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Il teatro sperimentale degli indipendenti di Anton Giulio Bragaglia nel centenario della fondazione
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2023 @ 01:11 In Cultura,Letture | No Comments
di Giovanni Isgrò
Questo articolo intende rendere omaggio al primo vero tentativo di rinnovamento del teatro italiano a partecipazione collettiva dopo la grande stagione dannunziana. Per quanto pluridecennale sia stata l’attività teatrale di Anton Giulio Bragaglia, sia nella veste di teorico e di critico che di promotore e corago di pièces in buona parte sperimentali, il riferimento dominante e per certi aspetti più tangibile del ruolo avuto nel panorama del rinnovamento della scena in Italia, rimane l’esperienza del Teatro degli Indipendenti.
Per comprendere il significato della nascita di questo spazio alternativo alla logora concezione del teatro istituzionale ancora basato sul dominio mattatoriale dell’attore e di una letteratura fra il simbolico e lo psicologico, in buona parte d’importazione francese, bisogna partire almeno da due componenti fondamentali, peraltro già ben evidenziate da alcuni studi del secondo Novecento [1].
Da un lato ci sono gli stimoli e i suggerimenti, a loro volta di diversa natura, provenienti dal mondo futurista, dall’altro la conoscenza non sempre diretta, in molti casi superficiale, talvolta soltanto libresca, dell’universo molteplice delle avanguardie europee, dovuta in parte ai numerosi viaggi compiuti all’estero, in parte ad informazioni via via assunte da voraci letture di scritti teorici e cronache di provenienza internazionale.
Come per una sorta di evoluzione logica, un anno dopo l’inaugurazione del futurista “Cabaret del diavolo”, il Teatro degli Indipendenti sembrò proporsi come l’ubi consistam del clan avanguardista con un interesse alle forme d’arte, secondo l’esperienza già avviata alla Casa d’Arte Bragaglia, ma soprattutto al teatro, senza trascurare al tempo stesso l’idea del ritrovo alternativo aperto alla fruizione borghese. Quest’ultimo, nella accezione di spazio degli incontri dei modernisti ma anche dei simpatizzanti e comunque di quanti, attratti dalla dimensione del “diverso” contribuissero ad aumentare gli incassi dell’impresa. In effetti, avventori meno abbienti (artisti, poeti, intellettuali e giovani scrittori squattrinati) che fra pastasciutta e vino si accendevano di fronte alle invenzioni sceniche messe in atto in quell’angusto palcoscenico sperimentale, si contrapponevano, nella sala, a personalità e viveurs che alimentavano tra coppe di champagne e menu di qualità, il business a scopo culturale dei fratelli Bragaglia, in un succedersi di balletti e sketcbs.
L’adattamento delle antiche terme romane di Settimio Severo in via degli Avignonesi fu affidato, come è noto, a Virgilio Marchi, mentre Balla, Depero e Prampolini, secondo consuetudine acquisita per la realizzazione dei cafè-cabarets futuristi romani si occuparono dell’arredamento e della decorazione. Così Anton Giulio Bragaglia descrive la scoperta e i lavori di adattamento delle terme destinate al Teatro degli Indipendenti:
A differenza dei futuristi stessi e in contrapposizione al teatro di routine dei professionisti, Bragaglia tuttavia, non rinnegando il testo da affidare alla rappresentazione, volle fare del suo teatro, come è noto, un centro di promozione dei giovani autori italiani, accogliendo al tempo stesso le novità del teatro internazionale. Insieme al teatro sintetico futurista, da Marinetti a Settimelli a Corra, al Teatro degli Indipendenti si rappresentarono, oltre a Pirandello e Rosso di San Secondo, soltanto per citarne alcuni, testi di Campanile, Soffici, Aniante e poi, fra gli autori stranieri, Laforgue, Jarry; O’Neill, Capek, Sternheim, Schnitzler, Apollinaire.
Fermo restando che va riconosciuto al Teatro degli Indipendenti il merito della pluriennale continuità nel suo ruolo di teatro d’eccezione, non riscontrabile peraltro negli altri riferimenti del panorama nazionale, è opportuno al tempo stesso evidenziare il distacco fra teoria e prassi nel pur febbrile impegno di Anton Giulio Bragaglia per un rinnovamento della scena italiana.
È fin troppo nota la straordinariamente ricca articolazione ed estensione di scritti nei quali peraltro l’autore, oltre a dare spazio agli aggiornamenti sul lavoro delle avanguardie e sulle testimonianze innovative del teatro europeo, a differenza dei futuristi ortodossi non rinnega tout court gli ammaestramenti della tradizione: dalla Commedia dell’Arte alla scenotecnica rinascimentale e barocca; patrimonio che egli giudica indispensabile per una riteatralizzazione del teatro. Anche se fra le centinaia di articoli distribuiti in circa 125 fra periodici, quotidiani, riviste e le numerose monografie non è difficile riscontrare iterazioni di concetti ripresi e ripubblicati nella stessa forma più volte, rimane evidente la testimonianza di una fede innovatrice che tuttavia non trova nella prassi scenica un riscontro effettivo di qualità o comunque in grado di determinare un percorso di sostanziale, generale rinnovamento tale da lasciare segni di lunga durata. In questo senso, il dato certo e importante che riesce a tradursi da teoria ad empiria e che stabilisce le distanze dagli stessi maggiori protagonisti del teatro futurista è il passaggio dal ruolo di tecnico-autore che, come abbiamo visto, caratterizza gli stessi Depero e Prampolini, più che Balla, a quello di corago, inteso come curatore della messinscena nel suo complesso. Accezione, questa, che Bragaglia assimila dai padri fondatori del teatro europeo approdati alla regia e che cerca di mettere in atto in una condizione di precarietà dovuta non soltanto alla povertà di mezzi e di strutture, quanto pure ad un sostanziale limite del suo stesso progetto costruttivo, che Bragaglia cerca a suo modo di mimetizzare fra motivazioni di ordine economico, in nome e in difesa del concetto di libertà e indipendenza culturale e al di fuori da pericolosi compromessi.
Senza dubbio, nonostante l’impegno per un teatro libero e anti-commerciale, si nota nell’attività di Bragaglia l’assenza di quel rigore ideologico e operativo dei registi fondatori del teatro europeo del Novecento che, oltre alla storia (da Appia a Craig e Reinhardt), hanno fatto la scuola (ad esempio Mejerchol’d rispetto a Tairov, e in particolare Stanislavskij) anche nel senso della istituzione pedagogica del teatro, come avvenne al Vieux-Colombier di Copeau, senza trascurare Vachtangov o Dullin. In effetti l’idea di Bragaglia di fare degli Indipendenti una sorta di crocevia delle nuove, spesso inedite, prove di giovani promettenti autori o di contributi tecnico-artistici espressi a titolo gratuito e volontaristico da parte di un gruppo di amici scenografi, architetti, pittori (i soliti Balla, Depero, Prampolini, cui si aggiungevano adesso Marchi e Valente e persino Cambellotti), rimaneva in realtà lontana sia da qualsiasi impegno formativo di una nuova coscienza scenica, sia dal principio di una chiamata collettiva alla rinascita del teatro, come pure D’Annunzio aveva proposto e concretamente progettato per il teatro di Albano.
Fermo restando che la storia del teatro del Novecento (come di qualsiasi altra epoca) non è solo la cronaca di spettacoli rappresentati e raccontati, ma soprattutto la storia di culture, di poetiche, oltre che di luoghi in cui la creatività culturale si è espressa e dove ha avuto senso promuovere tensioni ed educare per un rinnovamento sociale del teatro e durare per dare concretezza al teatro del futuro, l’assenza di una idea pedagogica diventa, nel caso del Teatro degli Indipendenti, un manque rilevante. Non è un caso del resto che Bragaglia, di fronte al solido, quanto chiaro pensiero espressogli da Copeau sull’opportunità di un teatro pedagogico, non poté che reagire con la parzialità del touché. L’episodio si riferisce ad una intervista rilasciata proprio dall’artista francese al nostro corago e pubblicata su «L’Impero» del 23 dicembre 1926. In quella occasione Copeau aveva dichiarato: «Dalla necessità di un nuovo organismo viene la necessità di una scuola, ma non più quale semplice raccolta di allievi diretti da un maestro unico, ma come una vera comunità capace in seguito di essere sufficiente a se stessa e di potere rispondere a tutti i propri bisogni».
La puntualizzazione di Bragaglia sull’importanza del teatro-scuola in risposta all’affermazione di Copeau spostava evidentemente l’asse su una dimensione ben diversa da quella radicalmente formativa sul piano culturale, e al tempo stesso creativa, cui si riferiva Copeau pensando a progetti di lunga durata. Su un altro piano, l’idea di riteatralizzare la scena, soprattutto attraverso processi di meccanizzazione, se da un lato era riconducibile alle novità e ai progressi della scenotecnica, della luminotecnica e dell’ingegneria teatrale del panorama europeo, cui Bragaglia si andava acculturando, dall’altra era frutto di una concreta attenzione alle invenzioni e ai princìpi degli scenotecnici nostrani, e in generale alla cultura materiale degli innovatori italiani, da Ricciardi a Prampolini, da Marchi a Valente; questi ultimi frequentemente presenti, fra gli altri, nelle Pagine del macchinista, la rubrica notoriamente curata da Bragaglia per la rivista «Comoedia». In esse c’è un interesse acceso e sincero per meccanismi scenici nuovi in grado di creare mutazioni a vista, per ingegni scenotecnici tali da fare apprezzare il valore di scene volumetriche tridimensionali e per effetti luminotecnici capaci di accrescere il senso del meraviglioso scenico, al di là della vecchia scena dipinta, fino alla funzione della luce come geniale proiezione visiva del dramma letterario. Una passione, questa, che portò Bragaglia persino a vantare priorità di invenzioni, come accadde, ad esempio a proposito della luce psicologica.
L’esigenza di adeguare la scena al ritmo dei tempi attraverso l’esaltazione del movimento e la creazione originale del “clima scenico” con l’impiego di luci, colori, rumori, voci, atmosfere-ambiente è la motivazione alla quale Bragaglia fa riferimento per svolgere la sua attività di corago in quanto coordinatore dell’opera del poeta, dell’attore, del luminotecnico, dello scenografo, del macchinista. «Tutte le cure del direttore apparatore – afferma Bragaglia – saranno concesse a mettere ·in luce il soggetto e a svelarne i segni caratteristici per ottenere il fine preposto al lavoro, cioè l’effetto perseguito dalla rappresentazione» [4]. In virtù di questo, il corago, nonostante la ristrettezza del palcoscenico degli Indipendenti e la mancanza di dispositivi girevoli o di piattaforme mobili, creò allestimenti simultanei e rapide mutazioni a vista di scene costruite.
Nell’impossibilità, tuttavia, di vedere realizzate le sue aspirazioni di allestitore scenico, si orientò verso l’affermazione dell’importanza dell’improvvisazione; che talvolta egli interpretò come forma di genialità pur nella semplicità tecnica dell’espressione: «Lo sperimentale degli Indipendenti è, per programma, alle elementari; e ci dovrà sempre restare, per non tradire la sua funzione di studio. Non presumerà mai d’essere definitivo e perfetto» [5]. Lo stesso Carlo Ludovico Bragaglia, del resto, in una intervista rilasciatami nella seconda metà degli anni ‘80, così mi raccontava la precarietà del modo di fare teatro agli Indipendenti:
Il ricordo di Carlo Ludovico Bragaglia va a sua volta opportunamente integrato con alcune precisazioni utili ad evitare di cadere in eccessi di banalizzazione del fenomeno. Ci vengono in soccorso, in questo senso, alcune testimonianze di Virgilio Marchi. Egli in effetti ammette che le sue prime esperienze di architetto-scenografo al Teatro degli Indipendenti furono «una modesta gavetta», e ancora in una sua memoria riguardante il 1924, dichiara: «Mi avviavo verso un ragionare costruttivo che mi induceva a detestare le improvvisazioni, anche se geniali, per un costruire razionale» [6]. Nonostante questa dichiarazione, Marchi non rinnega l’importanza dell’esperienza degli Indipendenti, all’interno della quale sperimentò, fra le altre cose, una delle invenzioni più significative del suo segno scenografico, ossia la prospettiva diagonale (nella Fantasima), ripresa nei Mendicanti con un gioco asimmetrico con tre spezzati che tendevano a stringere la scena a imbuto, altra sua invenzione stilistica; mentre in Malaguefia si nota già l’influenza dei suoi disegni architettonici di contrafforti applicati a muri e torri.
Al di là dell’esperienza personale, rimane significativa la testimonianza resa da Marchi appena cinque mesi dopo l’inizio dell’attività dello “sperimentale” di Bragaglia. In essa risultano evidenti, fra gli altri, nonostante i limiti dello spazio scenico, i tentativi di garantire alla scena mobilità meccanica, articolazioni di piani in assetto verticale, variabilità di luci, profondità, prospettive sperimentali.
Il lungo resoconto di Marchi, che non trascurava di rivolgere un caloroso apprezzamento ai macchinisti guidati dall’«Ottimo Rondini», si concludeva con l’auspicio che le esperienze fatte si potessero divulgare nei maggiori teatri. Un auspicio, questo, condiviso da Antonio Valente, l’architetto scenografo destinato anch’egli a dare, come Marchi, ma con percorsi sostanzialmente diversi, un fondamentale contributo al rinnovamento della scena in Italia al di fuori degli Indipendenti. Non a caso, pure in questo teatro sperimentale, al suo rientro in Italia dopo i soggiorni parigino e berlinese, Valente, amico di Carlo Ludovico Bragaglia, trovò un sia pur breve, quanto significativo, approdo espressivo cimentandosi in un originale esperimento di messinscena che lasciò intuire la sua professionalità artistica orientata verso tipologie di invenzioni e realizzazioni di lunga durata che avrebbero fatto la storia.
Per la verità già nel febbraio del 1919 Valente, ancora giovanissimo, era stato apprezzato da Anton Giulio Bragaglia, che per la prima volta si cimentava nella veste di corago in occasione della rappresentazione di Per fare l’alba di Rosso di San Secondo, interpretata al Teatro Argentina dalla Compagnia del Teatro Mediterraneo diretta da Pirandello, Rosso e Martoglio.
In quell’occasione Bragaglia si era proposto di sperimentare la luce psicologica, intendendo in questo modo affermare, come si accennava prima, l’originalità della sua idea rispetto a quella di Ricciardi, che pure egli dichiarava di apprezzare [8]. In realtà è noto che sulla funzione psicologica della luce nella rappresentazione scenica, da Appia in avanti, la rivoluzione teatrale del primo Novecento aveva già svolto tutto il percorso teorico, evidenziando la necessità di una perfetta corrispondenza fra le componenti del dramma, luce compresa. Appia stesso nella sia pur breve collaborazione con Mariano Fortuny aveva avuto la possibilità, anch’egli per la prima volta, nel 1903, di vedere applicate le proprie teorie [9].
Nel caso della messinscena di Per fare l’alba la novità poteva venire soltanto dal modo col quale l’intenzione del corago avrebbe potuto realizzarsi adeguatamente in un momento in cui lo stesso Anton Giulio lamentava la carenza di maestri d’arte «ai quali affidare un’idea e uno schizzo, certo che esso non sarà soltanto bene eseguito, ma interpretato con spirito di vivacità, in una traduzione pulita, curata, impeccabile»; mentre le possibilità tecniche del Teatro Argentina di allora, non dovevano di certo incoraggiare una impostazione luminotecnica diversa da quella tradizionale [10]. Da qui l’importanza e la novità dell’invenzione del giovane Valente, che consentì al corago di ottenere gli effetti desiderati di mutazione di atmosfera/ambiente «ora freddo, ora infuocato» in rapporto allo sviluppo del dramma.
Per quanto mancassero ancora il supporto dell’esperienza e gli stimoli delle applicazioni luminotecniche riscontrate dal giovane architetto-scenografo nei cinque anni di soggiorno oltralpe, è possibile già individuare nella prova romana del ‘19 alcuni elementi fondanti della modernità del contributo dato da Valente al teatro in Italia. Fra questi, la necessità della rapida effettuazione della mutazione scenica con possibilità di scambi continui a vista. Condizione questa, che per il momento Valente limita all’uso della luce, rinunciando ai dispositivi scenici e alla loro collocazione convenzionale e che in generale si inquadra nella logica del dinamismo già abbondantemente teorizzato e propagandato dai futuristi, e in un rapporto anche di necessaria concorrenza con la nascente tecnica cinematografica, ma che in Valente si precisa più concretamente e realisticamente come esigenza tecnica, condizione intermedia, ma irrinunciabile, per fare del teatro una struttura la più funzionale ‘possibile, verso un’idea di messinscena in grado di restituire agevolmente tutto ciò che l’autore del dramma e il corago insieme intendono esprimere.
Accanto al dinamismo scenico, altra caratteristica dell’idea di teatro di Valente, che meglio si preciserà in seguito al contatto diretto coi costruttivisti a Berlino, è la necessità dell’impianto scenico costruito; da collegare non soltanto col superamento della scena dipinta, quanto anche con l’esigenza di mimetizzare i dispositivi luminotecnici e ancora, di penetrare scenotecnicamente nella struttura del dramma per restituirlo, col concorso della parola e della musica, in maniera “totale”, esprimendone per così dire dal di dentro il significato più profondo.
Per la messinscena di Per fare l’alba infatti, stravolgendo l’uso tradizionale dei dispositivi dell’Argentina (luci di ribalta, bilance, manto d’Arlecchino ecc.) Valente colloca «lampade che emanano luce come bomboniere» in tutte le parti della scena, «donde le luci si espandono come sciabolate: ma perché i fari di luce non siano violenti, i proiettori hanno lampade coperte di seta [...], le luci stanno nel muro, nei pilastri, innestate nella scena stessa. I pilastri emanano luci quali parti della stessa architettura scenica. Dando luce-atmosfera-ambiente creano lo stato d’animo del momento. È come una scena-lampada, anzi sono lembi di scena-lampada» [11].
I quattro anni che vanno dal 1919 al 1923 corrispondono appunto al soggiorno all’estero (cui prima si faceva cenno) che consentì a Valente di assimilare e di confrontarsi con espressioni fondamentali del rinnovamento scenico in Europa. È proprio in coincidenza col suo rientro in Italia che si colloca il ricongiungimento dell’architetto-scenografo coi fratelli Bragaglia e la sua amichevole prestazione per la messinscena de La vetrata azzurra al Teatro degli Indipendenti inaugurato due mesi prima. In quella circostanza, ·ancora una volta, il corago Anton Giulio ebbe la possibilità di mostrare, grazie all’amico Valente, un allestimento scenico fuori dall’usuale.
Gli effetti di luce ed ombra sulla vetrata che faceva da sfondo alla scena del balletto sul tema del triangolo amante-moglie-marito con conclusione tragica furono creati da Valente in quella occasione con la doppia funzione di sottolineare il clima passionale della vicenda, esprimendo attraverso la diversità dell’intensità della luce la tensione psicologica che animava l’azione, ma al tempo stesso di raddoppiare la profondità e l’articolazione della scena, lasciando intuire allo spettatore, attraverso l’ombra del terzo personaggio oltre la vetrata, l’estensione della trama verso l’esterno: effetto ancora più inquietante per il doppio riferimento che lo spettatore riusciva a percepire fra scena e fuori/scena. Il colore azzurro della luce diffusa inoltre avvolgeva pubblico e danzatori in un’unica tensione emotiva eliminando qualsiasi frattura fra platea e palcoscenico.
Malgrado la ristrettezza dei mezzi e la povertà dei materiali [12], già in questa messinscena estremamente semplice Valente dava il segno di un metodo e di un’idea basati sulla essenzialità, sulla sintesi e sull’economia dei tempi dell’azione, grazie appunto alla risoluzione di presentare sulla scena, contemporaneamente, ciò che avrebbe dovuto essere rappresentato in tempi successivi. E tutto questo, riuscendo ad armonizzare le componenti della musica, della luce e dello spazio con il movimento del corpo dei danzatori.
Rispetto alla realizzazione della scena-lampada del 1919, Valente, pur continuando a sfruttare l’elemento luminotecnico come centrale e unificante l’azione scenica, dava ad esso anche la funzione di interprete mobile e dinamico, senza con questo proporre alcunché di astratto o di ostentatamente sperimentale o rivoluzionario. Pur ricorrendo a materiali estremamente semplici e leggeri, Valente si distaccava così dalla routine dell’improvvisazione, tipica delle messe in scena di Carlo Ludovico Bragaglia o dalle invenzioni dello stesso Anton Giulio, in cui il compiacimento della “trovata” andava ben al di fuori dalla logica e dal rigore di una tecnica e di una ideologia. La dettagliata descrizione dell’episodico intervento scenoluminotecnico di Valente è utile in effetti per cogliere più chiaramente, per differenza, il limite del modo di sperimentare al Teatro degli Indipendenti.
Il principio del catturare improvvisando in maniera assolutamente estemporanea ed occasionale, senza un orientamento scenografìco ben preciso in un contesto di assoluta precarietà di mezzi e senza il sostegno di un vero e proprio laboratorio, non rispondeva alle aspirazioni di Valente, il quale dopo l’esperienza de La vetrata azzurra avrebbe continuato a frequentare gli Indipendenti anche per l’amicizia che lo legava a Carlo Ludovico Bragaglia e agli altri artisti che gravitavano in quel teatro, ma non certamente nelle vesti di scenografo, se non per qualche sporadica collaborazione [13] o per saltuari suggerimenti.
Del resto già nello stesso 1923 si colloca la prima testimonianza significativa del modo di sperimentare di Valente artista scenoluminotecnico in un contesto molto diverso dallo “sperimentale” bragagliano (come pure da quello futurista). Proprio in quell’anno l’architetto-scenografo-costumista fu chiamato dalla Fenice di Venezia a mettere in scena spettacoli che potessero portare anche in uno dei maggiori luoghi deputati alla tradizione lirica e ballettistica modernità ed esclusiva originalità. L’intervento di Valente si presentò come espressione organica e matura di una tecnica ormai acquisita e utilizzata nello sviluppo narrativo di una vera e propria azione teatrale in forma di balletto.
Due furono gli elementi di base della scenotecnica utilizzata da Valente: la luce e la tela trasparente con effetti cromatici utili a consentire il cambiamento a vista della scena, senza uso di entr’acte in assenza assoluta di sipario, tali da determinare il massimo dell’effetto dinamico e cinetico. Così si legge in una recensione dell’epoca: «Noi vediamo, ad esempio, che da una visione invernale si passa istantaneamente ad una scena primaverile; da uno spettacolo alpino ad una spiaggia ridente ed assolata: e ciò senza nulla mutare sul palcoscenico» [14]. In questa tecnica di inscenamento, già in parte acquisita nella pratica precedente, Valente inserì una componente assolutamente nuova, il costume cangiante. Al fine di evitare che il tempo tecnico del cambiamento dei personaggi e del mutamento del costume degli stessi da una scena a quella successiva potesse determinare una situazione di scena vuota, Valente ricorse, con l’aiuto della luminotecnica che gli consentì opportuni cambiamenti di tagli di luce, alla creazione del costume mutevole a vista, sì che l’effetto dinamico dell’intero scorrere dell’azione non subisse soluzione di continuità. Valente stesso definì questa forma di spettacolo plastico-musicale: «Sinfonie musicali, unite a sinfonie cromatiche della luce e della plastica dei corpi danzanti» [15] «Il Valente – si legge ancora nella testimonianza dell’epoca – ha potuto, con questo sistema, mettere in scena la Danza macabra di Saint-Saens, dove in un primo tempo si vedono sulla scena degli scheletri che in secondo tempo, ad una variazione del tema musicale si trasformano istantaneamente in gentiluomini della corte di Carlo V e in gentildonne dell’epoca» [16].
In realtà. Valente, che non ci ha lasciato documenti esplicativi sulla elaborazione dei dispositivi utilizzati per ottenere gli effetti scenici dei suoi spettacoli alla Fenice di Venezia, andava ben oltre la tecnica pura dell’illusionismo (i giochi di illusione di fin de siécle) [17], come anche si distaccava dalle invenzioni shock dei Futuristi. La sua era la ricerca di una tensione complessiva e unitaria, pur nell’articolata scomposizione dei colori in tutta la gradazione possibile: «meravigliosi sono gli effetti di luce che si sono raggiunti con il Sogno di Sciabrin e con l’Arcobaleno di Schumann. I corpi danzanti passano in quest’ultimo, in una nube dalle varie gradazioni dei viola e dei rossi, attraverso il mirabile gioco dei colori scomposti della luce bianca» [18]. Anche se i costumi non si discostavano molto dalla configurazione naturalistica, era il trasformismo continuo che rendeva l’insieme estremamente moderno, competitivo per certi aspetti nei confronti della velocità della successione dei tempi dei fotogrammi cinematografici: mutazione dell’immagine sull’immagine che poteva fare a meno del tempo reale della dissolvenza e che portava in una dimensione scenica difficilmente compatibile con l’improvvisazione vissuta solo qualche mese prima nel Teatro Sperimentale di via degli Avignonesi.
La sospensione della regolare attività del Teatro degli Indipendenti avvenuta per l’intero anno 1924, dovuta all’impegno assunto da A.G. Bragaglia nella qualità di direttore della Compagnia Drammatica Italiana Stabile Sarda, non portò d’altro canto, alla ripresa del 1925, ad un sostanziale cambiamento di strategia per quanto riguardava i problemi della messinscena. Se da un lato, infatti, si apprezzarono bozzetti dalle firme illustri (da Balla a Depero a Prampolini allo stesso Marchi ecc.) e formulazioni teoriche oggetto di mostre e conferenze regolarmente tenute presso la Casa d’Arte Bragaglia, dall’altra le fotografie delle scene degli spettacoli, dimostrano approssimazione e povertà di mezzi di esecuzione, che ha indotto qualcuno a configurare una precisa tipologia scenica, ossia quella del teatro tascabile:
Sul piano dei generi praticati ci fu una forte prevalenza del teatro di prosa, accompagnata da una maggiore qualità artistica degli interpreti, mentre la danza fu relegata in buona parte al ruolo di intermezzo. Come era stato annunciato da A.G. Bragaglia sin dall’apertura dello Sperimentale, si trattò di opere di giovani autori stranieri mai rappresentate in Italia, ma non furono trascurate esibizioni basate esclusivamente sull’effetto sorpresa, come avvenne per la ripresa di Fantocci elettrici di Marinetti. Il programma dunque appariva articolato in rappresentazioni fondamentalmente diverse, senza che si lasciasse comprendere «verso quali generi Bragaglia [intendesse] indirizzare i propri fedeli: ché dal Fiore necessario di Rosso di San Secondo si balza ad una farsa di Campanile e dalla Sonata degli spettri di Strindberg ad una leggerissima trama di De Vigny» [20].
Nonostante la preoccupazione sollevata dalla mancanza di un indirizzo riconoscibile sul piano dei contenuti drammaturgici, Bragaglia per la stagione 1926 si faceva sempre più acceso promotore di intrecci fra la pratica teatrale degli Indipendenti e i dibattiti sulla crisi del teatro, pubblicando in proposito il saggio La maschera mobile [21]. Né egli stesso si risparmiava dall’effettuare prove estreme nella veste di régisseur come avvenne per la messinscena di Re Ubu, per la ·quale si produsse in venti cambiamenti di scena a vista, sfidando in questo modo l’impossibilità di avere un palcoscenico dotato di strumentazione meccanica per le mutazioni di quadro. Secondo «lo spirito del cinematografo dominante ai tempi nostri – dichiara Bragaglia – non avendo potuto realizzare finora il “palcoscenico multiplo” mi sono adattato, sia pure nel mio angusto palcoscenico, ad allestire una commedia con la· tecnica usata per le riviste; e questo a dimostrare come perfino un canovaccio monotono quale può apparire a lungo andare il Re Ubu di A. Jarry riesca a procurare un’intensa incalzante serie di effetti, colpi di scena, varietà di attese e di sorprese: in una sola espressione, interesse vitale teatrante [...]» [22]. La storia degli Indipendenti, non senza ostacoli e periodi di assenza del suo fondatore si concluse come è noto nell’anno 1930 con grandi festeggiamenti in onore di Bragaglia da parte dei maggiori protagonisti del rinnovamento artistico e culturale italiano.
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