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La poesia “ambulante” di Giacomo Giardina: uno sguardo “dentro” i paesi
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2024 @ 02:51 In Cultura,Letture | No Comments
CIP
di Nicola Grato
Trent’anni fa moriva a Bagheria Giacomo Giardina (1901-1994), poeta da molti dimenticato del quale Giovanni Franco ha scritto: «Lo ricordo con la sua borsa di pelle logora, piena di appunti e di fogli scritti a penna, di ritagli di giornale. Con poesie sempre pronte da recitare, con l’immancabile sigaretta in bocca. Per lui infatti ogni momento era buono per attirare l’attenzione. Insofferente verso chi non lo ascoltava con attenzione. Visse negli ultimi anni, ultranovantenne, in una “casa-garage” a Bagheria. L’ingresso era una saracinesca. Nell’unica stanza al primo piano conservava stipati in alcune scatole: manoscritti, disegni, ritagli e appunti. Fu una piccola pensione di bracciante agricolo che forse gli impedì di ricevere il vitalizio della legge Bacchelli, sussidio statale riservato agli artisti indigenti. A 15-16 anni, scappato da scuola, Giacomo si rifugiò in quelle alture sopra Godrano e visse lì per un anno a ridosso della maestosa Rocca Busambra, in pagliai e fienili. Fece, a contatto della natura, il pecoraio» [1].
Giacomo Giardina fu uomo di molti mestieri: pastore nei boschi di Ficuzza e Godrano, venditore ambulante di biancheria per i paesi, tipografo a Bagheria, città dove conobbe il poeta futurista Castrenze Civello e Renato Guttuso, al quale fu legato da sincera amicizia. Altri due incontri segnarono profondamente la vita di Giardina: prima quello con Francesco Carbone, artista e intellettuale godranese, poi con Nicolò D’Alessandro. Giardina fu anche attore per Francesco Rosi in Cristo si è fermato a Eboli (1979) e Dimenticare Palermo (1989); sulla sua vita Nuccio Vara ha realizzato nel 1983 un docufilm dal titolo Bosco per verso [2].
Dopo il primo libro “futurista” Quand’ero pecoraio [3], Giardina scrisse Dante ambulante al mio paese [4], con la copertina di Guttuso e i disegni o gli schizzi di Bruno Caruso, Giovanni Castiglia, Antonio Marasco, Carlo Levi, Giacomo Porzano, Nicolò D’Alessandro e dello stesso Guttuso: questo libro si deve al sodalizio che Giacomo strinse con Francesco Carbone e con D’Alessandro e raccoglie alcune delle poesie scritte da Giardina dal 1929 al 1982. Proprio a Carbone si deve, a nostro avviso, la definizione più precisa della poesia di Giacomo Giardina:
Coglie nel segno il grande intellettuale godranese, al quale va dato merito di aver riattivato la scrittura di Giacomo dopo una lunghissima afasia. La poesia di Giacomo Giardina è anche “plastica”, i versi sono densi e materici; come ha scritto Aldo Gerbino «Se, spesso, mi piace ricordare che la poesia dà consistenza alle ombre, per Giacomo, forse, sarebbe più opportuno sottolineare che essa conferiva spessore alla luce mediterranea, al bianco chiarore del latte, alla tumescenza degli ardori, alla fluidità dello sperma vitale» [6].
Se la prima scrittura di Giardina è molto probabilmente influenzata dai suoi sodali bagheresi più colti (Civello, Cuffaro, Speciale e Pellitteri), la forma di Dante ambulante è vicina alla neoavanguardia palermitana degli anni Settanta e Ottanta del Novecento: riconosciamo in queste poesie una maturità compiuta e ancora per fortuna quella filigrana di ispirazione “cosmica” degli esordi. La poesia di Giacomo Giardina è, infine, quasi puramente orale: letta, perde tanta della sua carica, come scrive Francesco Carbone, “di sobillazione”.
Il poemetto proemiale del libro dà il titolo all’intera raccolta. Qui Giacomo parla fraternamente al lettore, lo coinvolge nei suoi versi, e questa è una caratteristica fondamentale della sua scrittura:
Scrive di sé Giacomo Giardina:
In queste parole cogliamo altro rispetto all’ambizione di far parte di una società letteraria, di una conventicola; cogliamo semmai la spinta etica che informa e corrobora l’intera produzione letteraria di Giacomo Giardina ovvero la scrittura come operazione di verità, una scrittura profondamente affine alla natura di Giacomo che, come ebbe a scrivere Natale Tedesco, era “di matrice naturalistica” [8].
Uomo di boschi e silenzi, uomo di mirabilie verbali, ardimentosi accostamenti tra le parole, narrazione per immagini che si innestano nella memoria per far scaturire nuovi racconti. Ecco che la “gobba quotidiana” del sacco pieno di nastrini, spagnolette, corsetti, la “serenata al carnefice” del ricco commerciante, la condizione dell’uomo definita “nuvola nera / terra terra”. Condensazioni come di cumulonembi, morule di parole e di storie i versi di Giacomo Giardina hanno come riferimento unico proprio “il selvaggio dolore di essere uomini”:
Giacomo cerca libertà a ogni passo, in ogni luogo che visita; una libertà programmaticamente avulsa dalla ricerca spasmodica del denaro paese per paese; la libertà di osservare il paesaggio, di ascoltare il canto degli uccelli o di comporre una poesia di occasione per lo sposalizio di Carmelina, una poesia che parlasse di mastro Bartolo, che ne fissasse dinamicamente la vita nel canto. Quanti nomi troviamo nelle poesie di Giardina, quante persone che condividono con il Nostro il giorno e la fatica di vivere. Quante donne alle persiane semichiuse, quanti bambini che si prendevano gioco del poeta ambulante facendogli la baia al suo passaggio:
La poesia di Giardina è anche prezioso documento della mutazione del territorio: dove adesso c’è una strada statale passava un tempo il trenino, la vecchia littorina della linea San Carlo-Sant’Erasmo, il trenino dei paesi.
Figure guida del poeta pecoraio risultano l’Alighieri e Leopardi: il primo per il suo errare ramingo, il secondo per il suo sguardo indagatore sulla “natura”. Destino di continuo sradicamento ha il poeta:
In questi versi aggettivi e sostantivi giocano a rincorrersi, a intrecciarsi in un dialogo lirico tra paesaggio e poeta; ma è l’argomento che conta, la storia dei morti di fame che tentano di sbarcare il lunario, che provano a mantenersi in vita. È questo uno “spaccato” di vita contadina che non rimpiangiamo da borghesi, ma che è nostro compito conoscere e ricordare; la memoria del nostro passato è un comando etico oggi ancor più ineludibile, un passato che ci parla quotidianamente nei nostri paesi, nelle nostre città, un passato tutt’altro che inerte bensì in connessione dialettica con il nostro presente. Giacomo Giardina assume su di sé il compito di “raddrizzare il mondo storto” ma non con la spocchia di chi scrive “ex cathedra”, ma come umano tra gli umani che osserva il mondo con attenzione e cura.
È una scrittura che definiremmo “ecologica” quella di Giacomo, una scrittura che ci presenta la natura permeata dalla storia secondo uno schema tipico della letteratura italiana: ambienti, paesaggi e luoghi sono “dentro” la storia, non possono farne a meno. Pensiamo, ad esempio, alla poesia “Fiume rosso a Godrano” [13] nella quale il “poeta-pecoraio” racconta dei giorni di protesta di contadini e allevatori godranesi (1974) che richiedevano terre da pascolo nei fondi di Marosa e Giardinello per i propri animali. Questa dimensione “storica” della poesia di Giardina è invero del tutto innovativa rispetto alle poesie di Quand’ero pecoraio, ancora legate a certo “anarchismo” delle forme e fondamentalmente alla vita che Giacomo conduceva per boschi e strade, libero come un uccello e “sorridente” nonostante gli stenti e la fatica fatta per sbarcare il lunario.
Rocca Busambra è “la” figura di tutta la poesia di Giacomo Giardina, la cresta rocciosa che domina le colline boscose di questo angolo di Sicilia, luogo di meraviglia e di orrore (la foiba nella quale fu gettato il corpo di Placido Rizzotto):
Durante il giorno la luce del sole crea un gioco di ombre e luci, una tavolozza di pieni e vuoti sulla roccia maestosa: Rocca Busambra muta aspetto, colore, si fa ora rosea, ora azzurrina, ora gialla. Accoglie il massiccio di pietra la variazione del tempo, del giorno, delle ore.
Rocca Busambra e i pastori, le raccoglitrici di ghiande, i boscaioli che hanno plasmato nei secoli, in armonia con gli agenti atmosferici, il paesaggio. Natura e artificio sono compresenti, la scrittura di Giardina ne dà conto, il suo sguardo è quello di un uccello rapace, che dall’alto comprende l’intera visuale del luogo. Scrive Niccolò Scaffai:
Natura e artificio, modernità e passato si uniscono, si completano; Giacomo crea immagini di “grilli mandolinisti”, “scarabei-automobili”, “ramarri-tranvai”, “lucertole side-cars”, il bosco che somiglia a una città nel poemetto “Bosco-città”: la “fantasia” poetica plasma la realtà ma non ne evade; la fantasia di Giardina è pratica poetica “dentro” i luoghi, dentro i paesi:
Oltre a Godrano, Mezzojuso, Bagheria, Bolognetta, Cefalà Diana, Marineo, Ficuzza, Prizzi; la Vucciria di Palermo ma anche Settimo Torinese, Novo, Bagheria, Roma. “I paesi bambini” li chiama Giacomo, i luoghi che plasmano la fantasia poetica e allenano lo sguardo. Scorrono nella memoria immagini davvero indimenticabili: le popolane che stendono su tavole il sugo di pomodoro per farne estratto; i carrettieri a Bagheria, la banda a Bolognetta e le persone che si affacciano dai balconi per vederla passare. Ancora: venditori di panelle e frutta alla Vucciria, l’improvviso canto di un gallo in mezzo alla folla. Parallelo letterario del quadro di Guttuso è il poemetto “La Vucciria”, un poemetto anch’esso cubista in cui i piani della visione e del tempo sono sovrapposti. L’anima del popolo emerge dal “mare” di persone che affollano la via dell’antico mercato cercando di comprare qualcosa a poco prezzo e un maialetto appena scannato è un “tenero//intero//trasformato in angelo/con un garofano in bocca”. Poesia d’occasione quella che Giardina scrive per i paesi e per le persone; per Annina e per il suo sorriso “di pomodoro maturo” Giardina scrive una poesia di struggente bellezza [17].
Cefalà Diana è il paese povero di braccianti nel quale il poeta ha imparato l’alfabeto dei campi come quello dei boschi sotto Busambra. Giacomo Giardina ci ricorda Esenin che guarda il cielo della sua Russia e scrive questi straordinari versi:
Lo schema delle descrizioni dei paesi che Giardina usa è sempre lo stesso: visione d’insieme dei luoghi, focus poi “puntato” sulle persone; strade e piazze, riunioni di paesani, lavoro e fatica e infine l’obiettivo si restringe sulla soggettiva pura: ora una ragazza, ora tante che chiedevano la merce all’ambulante poeta, un “pinocchio allampanato” a Mezzojuso, la “nidiata secolare di tetti, case, strade, piazze giù giù giù a precipizio” a Marineo.
La poesia di Giacomo Giardina è vocata alla pittura, le immagini sembrano dipingersi nella mente del poeta: lucciole come punti luminosi in un quadro di Van Gogh, spighe alte, sole che non dà scampo a chi vive all’aperto a guardia di un gregge. Fili di giunco che vediamo flettersi al vento, cambi di quinta continui tra lume e scuro: alba, mattina, pomeriggio. Giardina segna con precisione “diaristica” il tempo che passa attraverso le fasi della giornata; come in un carosello scorrono le immagini: monti, campi, casolari, stalle, laghi, boschi, radure. La luce, nella poesia di Giacomo, è cangiante come la grande “quinta” di Rocca Busambra.
C’è nei suoi versi anche una eco ben distinguibile del Pascoli dei Canti di Castelvecchio, una vocazione allo sguardo sulle cose minute e residuali che assumono valenza cosmica, forza archetipica. È poeta del suono Giacomo Giardina, il suono quale forma primigenia di relazione dell’essere umano col cosmo. Rispetto a Pascoli però Giardina vede nella natura un grande “teatro” nel quale va in scena la vita in ogni sua forma; una poesia dunque teatrale recitata dal corpo intero di Giacomo (pensiamo a quanti inviti ebbe il godranese a tenere orazioni poetiche per matrimoni e funerali). Nella poesia “Teatro spontaneo analfabeta” sono contadini e pecorai i protagonisti insieme ad alberi, torrenti e financo venti. Il paesaggio collinare è come la schiena di un dromedario, il tempo circolare s’impone con lentezza. Sulle poesie di Giacomo Giardina il regista Enzo Toto ha condotto un laboratorio teatrale a Godrano (O dolce antico focolare) e io stesso ne ho tratto uno spettacolo (Ritorno ai paesi bambini) con gli alunni della scuola media sempre a Godrano.
Pasolini, parlando nel 1974 [18] della poesia di Ignazio Buttitta, definiva il bagherese “un buon poeta” che riusciva a parlare di un mondo popolare (“la figura retorica del popolo”) completamente inattuale; un poeta, Buttitta, secondo Pasolini che ambiva “all’ufficialità comunista” ma non come un Neruda, ma come un uomo umile e tormentato, in fondo sincero. Giacomo Giardina non ha mai aspirato ad alcuna “benedizione” ufficiale, nonostante la incoronazione da parte di Marinetti, amava però che lo si ascoltasse recitare i suoi versi; ha vissuto poveramente girando per i paesi col suo tascapane e la sua valigia piena di corsetti, reggipetti, saponi da vendere a chi glieli commissionava; un uomo, Giacomo Giardina, che viaggiava sulla littorina della mitica linea San Carlo-Sant’Erasmo che passava dal bosco di Ficuzza in ogni periodo dell’anno, col caldo feroce e col freddo intenso.
Non voglio qui discutere più di tanto sulla presunta appartenenza della poesia di Giardina al movimento futurista, Francesco Carbone, oltre al già citato Natale Tedesco [19] hanno avanzato legittimi dubbi al riguardo, mentre Anna Maria Ruta ne ha notato sfumature apparentabili al futurismo marinettiano per ciò che riguarda l’audacia dell’immaginazione «che analogicamente immensifica con la sua spumeggiante fantasia rapporti distanti fra loro» [20]; voglio però, grazie alle parole di Giardina, riflettere su quanto la poesia rifugga per sua stessa natura l’esattezza “economica” del vivere, la geometria del profitto, l’ora spaccata, il tempo breve; la poesia è tempo lungo, fondamento, materia magmatica. I versi di Giacomo guardano “dentro” il paesaggio, non sono mai pure descrizioni di luoghi ma colgono lo spirito profondo di un territorio. Se si è cantori di un luogo si è cantori del Mondo: non raccontiamo di noi quando narriamo di un luogo, ma raccontiamo della storia dei tanti che ci hanno in quei luoghi preceduti in una ideale “comunione” dei vivi coi morti.
I versi di Giacomo non idealizzano mai la cultura agro silvo pastorale, ne rivelano invece crudeltà, miseria ma anche splendore: ne rivelano la profonda “umanità”, ovvero la connessione tra gli esseri umani, le pietre, gli animali, i boschi. Giacomo sceglie quella che, con Adriano Favole, potremmo definire una via “selvatica”, ovvero una vita (e una poesia) che si apre allo spazio dell’incolto, allo spazio della possibilità e della vita. Come scrive Favole, «L’incolto è uno spazio ad alta densità di vita» [21], e in questi spazi aperti, così come in ogni luogo vissuto nella sua vita errabonda, Giacomo Giardina ha sempre tenuto fede non alla poesia come entità astratta, ma come racconto di persone vive e paesi vivi. Ancora Favole: «Le culture che abitiamo sono circondate, assediate, attraversate dall’incolto, cioè da vite, forze, presenze non umane. Per dirla in un altro modo, la nozione stessa di “umano” include in una certa misura il selvatico. Viviamo anche e soprattutto di interazioni con i non umani come l’ossigeno, i virus e i batteri che letteralmente convivono con noi» [22].
Nella produzione poetica di Giardina come nelle prose i boschi, le radure, il sole cocente e la notte ghiacciata; le strade polverose, i luoghi che hanno nome e i luoghi che intuiamo da un accenno o da un’ombra, tutti sono spazi della vita enorme, del quadro che il poeta dipinge con le parole, del teatro che monta sulla piazza o davanti a una casa, il teatro delle parole. E oggi cosa ci dice Giacomo Giardina? Ci parla? È stato un “fenomeno da baraccone” come tanti ne ho visti in questi nostri paesi? La sua poesia “serve” a qualcosa o non è piuttosto un invito all’abbandono del tempo del profitto a vantaggio di un tempo della convivialità? Sono questi spunti per una riflessione non tanto sul perduto che c’è in ogni luogo, ma sul presente (il buio del presente) dei paesi di questo nostro Paese.
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