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La processione sull’oceano. Il Venerdì Santo nel tempo della pandemia
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2021 @ 01:11 In Cultura,Società | No Comments
il centro in periferia
di Giovanni Gugg
Di fronte all’ignoto, i riti rappresentano un modo di organizzare il caos, quindi sono una maniera per mostrare cosa fare; sono una strategia per allontanare la paura, uno strumento per dare senso ad un’inquietudine profonda, per spiegare quel che è sconosciuto, per rassicurarci di fronte a quel che sembra sovrastarci o, addirittura, per proporci una visione e un senso della vita.
L’attenzione data ai riti durante la crisi pandemica in cui ancora ci troviamo è dovuta innanzitutto all’inquietudine sanitaria ed economica che si sono fatte sempre più pervasive, per cui, se tante persone sentono l’esigenza in certi momenti di ricorrere a una qualche pratica rituale, non è per sopraggiunta ‘superstizione’ o perché quei gesti sono “sopravvivenze archeologiche”, ma, al contrario, perché, nonostante la loro lunga durata plurisecolare, continuano ad avere senso. Determinati riti resistono accanto all’avanzamento della conoscenza scientifica e delle conquiste tecnologiche perché sono attuali, dal momento che attuali sono i sentimenti da cui muovono: paura e speranza, conforto e fiducia.
Nel 2020 – e la situazione si ripresenta ancora nel 2021 – un momento molto importante è stata la coincidenza tra quaresima (cattolica) e quarantena (sanitaria), che ha comportato l’assenza di riti collettivi in presenza, soprattutto durante la Settimana Santa, tra la Domenica delle Palme e la Domenica di Pasqua. L’impossibilità di svolgere cerimonie e processioni ha, da un lato, alleggerito i giorni in cui si celebra la Passione di Cristo dalle sovrastrutture mediatiche, comportando un inevitabile ripensamento di quel che significa rinuncia, penitenza, restrizione, preghiera, carità, mentre dall’altro, con il ritiro domiciliare, la ricerca della distanza e l’utilità della discrezione, hanno favorito un recupero di senso per gli atti devozionali intimi, le offerte votive, i gesti di umiltà. Questo è stato particolarmente evidente – e, va da sé, traumatico – in Penisola Sorrentina, una località in cui, nello spazio di sei comuni, tra il Giovedì e il Venerdì Santo si contano una ventina di processioni diverse dedicate alla Madonna Addolorata e al Cristo Morto, ciascuna con migliaia di partecipanti attivi.
La sera del Venerdì Santo 2020, il 10 aprile, in pieno confinamento nazionale per contenere i contagi da Covid-19, vari devoti sorrentini hanno diffuso dalle finestre delle proprie abitazioni la registrazione del coro del Salmo 50, il “Miserere”, ovvero la melodia, anzi il suono più emblematico dei riti penitenziali locali, con conseguente larga diffusione dei relativi filmati sui social-media. In un caso singolare, inoltre, un confratello di una delle congreghe religiose che organizzano il corteo funebre di Cristo ha girato al buio e in completa solitudine per alcune stradine di Sorrento, indossando la tunica e lo scapolare, e portando il lampione cerimoniale; ripreso con lo smartphone da un balcone, il suo video è stato ampiamente diffuso attraverso la messaggistica istantanea di Whatsapp, generando molta emozione.
Venerdì santo 2020 nella stiva della motonave Gran Senegal, la Madonna Addolorata (ph. Antonino Famiani)
In quei giorni così intensi sul piano religioso, c’è stato però anche un altro rito (quasi) solitario: una processione sorrentina ‘dislocata’, dal momento che è avvenuta nella stiva della motonave “Grande Senegal”, della compagnia Grimaldi Lines, in navigazione sull’Atlantico, tra Casablanca e Lagos, davanti alle coste dell’Africa occidentale. È stata organizzata dal comandante Antonino Famiani e vi ha partecipato il suo intero equipaggio, composto da 26 persone, tutte di fede cattolica, originarie di tre Paesi diversi: Italia, Filippine e Romania. Ciascun marinaio ha avuto un ruolo, compresi due atei che si sono occupati della realizzazione di fotografie e video. Ho potuto dialogare più volte con il comandante Famiani tra l’autunno e il Natale 2020, soprattutto in occasione di due videochiamate piuttosto lunghe, espressamente dedicate alla processione sull’oceano, da cui ho tratto le citazioni inserite in questo testo. Tuttavia, ho parlato spesso anche con sua moglie, la signora Tanya Russo, alla quale mi unisce un’amicizia che risale all’adolescenza.
La processione di Famiani non è stata improvvisata, né dovuta alla pandemia, ma era programmata da mesi:
Dal 2 al 10 febbraio 2020, il comandante Famiani ha fabbricato nella carpenteria della nave una copia a grandezza naturale della statua della Madonna Addolorata sorrentina: attraverso una sorta di puzzle in tanti fogli A4 incollati su una tavola di legno di compensato, ne ha riprodotto l’immagine, poi tenuta in piedi su un fercolo che sarebbe stato portato a spalla da alcuni marinai. Successivamente ha costruito altri oggetti: una tròccola, delle croci da portare in spalla e diverse fiaccole con aste di legno e bottiglie di plastica debitamente tagliate e capovolte. Tuttavia, quando è esplosa la crisi sanitaria in Italia, con il conseguente lockdown ai primi di marzo 2020, Famiani ha avuto dei dubbi sull’opportunità di continuare quel progetto:
Le riserve del comandante, però, si sono sciolte grazie al dialogo con sua moglie, la quale lo ha spronato a proseguire, anche grazie al sostegno del resto della famiglia; infatti il padre della signora, Salvatore Russo, è il priore dell’Arciconfraternita di Santa Monica, organizzatrice della processione “Bianca” (dal colore degli abiti cerimoniali indossati dai partecipanti). Tuttavia, il comandante ha tenuto a marcare un paio di differenze:
Le modalità concrete con cui si manifesta la “festa mesta” della Settimana Santa in Penisola Sorrentina sono tante: dall’allestimento artistico dei “Sepolcri” il Giovedì Santo ad alcune forme di “drammatica popolare”, ossia di rappresentazioni teatrali con figuranti e attori; tuttavia la pratica principale è soprattutto quella delle processioni degli Incappucciati, talvolta antiche diversi secoli, che si svolgono come imponenti cortei funebri il Venerdì Santo – la mattina prima dell’alba e la sera dopo il tramonto – con tutto il loro carico allegorico.
Tali riti possono essere considerati alla stregua di narrazioni, anzi di metanarrazioni, in quanto attraverso la sacra rappresentazione della Passione di Cristo offrono uno spaccato sull’orizzonte culturale della comunità che le mette in scena. Si tratta di istituti festivi che riattualizzano l’evento di fondazione (la morte e resurrezione, ovvero il miracolo per antonomasia), un evento che è al tempo stesso reale e simbolico, presente e passato, è avvenuto una volta e avviene qui e ora; una manifestazione vissuta contemporaneamente da tutti (protagonisti e pubblico) e che oltre ad essere un’espressione di socialità e ad esercitare una funzione aggregante, può venire intesa anche come specchio dell’organizzazione sociale, cioè dell’ordine costituito.
A Sorrento, e in generale nel resto della Penisola, le processioni della Settimana Santa rispettano almeno tre fondamentali codici organizzativi della sfilata:
Si tratta, dunque, di una solenne cerimonia che esalta sia il valore intrinseco del gruppo che sfila, sia il prestigio sociale dei singoli partecipanti al corteo, in quanto conferisce legittimità al loro status, ai loro titoli, ai loro ruoli. Ma le processioni, movendosi sempre all’interno di uno spazio preciso e non ‘sconfinando’ mai, sono anche, da un lato, uno dei modi in cui il gruppo esprime la sua appartenenza ad un determinato territorio e, dall’altro, uno strumento con cui la comunità ribadisce il suo potere proprio su quello spazio.
Snodatosi nel garage della nave, in cui venivano trasportate alcune centinaia di automobili, il corteo organizzato da Famiani ha seguito, nei limiti del possibile, la stessa struttura delle processioni sorrentine: in testa c’era un marinaio con un computer che trasmetteva le marce funebri, proprio come se si trattasse della banda musicale; a seguire c’erano vari colleghi vestiti con le tute bianche e i relativi cappucci, generalmente indossate durante le operazioni di carico e scarico di materiali infiammabili, ciascuno dei quali con un ‘lampione’ o una ‘croce’; infine la statua o, per meglio dire, l’immagine della statua sorrentina riprodotta su una sagoma di compensato portata a spalla da quattro membri dell’equipaggio, accanto ai quali un collega periodicamente scuoteva la tròccola. Il comandante ha ricoperto il ruolo di ‘cerimoniere’, cioè ha assegnato i compiti ai singoli partecipanti e ne ha scandito la distanza gli uni dagli altri, affinché il corteo avesse la forma e la cadenza giuste. Il tutto è terminato al centro di uno spazio più largo in cui la statua è stata poggiata su un tavolino, intorno al quale tutti hanno recitato il “Miserere”: «ho stampato solo cinque strofe, non l’intero salmo, e le ho distribuite a tutti; non abbiamo cantato, ma lo abbiamo comunque recitato a due voci, cioè con coro e risposta, esattamente come a Sorrento», mi ha spiegato Famiani.
Le processioni sorrentine si tengono soprattutto al buio: svariate Arciconfranternite dei comuni peninsulari organizzano da secoli dei cortei ‘lugubri’, i cui membri, indossando un elegante saio bianco (o di altri colori del lutto o del sangue), espongono oggetti simbolici e statue sacre, come quella della Madonna Addolorata, la cui disperazione è discretamente espressa da un fazzoletto bianco tra le dita della mano. Pur nelle loro singole e specifiche caratteristiche, le processioni peninsulari hanno forti toni penitenziali e si snodano nei rispettivi centri abitati delineando una geografia sacra che sembra voler riaffermare i confini, la cultura e la protezione di ciascun paese.
Il senso di appartenenza insito in queste cerimonie è ben espresso dallo storico locale Ciro Ferrigno:
Il primo valore dei riti della Settimana Santa peninsulare è in questo forte sentimento identitario: l’atmosfera creata da quelle imponenti sfilate è un insieme di ricordi e sensazioni, di suoni e sapori, di profumi e senso di comunità. In quanto tradizionali, quei rituali danno l’illusione della permanenza, sebbene riescano costantemente a adattarsi ai tempi e alle esigenze, perché, quando è viva, ogni celebrazione popolare è un forte collettore sociale che permette alla comunità nel suo insieme – e a ciascuno nella sua individualità – di riconoscersi intorno ad una specifica pratica.
Nel tempo sospeso della quarantena e nello spazio evaporato del confinamento, la processione “Cammino di Passione” compiuta da Famiani in quell’altrove indefinito che è l’oceano, è diventata molto più di quel che immaginava il suo stesso organizzatore, perché è andata oltre la rievocazione e si è trasformata in una sacralizzazione del tempo e dello spazio. Assumendo il ruolo di centro simbolico, quella processione ha ridato senso all’esserci nel pieno di una parentesi fatta di indeterminatezza e di incertezza: è diventata il punto e il tempo in cui Cielo e Terra si incontrano ed entrano in comunicazione, la localizzazione di uno spazio che si distingue e di un tempo speciale radicalmente altri rispetto alla quotidianità del profano. Come gli Achilpa analizzati da Ernesto de Martino si sentono sempre al centro grazie al palo kauwa-auwa, o le varie religioni esaminate da Mircea Eliade che stabiliscono il “Centro del Mondo” con una pietra sacra, così da entrare in relazione con vari piani cosmici, allo stesso modo, nel piccolo spazio di una nave sull’oceano, quel rito penitenziale ha assunto il ruolo di segno con cui esprimere una realtà trascendente, perché ha significato qualcosa che va oltre se stesso e oltre gli uomini che l’hanno compiuto.
Il valore del rito è stato immediatamente colto da Salvatore Russo, priore dell’Arciconfraternita e suocero di Famiani, quando ha visto il filmato arrivatogli privatamente sullo smartphone: «Pubblicalo subito su YouTube, dobbiamo mostrarlo a tutto il mondo!»[1], ha riferito al genero che, inizialmente, non era certo di voler dare visibilità ad una pratica che riteneva, invece, molto intima. Il comandante, a questo proposito, ricorda con profonda emozione la prima reazione di sua moglie:
Le processioni del Venerdì Santo sono espressioni di fede, ma sono anche riflessi delle rispettive comunità: dagli assetti sociali alla cultura musicale, a quella figurativa o gastronomica. Se osservate come manifestazioni sociali e culturali, esse si caratterizzano sempre per una scena e per un fluire. Nel primo caso mi riferisco alle migliaia di figuranti che sfilano silenziosamente e in maniera solenne per le strade dei centri urbani, agli oggetti della Passione mostrati alla folla di visitatori, alle decine di fiaccole, croci, stendardi e canti polifonici in latino su salmi biblici. Rinnovandosi anno dopo anno, tutte queste pratiche concorrono ad articolare un’unica celebrazione liturgica e folklorica lunga un’intera settimana, che dimostra notevoli capacità organizzative e un rilevante impegno di famiglie, confraternite, parrocchie, gruppi culturali. In altre parole, ciascun rituale di questo periodo – minuto o spettacolare che sia – partecipa alla scansione di un momento altamente emozionale che stringe a sé l’intero corpo sociale, fungendo così da collettore e da ritratto. Queste liturgie, cioè, assurgono ad una funzione specifica, quella di narrare e drammatizzare dei sentimenti immensi ed esemplari: un dolore e poi una gioia, un lutto e poi una rinascita, ossia la sofferenza della Madre che ha perso il Figlio, ma che alla fine trionfa sulla morte.
Il secondo elemento, il fluire, sta nella modalità stessa del rito: attraverso la pratica del passo le persone si riconoscono perché insieme camminano, ma al tempo stesso vivono un’esperienza individuale in cui si interrogano sui rapporti tra Terra e Cielo, per comprendere la fragile condizione umana e la sua costante spinta verso l’alto. Come il pellegrinaggio, la processione è un viaggio sia reale che interiore, sia individuale che collettivo: un movimento di ascensione al sacro che permette un rinnovamento non solo di sé stessi, ma anche del vincolo devozionale.
Attraverso il movimento dell’andata e del ritorno, di un ritorno alla quotidianità arricchiti da questo intenso esercizio spirituale di rigenerazione, le processioni della Settimana Santa descrivono il momento forte in cui i significati simbolici conferiscono alle azioni un valore di salvezza e di rifondazione. Sono una pratica di rinnovamento che affonda le radici in un passato arcaico. Inglobando perfettamente l’eterno dualismo di morte e rinascita, la drammatica popolare di questi giorni ripropone il racconto biblico della creazione e, con questa, l’inizio mitico dell’umanità. In altri termini, la natura, il raccolto, la vita stessa rinascono ciclicamente e, pertanto, quell’istante va celebrato in maniera adeguata.
Famiani ha permesso che la tradizione non si spezzasse: il suo rito ‘dislocato’, ma condiviso a distanza con la sua comunità attraverso la tecnologia informatica, ha rappresentato una continuità della tradizione, è stato un “rito in emergenza” che, realizzato e fruito in modalità inedite, ha curato la ferita causata dalla pandemia, preservando il sentimento di coesione. Quando il comandante e l’equipaggio hanno riposto i materiali necessari al “Cammino di Passione” in un magazzino sotto la prua, Famiani ha tenuto con sé solo la ‘statua’ della Madonna Addolorata, che è stata nella sua cabina fino allo sbarco successivo: «mi ha protetto finché non sono tornato a casa, ma la sua immaginetta è sempre con me, specie quando entro in un porto e faccio manovra».
Venerdì santo 2020 nella stiva della motonave Gran Senegal, la Madonna Addolorata (ph. Antonino Famiani)
Il comandante Famiani ama la processione del Venerdì Santo fin da bambino e nel corso degli anni vi ha partecipato in vari ruoli, da corista a incappucciato, fino a confratello, ma il suo legame si manifesta in tanti altri piccoli gesti: dall’inserire un riferimento alla processione nel presepe di Natale al collezionare in casa, all’interno di una “bacheca dei martìrii”, vari elementi del rito raccolti nel tempo. Rinunciare alla processione è per lui un vero sacrificio, eppure, dopo il “Cammino di Passione” compiuto nella stiva della sua nave l’anno scorso, in questo 2021 probabilmente non lo rifarà; anche quest’anno sarà lontano nel periodo di Pasqua e, sebbene il consenso ricevuto per il rito del 2020 gli abbia fatto piacere, stavolta ritiene di dover condividere la sofferenza con i suoi confratelli, rinunciando anche lui, dunque, al rito più importante e più atteso dell’anno. La coesione della sua comunità, in altre parole, sarà mantenuta attraverso l’assenza del rito, condividendo la mancanza e la sofferenza che questo comporta.
Nel 1882, nel primo volume dell’“Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”, descrivendo un libro inglese dedicato alla Pasqua, Giuseppe Pitrè e Salvatore Salomone Marino osservano:
Tenacemente fedeli a sé stessi, eppure costantemente rinnovati, i riti che vanno dalla Domenica delle Palme alla Domenica di Pasqua sono un racconto tradizionalmente codificato del dolore e della fiducia, una rappresentazione socialmente stabilita della comunità e della sua struttura, una strategia culturalmente elaborata del processo di identità e di appartenenza. Narrando una vicenda esemplare, il gruppo narra sé stesso: le sue fatiche e aspettative, i suoi fallimenti e successi. Questi rituali, sottolinea Vito Teti (2007), «costituiscono un grande ordito letterario, mitico, religioso, […] antico ed attuale (come lo sono la morte e la vita)», e ai quali nessuno di noi può sottrarsi.
La processione sull’oceano attuata dal comandante Famiani e dal suo equipaggio ha avuto senso innanzitutto per loro che la hanno concretamente effettuata, ma in una certa misura ha assunto un significato profondo anche per chi si è sentito coinvolto guardando, da un altro continente, il filmato di 20’ disponibile su YouTube. All’inizio e alla fine di quel video sono presenti delle dediche, ciascuna rivolta ad una delle comunità a cui appartiene il comandante: quella dei suoi concittadini sorrentini, quella del suo equipaggio internazionale, quella dei suoi confratelli.
La prima dedica fa riferimento al sacro e si conclude con un pensiero per le vittime della pandemia:
La seconda dedica si trova in chiusura ed è in inglese; è un ringraziamento all’equipaggio, cioè ai colleghi con cui Famiani condivide il lavoro, i sacrifici, la lontananza da casa:
Infine, la terza dedica è per i membri della congrega che, da secoli, organizza la Processione Bianca:
La ciclicità del rito aiuta a gestire l’insicuro e l’inverosimile, il senso di appartenenza e la coerenza comunitaria. Come abbiamo visto, un rito può fungere da collante e da speranza, così come può esserlo anche la sua assenza se, come ha annunciato Famiani per il 2021, viene scelta per condividere un destino comune e la visione che ne discende. La stiva della motonave “Grande Senegal”, in cui si è svolto quel corteo, probabilmente non è la “culla ctonia” di cui parla Eliade, tuttavia è comunque uno spazio sacralizzato in cui è stato possibile alimentare nuova energia e nuova determinazione per affrontare il presente incerto e il futuro ignoto.
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