di Andrea Francesco Zedda
Premessa
Tra il 1969 e il 1974 ha luogo in Sardegna una seconda fase di industrializzazione, successiva a quella che ha coinvolto Porto Torres, Assemini e Sarroch. Al centro del maestoso progetto industriale, inserito nel Piano di Rinascita della Sardegna e finanziato dalla Cassa per il Mezzogiorno [1], questa volta si trova la realizzazione di uno stabilimento chimico a Ottana, paese ai piedi della Barbagia di Nuoro. Da quel momento in poi, il discorso sull’industria di Ottana verrà utilizzato nella narrazione politica e intellettuale regionale come testimonianza della “colonizzazione del centro Sardegna”, dello “sconvolgimento antropologico” o frequentemente della “venuta, non richiesta, dello Stato e della modernità”; racconto utilizzato in passato e adottato ancora oggi da movimenti politici, scrittori, registi e, spesso, anche da studiosi universitari. Nel contempo, inizia invece per Ottana una narrazione che inserisce la scelta del paese e l’operato industriale dello Stato, in un più articolato percorso storico locale, che ha già visto la presenza e l’intervento esogeno nell’epoca “gloriosa” del Medioevo, quando fu designata sede di un’importante Diocesi del centro Sardegna.
Il presente articolo riassume un lavoro di ricerca [2] che si è dedicato all’osservazione del complicato sistema simbolico e identitario locale creatosi a seguito dell’operato industriale nel paese di Ottana, e al suo manifestarsi nella memoria e nella narrazione del passato da parte dei suoi protagonisti. Durante la ricerca, si è voluto considerare l’influenza che l’evento industriale ha avuto, e che continua ad avere, nella costruzione del discorso identitario locale, per poter meglio comprendere il valore simbolico che oggi la popolazione attribuisce alla “questione industriale” che l’ha interessata.
Questo lavoro non vuole perciò – ed è doveroso sottolinearlo – inserirsi all’interno del dibattito regionale che quasi esclusivamente evidenzia (e condanna) la visione esogena dell’operato industriale in Sardegna, e che perpetua accuse verso lo Stato; mira, però, a comprenderlo negli aspetti strettamente relazionati a Ottana, non solo per inquadrare il contesto in cui si è andato a realizzare lo stabilimento chimico, ma anche per osservare il discorso politico che include il paese nelle rivendicazioni odierne. La visione esclusivamente esogena e fatalista dell’intervento economico statale risulta chiaramente riduttiva a uno sguardo antropologico sulle dinamiche in questione, e non è stata quindi la strada percorsa in questo lavoro. Un’osservazione di questo tipo, infatti, non considera il ruolo attivo degli attori sociali e le strategie identitarie e adattative messe in atto in risposta alle dinamiche economiche e politiche. Le domande che hanno guidato lo studio quindi sono state: quali simboli e strategie retoriche costruiscono il discorso identitario tra gli abitanti di Ottana oggi? In che “luogo” (simbolico) viene collocata la “questione industriale” all’interno della narrazione della storia locale? Che funzione svolgono il tempo e le tradizioni nella narrazione della memoria del passato? E, infine, come viene narrato lo Stato?
Le storie di vita come “luogo” della ricerca
Il percorso etnografico che qui cerco di riassumere, è stato effettuato in particolar modo attraverso la raccolta di “storie di vita” o, come le definisce Bertaux, “racconti di vita” (cfr. 2008) di una ventina di attori sociali dell’industrializzazione (e un’altra decina di personaggi secondari). Lavorare con le narrazioni autobiografiche mi ha messo a disposizione una serie di racconti attraverso i quali poter verificare la coerenza delle mie riflessioni, e in cui poter cercare quelli che Bertaux chiama “indizi” (Ibid.: 97) della ricerca. Con “indizi” il sociologo francese intende le descrizioni che rinviano ai meccanismi sociali presi in esame, che mi hanno fatto comprendere meglio come indirizzare l’intervista attraverso la cosiddetta “domanda ulteriore” (Clemente, 2010: 66). Ripercorrere il viaggio della memoria locale con le narrazioni autobiografiche mi ha permesso, perciò, di entrare “dentro l’identità”; la memoria è difatti generatrice di identità, e osservare le omissioni, esaltazioni e negazioni emerse dal “percorso storico” indicato dai miei informatori, è diventato metodo utile per comprendere come si sia arrivati alle dinamiche di autorappresentazione identitaria attuali.
Il tema dell’industrializzazione ha lasciato – come spesso è stato espresso dai miei interlocutori – delle “ferite aperte”, non solo per l’instabilità lavorativa che ha caratterizzato il polo industriale, ma anche per questioni legate alla salute di una considerevole quantità di lavoratori. Molte delle storie di vita sono quindi “fallite” nel loro intento. La rabbia per la perdita di alcuni cari e la condanna per la precarietà lavorativa, hanno difatti direzionato frequentemente la narrazione verso lunghi discorsi di accusa e condanna verso l’operato svolto, e sono emerse spesso difficoltà nel ritornare al percorso del racconto autobiografico. Ma le “tensioni narrative” manifestatesi in queste accuse sono risultate altrettanto importanti ai fini dello sviluppo del lavoro. Esse hanno fatto emergere chiare “ambiguità identitarie”, sia collettive che personali, che sono diventate il “luogo” privilegiato per comprendere il valore simbolico attribuito all’industrializzazione e il ruolo dell’alterità nella definizione identitaria. Sono risultate essere insomma, come direbbe Bertaux, fondamentali “indizi” della ricerca.
La realizzazione dei primi insediamenti industriali a Ottana attraverso il finanziamento pubblico ha contribuito a consolidare la narrazione di un’industria “arrivata dall’alto”, giunta per volere dello Stato. Si è manifestata perciò una facile accoglienza di quella retorica di contrapposizione identitaria verso l’alterità statale, perpetuata, soprattutto negli anni Settanta, dal mondo giornalistico, politico e intellettuale sardo. Questo periodo, però, per quanto venga utilizzato per evidenziare la cattiva gestione della “questione industriale”, è contraddittoriamente narrato anche in maniera positiva dagli abitanti. La prima epoca industriale viene, infatti, spesso ricordata come periodo “glorioso” che ha portato benessere economico e ha posto il paese al centro delle attenzioni politiche regionali. Così come l’epoca diocesana, quando Ottana è stata per cinque secoli sede della diocesi e punto di riferimento di molti paesi del centro Sardegna, il primo decennio industriale viene spesso narrato come quel momento storico che ha dato agli abitanti la sensazione di essere nuovamente al centro della storia, come lo si era “prima”.
Dalla narrazione della memoria è dunque emersa una visione ambigua dell’industrializzazione, che si muove tra l’accusa verso l’alterità statale e il malinconico ricordo di un’epoca di benessere. L’analisi dei momenti “critici” delle narrazioni dei racconti di vita, ha consentito di avere gli strumenti per comprendere a fondo le “ragioni” dell’identità, così come le necessità e le inquietudini degli interlocutori della ricerca in riferimento alla “questione industriale”. Per questo motivo, nell’analisi delle dinamiche di autorappresentazione identitaria, ho accolto l’invito di Remotti (cfr. 2010) di trattare l’identità come oggetto della ricerca e non come «uno strumento per spiegare (un explanans)», piuttosto come «un oggetto di spiegazione, di analisi, di descrizione, un atteggiamento che va capito nelle sue motivazioni e colto nelle sue implicazioni (un explanandum)» (Ibid.: 117-118).
Questo percorso tra le storie di vita e l’analisi dell’identità mi ha permesso oltretutto di poter approfondire il tema della costruzione comunitaria del tempo. Il tempo è una componente centrale nella retorica identitaria locale. “C’era un tempo di gloria”, durante i primi anni dell’industria, così come durante il periodo diocesano. E ora “c’è il tempo di crisi”, quello del fallimento industriale, e ancora prima quello che, in seguito alla diffusione della malaria nel paese, ha condotto allo spostamento della Diocesi da Ottana ad Alghero. Il passato medioevale, carico di una grande valenza simbolica nell’attualità, consolida la convinzione locale del ripetersi della storia. Si presenta, secondo gli abitanti, come la dimostrazione fattuale dell’“inevitabile” ciclicità della storia della comunità, destinata a vivere l’alternanza di periodi di “gloria” e di “crisi”.
Analizzare le retoriche identitarie mi ha portato ad avere a che fare con attribuzioni di valore che evocano l’antico passato medievale locale. Ha significato, insomma, approfondire la complessa relazione tra passato e presente e tra tempo e identità dimostrando come, in particolar modo nel mutamento socio-economico, il passato e la memoria siano capaci di trovare nuovi modi di essere attivati e manipolati a seconda delle esigenze (cfr. Halbwachs, 1997). Questo meccanismo della memoria ha fatto risultare superficiale la formula causa-effetto con cui è stata quasi sempre analizzata la “questione industriale” di Ottana; motivo per cui, seguendo le parole di Sahlins, mio obiettivo è stato anche quello di
«evitare la solita riduzione dell’incontro culturale a fenomeno fisico o a principio teleologico: mi riferisco alla comune percezione dell’economia globale in termini semplici e meccanicistici di forze naturali e alle conseguenti descrizioni delle storie locali come cronache monotone di corruzione culturale» (Sahlins, 1992: 201).
Per comprendere meglio i “giochi della memoria” (cfr. Nora, 1984) ho effettuato un percorso storico à rebours (cfr. Remotti, 2010: 132), “a ritroso”, in cui, attraverso la narrazione dei racconti di vita, ho cercato di ripercorrere la storia della comunità degli ultimi sessant’anni. Dall’analisi di questi racconti si esplicita, oltre all’accusa verso Stato e Regione, la mitizzazione del passato preindustriale. Si colpevolizzavano spesso le istituzioni nazionali di aver “strappato” i sardi dall’agricoltura e dall’allevamento per portarli a lavorare all’industria, modificando così l’“originaria cultura sarda” (cfr. Lilliu, 1971). Ma se la realizzazione del polo di Ottana è diventato il simbolo attorno al quale far ruotare quest’accusa, in realtà il riferimento al mondo agropastorale è poco presente proprio nel paese protagonista di questo processo: fino agli anni Cinquanta, infatti, Ottana era caratterizzata da un’economia di sussistenza tra le più povere della zona, e viveva una condizione sanitaria tra le peggiori di tutta l’isola (accentuata da gravi episodi di malaria). Dai racconti di vita, raramente sono emerse narrazioni legate alla vita agropastorale, piuttosto si ricordano la povertà e le difficoltà sanitarie che precedevano l’industria.
L’evocazione nostalgica del passato preindustriale, quando emerge, è chiaramente un racconto vago e privo di ricordi concreti, che mira ad evidenziare l’aderenza al diffuso discorso di accusa verso l’alterità statale. In altri casi serve poi da sostegno per argomentare rivendicazioni come quelle, oggi molto dibattute, legate all’esposizione all’amianto, facendo così rimarcare quella capacità della memoria di rispondere a esigenze dell’attualità (cfr. Halbwachs, 1997). L’analisi del discorso sull’industrializzazione a Ottana non può essere quindi svincolata dall’osservazione della precedente situazione locale, aspetto quasi sempre trascurato anche dal mondo accademico che, nell’analizzare il paese, lo inserisce in un astratto e omogeneo contesto del centro Sardegna.
Il carnevale come strumento per esorcizzare il passato industriale
La narrazione sulla “ciclicità” storica locale della quale abbiamo parlato sopra (alternanza gloria-crisi) si inserisce in quella che Jan Assman definirebbe “memoria comunicativa” (cfr. Assman, 1997), ossia la memoria che si sviluppa nel contesto “intimo” della comunità e che è scarsamente formalizzata. L’altra memoria che si esprime dal lavoro, invece, seguendo sempre la distinzione di Assman, è la “memoria culturale”, quella istituzionalizzata e patrimonializzata (cfr. Palumbo, 2003). Quest’ultima a Ottana si manifesta attraverso la narrazione del Carnevale locale dei “boes e merdules”, attualmente oggetto di una vivace diffusione transnazionale che l’ha fatto diventare, all’interno della comunità, una bandiera identitaria da esternare e manifestare fuori dal paese. Il suo successo e riconoscimento economico, osservabile da una diffusa vendita delle sue maschere e dalla partecipazione, attraverso sfilate, dei gruppi locali in diverse manifestazioni in tutta Europa, ha ovviamente legittimato e facilitato questo tipo di discorso identitario locale, dimostrando come «le identità dei luoghi, degli individui, dei gruppi si costruiscono, si negoziano, si esibiscono attraverso pratiche economiche» (Siniscalchi, 2002: 30).
Ma l’aspetto più interessante ai fini del nostro discorso risulta il fatto che la narrazione sul Carnevale si manifesti spesso per opporsi a un’identità altra, ossia a quella dell’industria. La celebrazione continua del Carnevale come simbolo identitario è sembrata, difatti, diretta a esorcizzare il passato industriale, visto nell’attualità come “vergogna” del paese. Quella messa in atto dai miei interlocutori si è espressa quindi come una manifestazione di potere (cfr. Herzfeld, 1991, 2003), che mira all’“eliminazione” del discorso industriale per sostituirlo con quello istituzionalmente, politicamente ed economicamente “più valido” del Carnevale.
Dalla ricerca si sono imposte perciò due retoriche identitarie ben distinte, che si adattano a contesti espositivi e relazionali diversi. Da una parte, vi è quella che potremmo definire la retorica dell’identità “locale”, quella che gestisce gli elementi dell’intima storia comunitaria, e che “assorbe” gli eventi (come quello industriale) modificandoli e rimodellandoli per farli entrare dentro il (ciclico) “sistema storia” della comunità. Mentre l’altra è la retorica dell’identità “globale”, quella che si esprime con elementi (come il Carnevale) riconosciuti “validi” dentro le attuali dinamiche socio-economiche dell’“economia-mondo” (cfr. Wallerstein, 1979; Braudel, 1982). Quest’ultima, fortemente condizionata da quelli che Palumbo ha definito i Global Taxonomic System [3] (cfr. 2011), ha come obiettivo quello di dare un’immagine nuova del paese, di far risultare marginale e ormai passato l’evento industriale. La “tradizione” e la nuova “identità locale” svolgono insomma il ruolo di strumento e possibilità per “liberarsi” del fallimentare passato industriale con cui viene identificato il paese dall’esterno. Fa in modo che, il discorso su Ottana, non venga più esclusivamente associato all’industria, ma che il Carnevale appaia come la “vera” immagine del paese agli occhi di coloro che lo osservano da fuori.
Probabilmente anche per queste ragioni a Ottana si è assistito, soprattutto nell’ultimo decennio, a uno sviluppo insistente delle pratiche di patrimonializzazione (cfr. Palumbo, 2003), portate avanti dalle istituzioni locali in collaborazione con altri enti, tra i quali anche l’Università. Questo processo è stato agevolato dall’utilizzo dell’immagine che, pur riproducendo solo un momento e un aspetto della realtà, è capace di dare definibilità alla tradizione locale e di ergersi a simbolo, strumento e “luogo” di dibattito identitario. Alla narrazione del passato ho potuto quindi accedere anche attraverso alcuni “oggetti culturali”, come i documenti fotografici del passato e le maschere del Carnevale. Questi oggetti, e in particolar modo la fotografia, si sono rivelati essere la porta d’ingresso per la comprensione delle dinamiche celebrative della “memoria culturale” (cfr. Assman, 1997). Essi, infatti, “certificano” il passato, in quanto al loro interno vengono individuate le tracce “genetiche” della comunità: quelle carnevalesche, appunto, capaci di “scacciare” l’immagine industriale e di testimoniare l’“inconfutabilità” della tradizione e dell’identità locale. La “necessità” identitaria, o volendo utilizzare le parole di Remotti, l’ossessione identitaria (cfr. 2010), trova quindi nel Carnevale uno degli strumenti più adeguati per la sua realizzazione, e nella fotografia lo strumento ideale su cui appoggiare il discorso identitario.
Riflessioni conclusive. La memoria e lo Stato
Analizzare le “poetiche sociali” (Herzfeld, 1997) manifestatesi in riferimento allo Stato ha significato non solo osservare l’inserimento del suo operato nella storia locale di Ottana, ma anche entrare dentro le pratiche di definizione identitaria. L’“arrivo”, come è stato spesso definito dagli interlocutori della mia ricerca, dell’industria petrolchimica in un paese che fino a quel momento era caratterizzato da una misera e isolata economia agro-pastorale, rappresenta un “arrivo” non solo di strutture produttive che non si erano mai viste prima, ma anche la venuta dello stesso Stato. L’opera semi-pubblica di industrializzazione, che si è prolungata fino agli anni Novanta con diversi interventi, ha poi successivamente portato la presenza “esterna” a essere percepita come qualcosa di normale all’interno della comunità; ragion per cui, per quanto spesso condannato retoricamente, lo Stato è ancora oggi atteso, perché capace di prospettare possibilità di lavoro e di far “rimanere in paese”, di non emigrare come hanno dovuto fare i nonni o i genitori prima degli anni Settanta.
Le accuse si incrociano quindi con le speranze, evidenziando una situazione di “dipendenza” (morale ed economica) che è stata sicuramente accentuata dal perpetuarsi, per diversi decenni, di forme di assistenzialismo economico. L’instabilità lavorativa ha portato tante famiglie di ex operai ad abituarsi a ricevere sovvenzioni statali sotto diverse forme: cassa integrazione, indennità di mobilità e altri strumenti di sostegno economico pubblico, che hanno fatto da “tappabuchi” ai fallimentari interventi economici dell’industrializzazione e sono diventati la normalità per molti nuclei familiari, conducendo la popolazione locale ad un’inattività lavorativa di enormi proporzioni. Molti sono gli abitanti che non hanno cercato altre vie di impiego in seguito al disfacimento del polo industriale, ma che piuttosto hanno accompagnato l’aiuto economico della disoccupazione ad attività secondarie, e numerosi sono i lavoratori che addirittura sono andati in pensione dopo decenni di cassa integrazione. Emerge quindi, dall’analisi di tali dinamiche, che tutto ciò che viene “da fuori” è sì una minaccia di alterazione, e come tale un pericolo per l’integrità locale, ma al contempo è un sostegno del quale “non si può” più fare a meno. Lo Stato, che “arriva” per stravolgere la situazione locale, è diventato insomma il nemico da affrontare, l’opposizione indispensabile per un discorso identitario, ma allo stesso tempo il supporto socio-economico di cui si ha bisogno.
Che il discorso identitario presuma l’esistenza dell’altro è cosa nota agli antropologi (cfr. Remotti, 2010: 9). Nel caso di Ottana, il fatto di identificare nello Stato un antagonista o comunque il principale responsabile di questa critica situazione attuale, permette il contatto con l’alterità e la possibilità di costruire e definire meglio gli elementi dell’identità locale. I risvolti negativi dell’operato statale contribuiscono al perpetuarsi del discorso sul “male incurabile” del paese, la cui altalenante storia si ripete “da sempre”, facendo di Ottana un luogo “destinato” alla crisi. Lo studio etnografico ha fatto perciò comprendere come gli attori sociali non sono mai ricettori passivi o vittime dello Stato, ma sono attori principali e importanti costruttori di realtà storiche. A Ottana lo Stato ha difatti una forma (l’industria), e si presenta come un insieme di processi (cfr. Trouillot, 2001) più che come ente calato dall’alto. Questo farà risultare come l’idea dell’impersonalità dello Stato (riprodotta soprattutto nei discorsi politici regionali degli anni Settanta, ma portata avanti ancora oggi da registi, scrittori, studiosi, giornalisti e politici), ossia di ente monolitico dominatore, autonomo e staccato dalla società, sia un punto di osservazione ormai obsoleto (cfr. Gupta, 1995) e superficiale.
Si è notato, piuttosto, come sia costantemente in atto un chiaro mutamento nel valore e nel potere simbolico dell’operato statale. Le dinamiche identitarie che esprimono la contrapposizione noi (ottanesi) e loro (lo Stato), se da una parte sembrano “essenzializzare” (Herzfeld, 1997: 44), ossia racchiudere, tutta l’esistenza degli abitanti della comunità, dall’altra manifestano un chiaro “polimorfismo istituzionale” (Palumbo 2006: 50). Dal discorso identitario è emersa difatti l’influenza di «alcune forme di classificazione di portata transnazionale» (Palumbo, 2011: 37), i GTS, dimostrando come lo Stato si trovi a “competere”, come nel caso del discorso sul Carnevale, a livello simbolico con altri enti e organismi, tra i quali l’UNESCO. Aspetto, questo, che ci pone davanti all’importanza di ampliare lo sguardo verso gli eterogenei processi e «spazi di articolazione, disarticolazione e riarticolazione politica» (Ibid.: 47) che il discorso identitario riesce a creare.
Analizzare lo Stato in una prospettiva antropologica ha dimostrato in definitiva che, così come non esiste una storia separata dal modo in cui lo storico, il politico o l’intellettuale la interpretano, non esiste una storia fuori dall’interpretazione degli attori sociali. Ossia che non vi può essere «una storia e tanto meno la storia: vi è invece una molteplicità di costruzioni del passato in dipendenza dai ‘noi’ che si costituiscono nel presente e che intendono occupare un proprio futuro» (Remotti, 1999: XI). Affrontare uno studio storico-etnografico nel paese protagonista dell’industrializzazione del centro Sardegna, ha evidenziato come troppo spesso il racconto politico e intellettuale su Ottana non abbia considerato il contesto spazio-temporale. A maggior ragione ho voluto, quindi, non offrire una generale visione della “questione industriale” e dell’incontro fra società “tradizionale”, Stato e modernità, ma piuttosto ho cercato quanto più possibile di restituire, con tutte le limitazioni del resoconto etnografico, l’interpretazione dei suoi protagonisti, così da “soddisfare” la sfida e il bisogno di Sahlins di «evitare la solita riduzione dell’incontro culturale a fenomeno fisico o a principio teologico» (Sahlins, 1992: 201); sfida, comunque, che se ho potuto accogliere è grazie alla straordinaria potenzialità dell’etnografia di volgere lo sguardo verso il particolare.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] La CasMez, ente pubblico nato nel 1950 e soppresso nel 1984, aveva il compito di finanziare attività economiche dirette a colmare il divario socio-economico tra Meridione e Settentrione
[2] Il presente articolo è un riassunto del mio lavoro di ricerca già pubblicato nel 2021 con Donzelli Editore: Zedda, A. F. (2021): ‘E poi arrivò l’industria’. Memoria e narrazione di un adattamento industriale, Roma, Donzelli Editore. Prefazione di Alessandro Portelli.
[3] Per Gts, Palumbo intende quei «sistemi tassonomici istituzionalizzati attraverso i quali agenzie transnazionali danno forma a, e organizzano un, immaginario di portata globale, agendo, così, come strumenti di una governance planetaria capaci di plasmare attitudini, emozioni e valori di milioni di persone» (Palumbo 2011: 38).
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Andrea Francesco Zedda, antropologo e dottore di ricerca in scienze del testo alla “Sapienza” Università di Roma, dove si è specializzato in discipline etno-antropologiche (2014). I suoi ambiti di studio riguardano l’analisi delle dinamiche dei processi di costruzione identitaria e la ricerca etnografica in contesti violenti, aspetti sui quali ha lavorato in Spagna, in una zona periferica di Granada. Attualmente porta avanti uno studio sulle dinamiche identitarie legate al cibo, in particolar modo al mondo dell’olio d’oliva.
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