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La quarta emigrazione italiana, silenziosa e asimmetrica
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2023 @ 01:07 In Letture,Migrazioni | No Comments
Nascono, crescono e studiano in Italia, ma al momento di mettere in atto i progetti di futuro fanno la valigia e se ne vanno. Aumenta senza sosta da oltre 15 anni il numero dei giovani che lasciano l’Italia per trasferirsi in un altro Paese. Il peso di tale scelta, che appare ancora più preoccupante perché presente in uno degli Stati più industrializzati d’Europa, non ricade solo su chi parte e decide di andare a vivere all’estero. Lentamente l’Italia perde le energie dei più giovani, la loro creatività, le conoscenze e le competenze che ha promosso e sostenuto in una lunga formazione. Sono cittadini che faranno famiglie altrove, non voteranno più nei comuni d’origine e non contribuiranno alle risorse fiscali del Paese. Si spostano e si muovono anche più volte, ma sempre fuori dai confini nazionali, per ritornare soltanto per brevi periodi, nelle ferie o nelle ricorrenze familiari [1].
Questo il quadro che gli studi più recenti e l’ultimo Rapporto Italiani nel Mondo (RIM) ci consegnano, con un allarmante bilancio delle nuove partenze dei giovani che, aggiungendosi alla fisiologica denatalità comune a tutto il mondo occidentale, prospetta critici scenari demografici per gli anni a venire.
Non si tratta certo di una sorpresa, visto che le statistiche già dal 2008 registravano il nuovo movimento in uscita con numeri significativi, con una colonnina che è salita fino ad oggi senza interruzione, nonostante la lunga pandemia. L’equilibrio tra partenze e ritorni che ancora si poteva rintracciare fino al 2007, seppure con movimenti instabili, si è alterato radicalmente dall’anno successivo:
Quali i numeri di questo fiume che scorre in uscita con acque sempre più abbondanti? Per un bilancio sempre più preciso gli esperti si muovono in più direzioni, anche perché le misurazioni dei processi migratori non sono mai state opera semplice, data la naturale complessità del movimento e l’elevato numero di variabili che trascina in campo, visto che innerva tutta la vita di una comunità. Nel tempo sono stati proposti modelli applicativi assai diversi, sollevando non pochi problemi nelle analisi demografiche [3], che non sempre convergono sulle stime finali. La maggiore intensità e facilità degli spostamenti degli ultimi anni ha inoltre portato con sé nuove dinamiche che hanno reso ancora più difficile una quantificazione del fenomeno, se si considera che alle partenze ufficialmente registrate con carattere di permanenza anagrafica si devono aggiungere i flussi di ritorno, gli spostamenti temporanei o associati a circolarità. Non pochi sforzi sono stati poi orientati nella definizione di una modalità che permetta di rilevare i movimenti di chi lascia il Paese senza comunicare agli uffici amministrativi la propria partenza, e afferrare così anche una fascia che al momento risulta ancora vaga e difficile da misurare [4].
Non brancoliamo tuttavia nel buio. Disponiamo dei dati AIRE e Istat a cui è possibile fare appello con ragionevole affidabilità per tracciare un quadro generale che, seppure nella sua inevitabile provvisorietà e parzialità, permette comunque di procedere verso una prima analisi di quanto sta accadendo nelle nostre città.
Con appello a queste fonti il recente Rapporto Italiani nel Mondo ci consegna un’Italia che è appena scesa sotto i 59 milioni di abitanti, di cui il 9,8 per cento (5.806.068 italiani, per il 48,2 donne) risiede all’estero con iscrizione in AIRE (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero), mentre gli italiani nati all’estero sono aumentati dal 2006 del 167,0% (in valore assoluto oggi sono 2.321.402, erano 869 mila nel 2006). Nello stesso tempo, l’8,8% dei cittadini regolarmente residenti in Italia risulta costituito da stranieri (in valore assoluto quasi 5,2 milioni), cifre dunque inferiori a quelle di chi, nato in Italia, decide di andarsene [5]. In altre parole, “l’allarme immigrazione”, che per anni ha accompagnato anacronistiche preoccupazioni politiche, ha finito per offuscare la vera emergenza che adesso siamo chiamati ad affrontare, e cioè la perdita delle presenze e della progettualità dei nostri giovani che scelgono con sempre maggiore facilità l’estero per il loro avvenire.
Tra le partenze vi sono anche in numero crescente quelle dei nuovi naturalizzati italiani, che decidono di uscire dal nostro Paese dopo avere ottenuto la cittadinanza. Già nel RIM 2021 la situazione era stata presentata nella sua gravità:
Il fenomeno fa ormai parlare di una quarta fase dell’emigrazione italiana [7], che assume caratteristiche nuove rispetto alle precedenti, pur mantenendo il dato costante dell’incidenza, con cifre variabili, su tutto il territorio nazionale. Il Veneto e la Lombardia continuano ad essere le regioni da cui si parte di più, come agli esordi della “grande emigrazione” a cavallo tra Ottocento e Novecento, anche se gli studiosi individuano tra chi adesso parte da queste regioni una componente significativa costituita da emigrati meridionali di seconda generazione, più propensi per la storia familiare a nuovi spostamenti. Alle due regioni settentrionali si accoda la Sicilia con il 9,5 per cento della quota nazionale.
L’Isola si conferma inoltre la regione con il maggior numero di italiani residenti all’estero e, secondo i dati Istat, dopo la Campania è la seconda per spopolamento dato da denatalità ed esodo emigratorio [8], fattori che non sono, come si può ben comprendere, del tutto slegati tra loro, poiché chi decide di trasferirsi all’estero appartiene soprattutto alla fascia fertile della popolazione e i suoi figli, se deciderà di averne, nasceranno fuori [9]. Nel futuro per tutto il Mezzogiorno si ipotizza una trasformazione sostanziale:
Le statistiche generali convergono su un dato di fondo: dal 2006 ad oggi la presenza degli italiani all’estero è progressivamente cresciuta passando da 3,1 milioni a oltre 5,8 milioni, con corrispondente e crescente calo della popolazione residente in Italia.
Secondo il 34° Rapporto Eurispes [11] risulta a questo punto possibile ritenere che trenta milioni di italiani hanno lasciato i confini nazionali dal 1869 al 2019, quasi la metà della popolazione italiana odierna. Buona parte di questi emigrati non ha più fatto ritorno stabilmente in Italia: il numero di rimpatriati per l’intero periodo considerato è di 11,9 milioni, per cui il numero di italiani effettivamente emigrati dal 1869 al 2019 si attesterebbe su circa 17 milioni (17.527.992). Il maggior numero di italiani residenti all’estero oggi vive in Argentina, Germania, Svizzera, Brasile, Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Belgio, con cifre che contengono anche i precedenti movimenti emigratori con le vecchie iscrizioni.
Nella fase più recente, per la quale si utilizza maggiormente il termine “mobilità”, è stata l’Europa ad attrarre soprattutto gli italiani. Nell’ultimo anno chi ha lasciato l’Italia ha scelto in prevalenza Regno Unito, Germania, Francia, Svizzera, Spagna, Brasile, Stati Uniti d’America, Belgio e appartiene alla fascia che va dai 18 ai 49 anni:
Va precisato che, seppure nel 2022 sia stata evidenziata una contrazione nelle partenze, il dato non viene ritenuto un indicatore indipendente e tale da suggerire un processo in controtendenza. Risulta piuttosto legato agli effetti della pandemia che già erano stati notati nel 2021, e che sono emersi in modo più evidente nell’ultima rilevazione. In realtà le partenze non sono diminuite, piuttosto non tutte sono state ufficialmente registrate:
Se prestiamo attenzione all’età dei giovani che si allontanano dai luoghi di origine, si riscontra che l’idea della partenza al Sud si fa strada prima. Sin dalla scelta del percorso universitario molti giovani meridionali guardano al Centro e al Nord (il 25,6 per cento dei ragazzi meridionali studia al Centro-Nord), recentemente sempre più all’estero, e dal 2007 al 2018 ciò ha portato a una riduzione del tasso di crescita del Pil meridionale di quasi 2 punti e mezzo, pari a una media annuale dello 0,20 per cento[14]. L’emigrazione universitaria è soltanto il primo sintomo del disagio che serpeggia nella nuova generazione di studenti, accompagnato o seguito velocemente dalla scelta di espatrio per esigenze lavorative.
Non c’è dubbio che è proprio dal malessere dei nostri ragazzi che bisogna partire per capire meglio quanto sta accadendo. Uno “star male dove si vive” che se è sotto gli occhi di tutti ma spesso sfugge alle misurazioni tradizionali e alle conseguenti valutazioni per efficaci interventi nel settore. Come nel RIM del 2022 è stato sottolineato, i nostri giovani non si sentono amati dal Paese in cui sono nati e cresciuti. Sulla disaffezione sempre più diffusa incidono diversi indicatori, che possono appartenere all’ambiente di formazione e al grado di cultura o di ambizione dei soggetti coinvolti, ma che certamente non prescindono da fattori anagrafici, territoriali e di genere. Chi completa gli studi e cerca di entrare nel mercato del lavoro, anagraficamente i più giovani dunque, si vede spesso costretto ad occupare in Italia posizioni a carattere temporaneo e con poche garanzie sia economiche che contrattuali, invitato ad un numero imprecisato di stage, tirocini, periodi di prova in genere sottopagati o non pagati affatto [15] per accumulare attestati e certificazioni, in attesa che arrivi la giusta occasione per una stabilità professionale e personale, a sua volta continuamente procrastinata. Nel frattempo passano gli anni e le nuove offerte vanno ai più giovani che intanto scendono in campo in cerca di lavoro, probabilmente con abilità e condizioni più appetibili per le aziende che possono con loro ripartire, riproponendo il medesimo iter [16].
Nel Sud la situazione si aggrava e penalizza ulteriormente per la storica (e mai sanata) carenza di opportunità lavorative [17], mentre si restringono le possibilità per le donne, spinte ai margini da un mercato che seleziona e scarta anche in base al genere. Si tratta di un capitale umano che “si perde per strada”, perché non viene valorizzato in tempo per conoscenze e caratteristiche possedute e non viene alimentato con la prospettiva di una giusta promozione umana e professionale. Cala di conseguenza la fiducia nel proprio Paese, mentre aumenta l’attrazione dall’estero per le maggiori e più facili possibilità di accesso ad occasioni lavorative che magari non offrono assolute certezze ma sembrano più a portata di mano e meglio rispondenti alle esigenze di autonomia dalla famiglia di origine presenti all’esordio dell’età adulta.
Va certamente riconosciuto che la mobilità appartiene ai progetti delle nuove generazioni, se consideriamo che «permette alle persone di cogliere opportunità o allontanarsi da situazioni avverse, che facilita l’incontro tra domanda e offerta di lavoro e asseconda l’utile scambio di esperienze e il trasferimento di conoscenze» [18]. Prospettando passi da fare verso una serie di traguardi e proponendo nuove sfide da affrontare, la mobilità favorisce fisiologici e comprensibili progetti di crescita e formazione che hanno per certi aspetti sempre fatto parte nella storia di questa età della vita, e che la globalizzazione e la delocalizzazione produttiva hanno soltanto facilitato, mettendo sul piatto più opportunità di successo e un minor numero di difficoltà burocratiche da affrontare nell’iter progettuale.
Quanto accade in Italia presenta tuttavia delle anomalie sostanziali, e mette il nostro Paese in cima ai Paesi europei occidentali per movimenti verso l’estero per lo più senza ritorno o con ritorno assai incerto. L’attuale mobilità dei giovani italiani risente soprattutto di un difetto di fondo, è una «mobilità malata», come l’ha definita la sociologa Delfina Licata, storica curatrice del RIM per la Fondazione Migrantes: manca la possibilità del rientro, quel momento in cui quanto è stato coltivato fuori possa finalmente divenire un valore aggiunto per una possibile assunzione in Italia, e ripagare chi ha faticosamente rinunciato al sostegno familiare, economico e affettivo negli anni di estero.
Chi torna viene per lo più ricacciato indietro perché si è allontanato dai contatti presenti nel territorio, diviene paradossalmente estraneo al contesto e straniero in casa propria. Le abilità, anche linguistiche, tecnologiche e relazionali, che fuori ha maturato non sempre vengono valorizzate economicamente e professionalmente. Dovrebbe ripartire daccapo, e comunque senza speranze certe. Chi esce e trova un buon lavoro all’estero raramente pensa così di rientrare, si scommette piuttosto nella nuova destinazione, progetta un futuro, una famiglia, una stabilità personale. Lo fa talvolta con fatica e spesso anche con rabbia e amarezza per il rifiuto che avverte dal suo Paese.
La quarta emigrazione si presenta in una valutazione complessiva un movimento «asimmetrico», che configura un processo «a perdere» su tutti i fronti:
Il problema rimane complesso e non semplificabile, come si è visto fin qui. Tante le dinamiche in gioco, notevole e diversificata la pluralità dei soggetti in causa e di conseguenza altrettanto complessa la serie di retroazioni che tutto questo comporta e comporterà negli anni a venire. Non si tratta ovviamente di deporre le armi né che siamo disarmati in partenza, tutt’altro.
Un tavolo serio dei lavori nella direzione di interventi sinergici risulta necessario, e per alcuni aspetti ha già sul campo esperti in grado di sedersi con gli altri e predisporre percorsi sistemici. La normativa emanata negli anni scorsi per riportare in Italia lavoratori rimpatriati, docenti e ricercatori con alte specializzazioni e qualificazioni (nota come “rientro dei cervelli”) è stata di certo un primo passo, ma il quadro fin qui presentato ci dice che non ha dato esiti sufficienti. Così come non basta defiscalizzare i redditi di chi torna per incentivare i rientri, per quanto anche questo sia importante. Bisognerebbe piuttosto pensare ad un piano più organico e diffuso in grado di alimentare in primo luogo la fiducia nel mercato lavorativo del nostro Paese e frenare le partenze, puntare su istruzione e formazione orientate all’inserimento reale nel territorio, prospettare per le donne percorsi professionali in cui il loro apporto di genere sia ritenuto per quello che è ed è sempre stato, e cioè un valore prezioso e insostituibile per tutta la comunità. Incoraggiare i rimpatri valorizzando adeguatamente le risorse umane che chiedono di tornare in Italia. Parlare più spesso di economia circolare non solo con i giovani ma soprattutto con le imprese e le istituzioni, per lavorare sui servizi, sulle opportunità nascoste, sullo sviluppo delle risorse locali, con politiche che guardino pure alle periferie e non solo alle grandi città.
E poi alimentare il desiderio della restanza. Perché forse non cambierebbe la storia, ma certamente rappresenterebbe un valore aggiunto, una piccola luce dentro il tunnel. Che si potrebbe accendere con una maggiore attenzione a ciò che abbiamo intorno, al benessere che rischiamo di perdere quando gli orizzonti si dilatano e si allontanano, come ci suggerisce da tempo l’antropologo Pietro Clemente anche attraverso i molteplici contributi pubblicati ne “Il centro in periferia” di questa rivista. Come continua a ripetere anche Franco Arminio, poeta e paesologo, con riflessioni che non sarebbe male leggere nelle nostre scuole:
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