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La strada giusta. L’esperienza di Lorenzo Barbera nel Belice a cinquant’anni dal terremoto
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2018 @ 01:21 In Cultura,Letture | 1 Comment
Nella ricorrenza del cinquantesimo anniversario del terribile sisma che ha colpito la Valle del Belice, nel gennaio del 1968, volendo fare una ricognizione documentaria, è possibile usufruire di una ricca bibliografia e dei documenti raccolti dal Centro Ricerche Economiche e Sociali per il Meridione (CRESM), fondato da Lorenzo Barbera e oggi sapientemente coordinato da Alessandro La Grassa. Basterebbe pensare, a titolo di esempio, alla originale formula espositiva ideata dal CRESM per la realizzazione del Belice/EpiCentro della memoria viva di Gibellina, un museo interattivo progettato con la collaborazione di Giuseppe Maiorana, in cui si raccontano diversi segmenti della storia, della memoria e della coscienza del territorio belicino.
Qui si cercherà di esaminare un testo che, come nessun altro, è stato in grado di farci conoscere dall’interno, e nel dettaglio, la drammatica ma straordinaria vicenda vissuta dalle comunità che, nel periodo immediatamente successivo al terremoto, si sono battute per rivendicare e tutelare il valore della propria dignità civile e per non essere spazzate via dalla storia [1].
I ministri dal cielo. Già nel titolo si prefigura, in tutta la sua intrinseca complessità, la storia del difficile rapporto intercorso, da una parte, tra gli abitanti di Calatafimi, Camporeale, Contessa Entellina, Gibellina, Menfi, Montevago, Partanna, Poggioreale, Salaparuta, Salemi, Sambuca, Santa Margherita, Santa Ninfa e Vita, solo per citare i centri abitati maggiormente colpiti dal sisma, e, dall’altra, gli enti e le istituzioni governative del nostro Paese che, davanti a quella durissima situazione, invece di intervenire con la serietà e la responsabilità istituzionale che la circostanza richiedeva, si comportarono nel peggior modo possibile: stringendo accordi con la mafia, contrastando apertamente quegli umili cittadini con tutti i metodi allora a loro disposizione (quasi sempre utilizzando la repressione militare), ingannandoli con false promesse e, soprattutto su un fronte politico-mediatico, speculando in maniera demagogica sulle loro difficoltà. Spesso arricchendosi pure (si pensi, tanto per fare un esempio, a quanto è avvenuto, in seguito, a Partanna, con la costruzione del nuovo quartiere in contrada Camarro).
E, per dare icasticamente un’idea del metodo «dissimulante» dei maggiori esponenti delle istituzioni di quel tempo di fronte alle popolazioni belicine che reclamavano il pieno riconoscimento dei propri diritti, valga il racconto dell’episodio dell’arrivo dell’allora Presidente del consiglio, Aldo Moro, appunto «dal cielo», in elicottero:
Il passo appena citato, oltre che offrire de facto un efficace esempio di come le istituzioni reagirono (o, meglio, non reagirono) davanti a quell’immane dramma, ci fornisce anche un saggio dell’originalissimo stile narrativo di Lorenzo Barbera. Uno stile caratterizzato dall’appassionata volontà di raccontare, e custodire nel tempo, l’atavica pazienza, la consapevolezza della propria identità, la coesione e la dignità di quelle genti. Spesso poverissime – per lo più prive di istruzione – ma ricche di sapienza: e per sapienza intendo soprattutto la «sapienza della terra», ovvero quella dell’antichissima civiltà contadina, trasmessa, nei secoli, da generazione a generazione, mediante un complesso percorso di inculturazione che ha attraversato le epoche e che, nell’incontro con le principali civiltà del Mediterraneo, ha maturato conoscenze, tradizioni ed esperienze di vita, imparando a scrivere nella terra e a lasciare segni, volendo richiamare una espressione del poeta Ignazio Buttitta.
La civiltà che Lorenzo Barbera, figlio di contadini partinicesi, ci racconta – di riflesso – nel suo libro è una civiltà millenaria, oggi quasi del tutto estinta. Ryszard Kapuściński, uno dei maggiori scrittori di viaggio degli ultimi decenni, ha affermato in maniera del tutto convincente che il vero grande genocidio consumato in Europa, e nel mondo mediterraneo in generale, durante il Novecento è stato quello della classe contadina [3]. Sappiamo tutti che, dal secondo dopoguerra in poi, tanto per restare in Sicilia e nel Meridione d’Italia, buona parte della forza lavoro giovanile, che sino a quegli anni aveva retto l’economia rurale e, quindi, da noi, l’economia tout court, è andata a lavorare presso le regioni economicamente più progredite della Penisola, ad esempio, in Piemonte, alla Fiat, o a rinsanguare le fabbriche del nord Europa, e della Germania in particolare.
In termini umani, tornando ai centri belicini, l’emigrazione ha significato un vero sconvolgimento per lo spostamento di migliaia di persone. All’inizio degli anni ’60, in coincidenza con il boom economico italiano, nel territorio del Belice si è verificato un vero e proprio incremento dell’emigrazione. E non era ancora arrivato il terremoto. Dal 1968, di conseguenza alla cronica mancanza di lavoro, oltre che a causa del disagio generale causato dalla carenza di abitazioni e, quindi, dalla paura del terremoto, il fenomeno dell’emigrazione era infatti aumentato a dismisura.
A tutto questo, come anticipato sopra, si aggiungeva uno spaesamento collettivo provocato dalla (consapevole, purtroppo) sordità delle istituzioni davanti alle richieste di servizi e di diritti basilari e, in generale, dinanzi al legittimo «bisogno di normalità» recriminato dai terremotati. Dinanzi a questo angoscioso avvenimento, Lorenzo Barbera, insieme al Centro Studi di Partinico, fondato da quella grande anima che fu Danilo Dolci, maestro di «disobbedienza civile» e figura di riferimento per Barbera sin dagli anni Cinquanta, grazie anche alla sensibilità di alcuni sindaci e alla partecipazione attiva di una buona fetta di quelle comunità, animò una lotta appassionata e pacifica contro la squallida indifferenza del potere precostituito, avversando i luoghi comuni e i pregiudizi – attuali più che mai, purtroppo, anche in anni recenti – della società italiana di quel tempo.
Le testimonianze raccolte ne I ministri dal cielo sono un documento prezioso per comprendere il valore di quella memorabile battaglia civile, una battaglia che vide lottare buona parte di quella popolazione, sin dall’inizio, per avere riconosciute le proprie necessità con due epiche marce di protesta a Roma, davanti a Montecitorio, con altre due marce, a Palermo, concluse con dei raduni in Piazza Bonanno, davanti all’Assemblea Regionale, e con tantissime altre manifestazioni a Santa Ninfa, Partanna, Roccamena e in diversi altri centri del Belice. Una battaglia che permise loro di ottenere molte promesse (si pensi all’incontro, avvenuto durante la seconda marcia a Roma, con Sandro Pertini, allora Presidente della Camera dei Deputati), e di assicurarsi, qualche volta, dopo lunghe contrattazioni, anche degli stanziamenti e delle leggi formulate ad hoc per sopperire, con una certa urgenza, ai bisogni di quelle comunità. Basti ricordare la decisione, presa a Santa Ninfa nel dicembre del 1969, di non pagare più tasse allo Stato finché non fosse iniziata la ricostruzione, dato che precedentemente, non mantenendo però la promessa, il Parlamento aveva solennemente approvato una legge sulla ricostruzione.
Per fornire un altro esempio diretto di questo originale e coraggiosissimo metodo di «educazione alla democrazia», riporto un brano tratto da una recente intervista rilasciata da Lorenzo Barbera a Partecipare, un periodico a cura del CRESM di Gibellina.
La vicenda è raccontata anche ne I ministri dal cielo ed è l’esempio – tra i tanti riportati nel libro – di come, in seguito a questo sisma, sia chiaramente maturata la convinzione che lo sviluppo di queste aree depresse, di queste piccole città, dovesse essere attivato non solo mediante interventi esterni ma anche con la mobilitazione e l’iniziativa delle popolazioni che le abitano.
Questo è il medesimo parere che Goffredo Fofi, insieme a Barbera, altra figura storica del gruppo di giovani studiosi ed attivisti che gravitarono attorno a Danilo Dolci, corrobora nella sua lucida introduzione al volume:
Il riferimento – non casuale – di Goffredo Fofi al recente terremoto aquilano e alla trista campagna di accaparramento mediatico del consenso attuata dall’allora Governo, in quei frangenti, dovrebbe indurci a riflettere sulla longue durée che accomuna, più di quanto si possa pensare, gli esponenti della classe dirigente del nostro Paese dei decenni passati con quella attuale: come dire, in politica «tutto cambia affinché nulla cambi».
Ma le difficoltà della vita, soprattutto se inaspettate, quando toccano in particolare noi e le nostre famiglie, necessitano di essere superate sul serio, imponendoci l’audacia. Ed è quello che pensarono anche Vito Accardo, ventenne originario di Vita, componente del Centro Studi, e un gruppo di giovani che, discutendone e confrontandosi in pubblica assemblea, nel 1970, a Partanna, maturarono la ferma convinzione di dover rifiutare il servizio di leva, sapendo che, al cospetto di uno Stato incoerente e palesemente inadempiente, la loro presenza nella zona natìa, in quei mesi, avrebbe avuto una funzione civile forte. Lo Stato, in questo caso, non esitò ad agire con solerzia. Ma con esiti tutt’altro che partecipativi.
Il movimento organizzò un comitato autonomo antileva. Fece una marcia verso Palermo, contrastata però con durezza dai carabinieri (con, al comando, il colonnello Carlo Alberto Dalla Chiesa). A questa marcia fecero seguito altre importanti manifestazioni. Alcuni giovanissimi membri del Centro Studi vennero arrestati e processati. Lo stesso Indro Montanelli, in un suo celebre articolo, pubblicato a poco più di due anni dal sisma sulla Domenica del Corriere, pur mantenendo in merito delle riserve, manifestò la propria ammirazione per la coerenza di quei giovani:
E ancora:
La vicenda ebbe, infine, un esito positivo con il riconoscimento dell’obiezione di coscienza per le classi ’50, ’51, ’52, ’53. Vinse la dignità di quei giovani e fu il segno tangibile della presa di coscienza di un’intera comunità.
Anche questo fu possibile – come tiene a sottolineare, sempre nella sua bella introduzione al volume, Goffredo Fofi – grazie all’incontro tra operatori «persuasi» e profondamente, auten- ticamente democratici, e una popolazione duramente provata dal disastro e che aveva imparato da tempo a non aspettarsi niente dallo Stato e dai suoi rappresentanti [8]. E quella dell’«agire con persuasione» è una grande eredità che Lorenzo Barbera ha ricevuto dal suo incontro e dalle lunghe discussioni intercorse con Danilo Dolci. Un’eredità che, mediante Dolci, proviene indirettamente da Aldo Capitini, filosofo, grande educatore e teorico della non violenza. Capitini scrive a proposito che il fare «persuaso» tende alla realtà, mediante l’intima ricerca e certezza di valori; e se ciò fa incontrare rischi e sforzi, tuttavia è un fare che può costruire perché ha una struttura [9]. Ed è la struttura – aggiunge Fofi – di quegli uomini, vecchi e giovani, che appartenevano (e in parte appartengono ancora) ad un comune universo culturale.
I ministri dal cielo insomma è un documento, sì, ma allo stesso tempo anche un monumento alla dignità umana; è un libro scritto da uomini che coraggiosamente hanno saputo vivere la propria storia ragionando, e senza incrinature di voce. Il libro di Lorenzo Barbera è un inno alla speranza e alla giustizia. La sua voce è la voce delle popolazioni che, in quel doloroso momento, hanno deciso di proseguire un difficile cammino, senza rassegnarsi davanti a chi subdolamente ha tentato di opprimerle e di destituirle dal diritto e dal decoro di una normale vita quotidiana. È, in sintesi, il percorso già delineato dal sociologo di Partinico in chiusura al suo libro inchiesta sulla diga di Roccamena, pubblicato da Laterza quattro anni prima che la Valle del Belice venisse scossa dal sisma che a tutt’oggi continua a riecheggiare nelle coscienze di quanti hanno vissuto quella drammatica esperienza:
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