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Kant ed Hegel: due opposte concezioni della guerra
Posted By Comitato di Redazione On 10 gennaio 2025 @ 02:51 In Cultura,Letture | No Comments
di Augusto Cavadi
In uno scritto precedente [1] ho avuto modo di richiamare le linee essenziali della filosofia della guerra e della pace secondo Erasmo da Rotterdam. Nell’umanista rinascimentale si trovano delle straordinarie anticipazioni del pacifismo, se non addirittura della nonviolenza, dei secoli successivi.
Kant e la guerra
Tra gli autori che su più di un punto hanno ripreso – forse senza saperlo, certamente senza dichiararlo – il pensiero di Erasmo rientra Kant, ma con una differenza di fondo (qualcuno direbbe, alla Kuhn, di “paradigma”): il filosofo prussiano traghetta da una prospettiva ancora per molti versi medievale (la pace va perseguita soprattutto per fedeltà al vangelo e grazie alla mediazione di autorità soprattutto cattoliche, in primis del papa) a una visione moderna (in cui la pace va attuata per motivi razionali/utilitaristici e grazie a un’istituzione cosmopolitica interamente “laica”). Ma vediamo più analiticamente.
Come avviene (esplicitamente o implicitamente) in tutte le teorie politiche, alla base di ciascuna di esse vi è una certa interpretazione dell’essere umano. Nel caso di Kant, l’uomo non è del tutto malvagio, ma neppure pura razionalità senza passioni anche egoistiche: la sua condizione è piuttosto di “socievole insocievolezza” [2], oscilla fra desiderio di isolamento e necessità di convivenza. Tale condizione lo espone se non alla guerra continua, al rischio della stessa che è – erasmianamente – la sintesi di tutte le calamità che l’uomo possa procurare a sé stesso. E che dunque, almeno come ideale da perseguire, va cancellata dalla storia.
Verso una “costituzione civile”
Poiché «lo stato di pace tra uomini assieme conviventi non è affatto uno stato di natura», «dev’essere istituito» [3]. Come fare? In un certo senso, e sino a un certo punto, come siamo riusciti a sradicare – o almeno rendere improbabili – le guerre civili far cittadini all’interno dello stesso Stato: con un patto costituzionale che ci ha traghettati dallo status naturalis («uno stato di guerra, nel senso che, se anche non vi sono sempre ostilità dichiarate, è però continua la minaccia che esse abbiano a prodursi» [4]) a «far parte di una qualche costituzione civile» [5]. Tale costituzione dovrebbe basarsi su 3 articoli.
In base al primo, «la costituzione civile di ogni Stato dev’essere repubblicana» [6] . Poiché scrive in Prussia, monarchia autocratica, ma è un entusiasta ammiratore della Rivoluzione francese ancora in corso, Kant deve giocare su un filo da equilibrista: da una parte, «ogni vera repubblica, ora, non è e non può non essere altro che un sistema rappresentativo del popolo, avente lo scopo di proteggere in nome del popolo (…) i diritti dei cittadini stessi» [7]; dall’altra, «è provvisoriamente (giacché essa non si realizza in modo tanto celere) dovere dei monarchi, sebbene comandino autocraticamente, governare tuttavia repubblicanamente» [8]. I 3 principi su cui si fonda la costituzione repubblicana solo il «principio della libertà» [9]; il «principio della dipendenza di tutti da un’unica comune legislazione (come sudditi)» [10]; la «legge dell’uguaglianza di tutti (come cittadini)»[11].
Il secondo articolo dovrebbe recitare: «Il diritto internazionale deve fondarsi sopra una federazione di liberi Stati» [12]. Kant esclude esplicitamente la formazione di un unico Stato mondiale, «uno Stato di popoli» [13], perché prematuro rispetto alla coscienza media attuale, ma auspica almeno «una federazione di popoli» [14]:
Il terzo articolo recita: «Il diritto cosmopolitico dev’essere limitato alle condizioni di una universale ospitalità» [16]. «Non si tratta di filantropia – precisa Kant – ma di diritto, e quindi ospitalità significa il diritto di uno straniero che arriva sul territorio di un altro Stato di non essere da questo trattato ostilmente» [17].
Il filosofo non tematizza la questione dal punto di vista odierno dei flussi migratori, ma l’affronta – autocriticamente – dal punto di vista del colonialismo europeo che abusa del «diritto di visita, spettante a tutti gli uomini» [18]:
Kant, che parla sempre da filosofo, non dimentica di essere personalmente un cristiano e, dunque, non può fare a meno di notare:
Da quando è stata pubblicata la proposta kantiana è stata accusata di ingenuità. La sua è stata però, a mio avviso, una “utopia critica” perché tiene in conto difficoltà, riserve e limitazioni di vario genere. Innanzi tutto egli distingue (non sempre con nettezza) la guerra da altri generi di conflitti (come la competizione industriale e commerciale) e, in sintonia con Adam Smith, sostiene che questi ultimi (sia tra individui che fra popoli) sono sempre benefici ai fini del progresso dell’umanità. Inoltre egli riconosce che persino le guerre in senso bellico, militare, hanno avuto degli effetti positivi: se non altro perché hanno evidenziato la necessità di andare oltre la fase storica millenaria sinora attraversata.
Tuttavia , nel chiudere il bilancio dei vantaggi e svantaggi della guerra, Kant cita un detto antico (sulla cui sostanza si era soffermato anche Erasmo da Rotterdam): «La guerra è un male, perché fa più malvagi di quanti ne toglie di mezzo» [21]. Commenta Enrico Peyretti:
Infine, e direi soprattutto, Kant non può essere tacciato di ottimismo ingenuo perché afferma e ribadisce che la confederazione di Stati in grado di assicurare la pace perpetua non sia dietro l’angolo della storia: è un’utopia, ma va tenuta presente come un ideale verso cui tendere gradualmente passo dopo passo.
Se, insomma, eliminare la guerra dalla storia per Kant è possibile (sia pur nei tempi lunghi) e auspicabile, per Hegel – suo più giovane contemporaneo – tale eliminazione non è né possibile né auspicabile.
La guerra è inevitabile
Non è possibile eliminare i conflitti bellici dalla storia perché il celebre frammento di Eraclito, «Guerra è la madre di tutte le cose», esprime, a suo giudizio, non solo un dato di fatto, ma anche un principio di diritto.
Per capire questa tesi bisogna inserirla nel sistema complessivo del filosofo tedesco per il quale «il vero è l’intiero» [23], non il dettaglio particolare. Kant parlava ancora dal punto di vista di noi esseri umani, Hegel ritiene di essere il portavoce della Totalità (che chiama anche Dio o Spirito o Assoluto o Ragione o Idea). Poiché l’Assoluto è intrinsecamente “dialettico” non rientra nelle modeste possibilità antropologiche cancellare «la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo» [24].
La storia del nostro pianeta è la storia della graduale auto-realizzazione (e conseguente auto-manifestazione) di questo Spirito assoluto che si affaccia con le prime forme di vita biologica, poi diventa soggettività psicologica, poi coscienza collettiva: è solo a questo stadio – quando l’io diventa noi – che si può iniziare a parlare propriamente di Spirito.
Prima di splendere in tutto il suo fulgore nell’arte, nelle mitologie religiose e nelle costruzioni filosofiche, lo Spirito si rende visibile e tangibile nelle istituzioni storiche principali: la famiglia, la società civile, lo Stato. Lo Stato appare cronologicamente dopo le famiglie e le società, ma è il fondamento che, per così dire retroattivamente, dà senso a tali aggregati ed evita che la guerra di tutti contro tutti tra gli individui (all’interno della famiglia) e tra le famiglie (all’interno della società) distrugga l’umanità. Lo Stato è dunque l’istanza suprema (Stato “etico”) che Hegel non esita a definire «l’ingresso di Dio nel mondo» (la piena incarnazione del divino).
Tutto scorrerebbe liscio se l’umanità fosse radunata e animata da un unico Stato. Di fatto però ce ne sono molti e ognuno rivendica – legittimamente – la prerogativa di essere un principio assoluto. Lo “Spirito del mondo” si incarna in ogni Stato, ma come stabilire in ogni epoca quale sia lo Stato prescelto come guida mondiale? Al di sopra degli Stati (ciascuno dei quali sovrano) non c’è altro “tribunale del mondo” che “la storia del mondo”, la quale si serve della “guerra” per esprimere le proprie sentenze: chi vince apprende, e fa apprendere, di avere la Ragione in sé [25].
L’eliminazione della guerra dalla storia non solo non è possibile, ma – anche se lo fosse – non sarebbe auspicabile. Infatti l’Assoluto (“Dio in divenire”) è principio di vita, di progresso, non solo nella natura ma anche, e ancor di più, nella sua manifestazione storica. Quindi la descrizione fenomenologica (su come va il mondo) non suscita in Hegel nessun rifiuto: ciò che è “reale” per lui è “razionale”, cioè logico, vero, pregno di significato, da accettare stoicamente. La guerra viene considerata da lui – a differenza di Kant che ne vedeva anche gli aspetti deleteri – un fenomeno solo positivo: «Come il movimento dei venti preserva il mare dalla putrefazione, nella quale lo ridurrebbe una quiete durevole, come vi ridurrebbe i popoli una pace durevole, o, anzi, perpetua» [26].
Inoltra egli pensa a due effetti, per così dire collaterali della guerra, all’interno di uno Stato: rafforza l’unità interna fra i cittadini e scoraggia le rivoluzioni. Su questo tema mi pare che un principio fondamentale di ogni visione dialettica (il Bene, alla fine, vince) mostri tutta l’ ambiguità del suo ottimismo: infatti la convinzione che l’ultima parola della storia sarà conclusivamente redentrice è difficilmente separabile dalla convinzione che, sinora, gli eventi (se non altro in quanto gradini verso l’esito finale) sono andati nel migliore dei modi possibili.
Secondo alcuni lettori di Hegel, egli – al di là dei toni apparentemente trionfalistici – è, almeno parzialmente, consapevole dello scacco che la guerra (e in generale il male nella storia) infligge al suo sistema filosofico: da cattedrale del pan-logismo diventa tempio del pan-tragismo; da che doveva essere una “teodicea”, cioè la giustificazione razionale di Dio «attraverso il mondo dell’esperienza e della storia», si trasforma nella «contemplazione della tragedia senza uscita della storia» [27]. Secondo altri, invece, egli ha accettato questa sfida allargando «la ragione per renderla capace di comprendere questa vita», in cui l’irrazionale c’è senza scampo, ma «porta in sé il germe della propria opposizione e del proprio superamento» [28].
Uno spietato giustificazionista?
Questa interpretazione della guerra sembra una perfetta giustificazione dei vincitori nella storia dell’umanità. La sua prospettiva è dunque spietata, incurante dei mali materiali e morali provocati dai conflitti bellici? Ritengo difficile rispondere negativamente. Per almeno due motivi.
Il primo è che per Hegel importano solo la storia dello “Spirito del mondo” e la sua marcia trionfale verso la “libertà”, rispetto alle quali le vicende individuali, particolari, sono accidenti trascurabili. Un secondo motivo è che egli contesta la pretesa degli Illuministi e di Kant di contribuire con la filosofia a dirigere il corso della storia per migliorarlo: come ha notato un illustre studioso italiano, inizialmente entusiasta di Hegel, questi ha assegnato alla storiografia un «compito retrospettivo» che «la fa rassomigliare al lavoro autobiografico» e non, invece, «per gettare un ponte tra il passato e il futuro, per preparare le riserve spirituali da bruciare nell’azione che si prepara» [29].
Nel criticare Hegel, è onesto concedergli delle attenuanti e non cascare nella trappola degli anacronismi? Senza dubbio. Ad esempio è giusto ricordare che un suo studente, nei Lineamenti di filosofia del diritto, ha riportato due annotazioni di Hegel:
E inoltre:
Tuttavia queste osservazioni non sono tali da ‘assolvere’ Hegel. Mi pare che egli abbia sottovalutato il fatto che le guerre, anche nella sua epoca, comportassero disastri per la popolazione civile inerme, non solo per i soldati in battaglia. Inoltre possiamo chiederci: conserverebbe le stesse idee se avesse conosciuto la radicalizzazione dei conflitti bellici – divenuti “guerre totali” – nella Prima e nella Seconda Guerra mondiale del Novecento? Temo di sì. Mi pare che proprio a proposito del sistema hegeliano Chesterton abbia scritto una volta che esiste un genere di follia consistente nel perdere tutto, tranne la ragione. Quando la filosofia si esenta dalla verifica continua dei dati empirici – soprattutto dalla carne e dal sangue dei viventi senzienti – ma, una volta fissatasi su qualche Idea (sia pur suggerita dall’esperienza), si limita a deduzioni puramente logiche, rischia di configurarsi in maniera deleteria.
Al di là di queste considerazioni critiche, direi che la prospettiva bellicistica di Hegel presta il fianco all’accusa radicale (gravissima per un filosofo) di essere logicamente incoerente. Infatti: Hegel, che ha contestato la méta di una pace perpetua, non l’ha forse – inconsapevolmente – condivisa? Per lui, infatti, non c’è storia senza guerra; ma – poiché la storia ha un fine che coincide con la fine – ci sarà guerra senza storia? O la fine della storia coinciderà con l’avvento della (tanto vituperata) pace perpetua? Come si chiede Bobbio: se «la fine della storia consiste nel sapere assoluto, cioè nella presa di possesso da parte dell’uomo della teoreticità totale»[32], ci sarà ancora spazio per nuove opposizioni e nuovi oltrepassamenti? «L’uomo teoretico totale» [33] avrà ancora nemici con cui confliggere?
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