di Gian Paolo Marras
L’industrializzazione nella piana di Ottana è un argomento che ancora oggi genera dibattiti di una certa vivacità. Ultimamente ho partecipato a diversi incontri su questo tema e ogni volta aggiungo un tassello utile alla ricostruzione di quel periodo. Ho ascoltato splendidi settantenni di oggi (splendidi ventenni di allora) rivendicare un ruolo attivo nelle discussioni del tempo, e con la stessa animosità di quegli anni. Anni di intenso fermento politico. Partiti, studenti, intellettuali cercavano di orientare dal basso il tipo di sviluppo da realizzare. In realtà a Roma le scelte erano già state fatte: portare nell’isola modelli di sviluppo simili a quelli del nord Italia per contrastare la drammatica e dilagante disoccupazione e combattere il fenomeno del banditismo. Tutto questo appoggiandosi sui risultati della Commissione di inchiesta Medici, che in realtà non si espresse a favore esclusivamente di un intervento industriale.
A distanza di cinquant’anni il bilancio è negativo. Su tanti fronti. Il contrasto al banditismo, ad esempio. Per giustificare l’insediamento industriale si partiva da una condanna pregiudiziale nei confronti del mondo agro-pastorale, percepito come nido di complicità malavitose e delinquenziali e quindi ostacolo allo sviluppo democratico e civile. I fatti hanno smentito clamorosamente questa convinzione. A Ottana, proprio negli anni dell’effimero boom economico seguito all’apertura degli impianti, si sono verificati due sequestri di persona: quello di Pietro Ghitti, direttore dell’impresa di costruzione edile dello stabilimento rimasto ucciso durante il rapimento, e quello di Ferdinando Ninna, un medico di famiglia rapito e rilasciato dopo mesi di prigionia. Ma Ottana è stato crocevia di diversi altri sequestri di persona e, dal 2000 al 2012, teatro di numerosi attentati agli amministratori locali, tra i più gravi in Sardegna. Fatti che evidenziano che l’efficacia dell’intervento industriale proposto come antidoto ai fenomeni delinquenziali non ha inciso in nessun modo. Il contrasto alla disoccupazione, poi, segna un altro fallimento, visto che ad oggi ciò che resta dell’originario impianto industriale offre appena una cinquantina di posti di lavoro rispetto ai settemila prospettati nel progetto iniziale e agli effettivi duemila, comprensivi di indotto, attivati nel periodo di maggiore produzione.
Alla prima fase, ne seguirono altre, ma con ricadute sociali ed economiche sempre meno positive per il territorio. Nel corso dei decenni, le politiche economiche e sociali sono svanite e lo Stato ha lasciato il campo alle multinazionali. I risultati più favorevoli in termini di ricadute economiche e conquiste sociali li ha ottenuti la politica industriale degli anni Settanta, non quella dai Novanta a oggi. Elenco di seguito qualche dato:
- cinquant’anni fa il primo insediamento industriale, realizzato su circa quattrocento ettari, portò un impatto di rottura netto. Basti pensare ai diritti sindacali, al lavoro femminile, alle categorie protette, al favorevole contratto del settore chimico, a un disegno aperto al territorio: scuole professionali, case dei dipendenti e infrastrutture in vari paesi della provincia. Una generazione di operai che, tra lavoro e paracadute sociali, è stata comunque accompagnata alla pensione.
- trent’anni fa la Legler, impiantata su circa settanta ettari della ex Sir, era un’azienda diffusa in tre stabilimenti nella provincia di Nuoro (con circa mille dipendenti tra Macomer, Siniscola e Ottana), attiva, a basso impatto ambientale, nelle lavorazioni del cotone e nella produzione del tessuto Denim. Nel solo stabilimento di Ottana i dipendenti erano quattrocento. Lo stabilimento è stato chiuso definitivamente nel 2008 per problemi interni alla proprietà, con la regione Sardegna, detentrice del 49% delle quote azionarie, incapace di qualsiasi iniziativa.
- venticinque anni fa il Contratto d’area, applicato su cento ettari di terreni extra industriali (ventinove progetti di impresa, quasi tutti dalla penisola, costati centoventuno milioni di euro di finanziamenti pubblici) avrebbe dovuto dare occupazione a 1.362 dipendenti: ne sono rimasti un centinaio.
- oggi il fotovoltaico occupa duecento ottanta ettari, con un’occupazione di appena una decina di part time e nessuna ricaduta, né diretta né indiretta, di produzioni o di benefit al Comune.
Insomma, oggi abbiamo numeri da insediamento Pip (Piccoli Insediamenti Produttivi), più che industriale. I dati sono sempre freddi, ma ci danno l’idea di quanto il territorio sia sempre più abbandonato. “Semus a su chi nos aghene”, subiamo senza reagire, proporre o contrastare. L’ultimo sussulto lo abbiamo dato col “no” a una centrale alimentata a carbone, ma quando è stata avanzata un’ipotesi di sviluppo legata alle vocazioni territoriali, partendo prima dalle bonifiche, non c’è stato alcun riscontro concreto. Oggi ciò che resta è un territorio disorientato, deresponsabilizzato, abituato ad aspettare l’ennesimo intervento esterno (statale o privato) che ci insegni come si fa (ovviamente con i nostri soldi).
Due elementi vanno inoltre segnalati:
- il primo riguarda il dato demografico, cresciuto per qualche anno durante la costruzione dello stabilimento, quando a operai e tecnici vennero dalla penisola e dalle città sarde per l’avvio della produzione. Molti di loro, giovanissimi, hanno poi sposato ragazze di Ottana dando vita a nuovi nuclei familiari. A questi si sono aggiunte famiglie di emigrati che sono rientrate per via delle opportunità occupazionali che si erano aperte in fabbrica. Il paese ha così invertito il trend dello spopolamento. A questo dato quantitativo non è però seguita una crescita qualitativa: numero di laureati, livello di capacità manageriale (interna o esterna allo stabilimento) e imprenditoriale sono rimasti tra i più bassi dell’isola.
- il secondo è che, come reazione a input culturali ed economici “estranei” alla comunità, gli abitanti si sono chiusi nelle tradizioni più connotanti a livello identitario, valorizzando il Carnevale e alcune storiche funzioni religiose. Conferma di un territorio fortemente conservatore.
A tutto ciò vanno infine aggiunti: un danno ambientale grave e sottovalutato, con gli enti preposti in posizione di debolezza rispetto a chi ha inquinato, che non ha mai pagato; un danno d’immagine non compensato; una fetta di territorio, quella dell’insediamento industriale, definitivamente estranea alla comunità; un paese depresso e malato, in cui le vite, senza screening sanitari e senza registro tumori, sono affidate alla casualità della fortuna.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
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Gian Paolo Marras, è un artigiano del legno. Dal padre Gonario ha appreso l’arte dell’intaglio delle maschere in legno di pero de su Boe, su Merdule, sa Filonzana, su Porcu e su Crapolu, tipiche figure del Carnevale di Ottana. Dal 2010 al 2015 è stato sindaco di Ottana.
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