dal medesimo mondo contadino di cui loro stessi fanno parte. La maggioranza degli italiani di allora aveva ancora un radicamento, prossimo o remoto, che stava per essere sopraffatto dalla transizione verso una società urbano-industriale.
Anche in me queste parole hanno una certa risonanza perché pur essendo vissuto sempre in città, attraverso mio padre che apparteneva a una famiglia della piccola borghesia agraria di Alcamo, un centro agricolo del Trapanese, ho subìto l’influenza di un universo di valori tipico della campagna siciliana. In fondo, come estrazione sociale somiglio di più alla professoressa che ai ragazzi della scuola di Barbiana. Se ho potuto operare una scelta di campo radicale, ispirandomi alla scuola di Barbiana e disponendomi all’ascolto delle tante generazioni di giovani che ho incontrato nel corso di una lunga carriera universitaria, lo devo a una serie fortunata di incontri che hanno allargato e approfondito i miei orizzonti di vita. Ho anche ascoltato con attenzione la lezione di quell’eccezionale gruppo di intellettuali che si è raccolto attorno alla casa editrice Einaudi, senza perdere di vista però quel modello di vita onesta, laboriosa e frugale che la mia famiglia di origine e mio padre, in particolare, comunque rappresentava.
Il secolo che ci separa dalla nascita di Italo Calvino, Lorenzo Milani e Raffaele Guarrasi, mio padre, appare a tutti gli effetti oltremodo lungo se ci interroghiamo sull’attualità di certe lezioni di vita. La mia stessa mappa intellettuale e affettiva mi sembra estremamente datata e logora in più parti se rapportata ai movimenti tellurici del mondo contemporaneo. Se rileggo però l’articolo di Carlo Ossola, pubblicato su L’Avvenire del 28 maggio di quest’anno dal titolo “Don Milani e Italo Calvino. Quel desiderio di un’utopia efficace rivolta alla scuola”, riprende vigore dentro di me l’urgenza di rilanciare un discorso sull’istruzione pubblica come fattore di uguaglianza. Tra Calvino e Milani l’anelito è uno solo e consiste nell’affermare che «non si può conoscere il mondo se non lo si circoscrive in una parola precisa, se l’oggetto non è descritto con chiarezza, se la comprensione non è di tutti» (Ossola, 2023).
Viene alla mente quanto Italo Calvino dice a proposito della prosa di Natalia Ginzburg:
Allora risulta chiaro che la parola appropriata è quella che sa aver luogo, che contribuisce a esaltare la dignità del singolo essere umano, che sa costruire attorno a questo tempio dell’essere quel giardino originario che credevamo di aver perduto per sempre. Il mondo, che ha elevato a potenza la comunicazione mediatica e ansioso attende l’avvento dell’intelligenza artificiale, ancora una volta non potrà fare a meno dell’agire profetico (Raineri, 2022) degli esseri umani e delle loro parole di verità.
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