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La voce barbara e arcana di Medea da Euripide alla riscrittura di Bonagiuso
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2023 @ 00:21 In Cultura,Letture | No Comments
di Filippo Triolo
Da apolide e poi da cittadino di un paese non mio, la mia lingua è diventata la mia vera patria (Luis Sepulveda)
Introduzione
Del personaggio di Medea nel corso dei secoli si è scritto e detto di tutto, soffermandosi ora sul tragico infanticidio ora sul dominio dell’uomo sulla donna, sul tradimento, la vendetta, sulla ragione che cede di fronte alla passione e per ultimo ma non per importanza sul tema dell’essere stranieri, esuli in terra d’altri. Eppure da Euripide a Seneca, da Cherubini a Pasolini, da Wolf passando per la Medea nomade di Jean Anouilh e approdando all’ultima regia di Federico Tiezzi su traduzione da Euripide a cura di Massimo Fusillo messa in scena in occasione della 58esima edizione del Teatro Greco di Siracusa, il tema della straniera, della barbara non ha sempre trovato una corrispettiva elaborazione e complessità linguistica. D’altronde è proprio Euripide a far parlare al suo personaggio femminile più celebre la stessa lingua del marito Giasone.
Sembra muoversi in verso opposto, invece, l’ultimo lavoro del regista castelvetranese Giacomo Bonagiuso che, come chiave di lettura della sua Medea [1], sceglie proprio il contrasto linguistico tra cultura egemone e subalterna, tra dominanti e dominati, tra padroni e servi, conquistatori e conquistati. Perché è vero, Giasone e Medea, non sono sullo stesso piano, non parlano la stessa lingua.
Bonagiuso dunque non traduce ma tradisce il testo euripideo, ne fa un’opera o musical – pare labile il confine – che travalica tempo e spazio, che da Corinto si sposta nel Piemonte risorgimentale all’indomani dell’annessione del Regno delle Due Sicilie. Ed è proprio la Sicilia del 1860 a sostituire la Colchide di Medea, e proprio come la regione caucasica, la terra della maga è ancora una volta terra di confine, frontiera, zona strategica e sempre dominata. Nessun vello d’oro, niente Simplegadi e navi volanti, gli Argonauti e il mito pregresso non trovano spazio nell’opera di Bonagiuso. Qui il contesto è un altro, diverso eppure così simile visto che nulla appare forzato, ma si sa, e scontato sembra ripeterlo ancora, la tragedia greca – differentemente dalla commedia – è universale; dunque è possibile immaginarla, Medea, come giovane ragazza siciliana al primo amore, invaghirsi di un generale piemontese al seguito di Garibaldi e i Mille. Per amore di un uomo – divorato dall’ambizione di accrescere il suo potere scalando la Politica nazionale e attraversando i Palazzi delle Istituzioni di un Paese ancora in fasce – questa nuova ed eterna Medea sicana abbandona la sua terra ma mai la sua arcana lingua che continuerà ad “abitare” fino alla fine. È straniera in una terra che non comprende e non la comprende. È barbara e lo è davvero nel senso etimologico del termine, perché balbetta [2] una lingua che non conosce, che non riconosce.
Da questo punto in poi anche la storia della Medea di Bonagiuso è nota: tradita dall’uomo che aveva scelto di amare deciderà di vendicarsi del torto subito uccidendo quanto di più caro avesse Giasone: la sua nuova famiglia che gli avrebbe permesso l’ascesa al potere, quindi la nuova donna, Glauce, il padre di lei, Creonte e in conclusione il tragico infanticidio dei due figli. Figli di Giasone ma ugualmente figli di Medea. L’ascesa finale sul carro del sole e la conseguente negazione al padre persino delle spoglie mortali dei bambini.
Cercherò nelle pagine che seguiranno di tracciare un percorso, quanto più lineare possibile, sulla lingua di Medea, avvalendomi della ricca ed eterogenea tradizione letteraria e teatrale che vede protagonista il personaggio della maga colchica (e adesso anche siciliana. Perché no?!) e nel contempo proverò a giustificare – se mai ce ne fosse bisogno – l’opera di Bonagiuso all’interno della sua produzione teatrale, della sua poetica e del prezioso ragionamento e lavorio linguistico, quella modellazione della parola magmatica come la lava vulcanica, ora musicale ora aspra, sempre più arcaica che da anni ormai ricerca e sperimenta il regista e filosofo di Castelvetrano.
Euripide e quel contrasto linguistico presente già dalla sua Medea
Se è vero, come precedentemente affermato, che la Medea euripidea parla la stessa lingua di Giasone, quello ionico-ateniese lingua di Euripide e degli altri tragediografi, va detto che già con Euripide assistiamo ad un contrasto linguistico tra i due (ex) coniugi. È certamente evidente al drammaturgo ateniese che Medea e Giasone non si esprimono allo stesso modo perché non pensano gli stessi concetti. Esemplificativi a proposito i seguenti versi della tragedia:
Ancora più feroce, diretto, incisivo sul piano linguistico risulta l’agone dialettico tra Giasone e Medea, ovvero lo scontro tra i loro due mondi, quello ctonio e quello barbaro, scontro che diviene linguistico tra il logos della ragione e quello incompreso, sbagliato a priori perché straniero, restituito nella nuova traduzione di Massimo Fusillo del testo euripideo per la Medea diretta da Federico Tiezzi rappresentata a Siracusa con la straordinaria Laura Marinoni. È proprio lei, Medea/Marinoni a rispondere a Giasone in questo modo:
Lo definisce proprio così, “bastardo”, dopo averlo già salutato allo stesso modo qualche minuto prima in risposta all’uomo, all’inizio del secondo episodio:
Eppure la maga colchica sul finire della tragedia “adotta” la lingua e il linguaggio di Giasone per ingannarlo – senza che l’uomo lo avverta neppure. Se prima Medea ragionava male, presa dalla sboccata smania di parlare, adesso Giasone si dice soddisfatto di un’apparente sottomissione della donna alle proprie ragioni. Approvo, donna, queste parole, le dice ignaro della vendetta che la maga sta meditando.
In questo modo, proprio come scrive Mélinda Palombi, «con Medea, quindi, l’uso stesso della lingua diventa politico, in quanto le parole che è solita scegliere rivelano non solo la sua differenza radicale rispetto a chi governa, bensì anche la coscienza di tale differenza, ed il suo persistere, volontariamente, nella differenza: nel momento in cui Medea decide di fingere di adeguarsi alle idee di Giasone diventa palese che, invece, fino a quel momento, aveva opposto una resistenza, e non si era piegata alla pressione linguistica imposta – la stessa che viene imposta ad ogni straniero – dal potere in vigore [8].
Bonagiuso e un “noni” per superare Euripide
Se è proprio la scena euripidea appena citata indicativa della distanza incolmabile socio-culturale, retorica e dunque linguistica tra Medea e Giasone – distanza che pure apparentemente viene annullata da una falsa quanto intelligentemente malvagia sottomissione linguistica di Medea che, solo adesso, agli occhi di Giasone, agisce “da donna saggia” – al drammaturgo Giacomo Bonagiuso basta una semplice negazione, l’avverbio dialettale arcaico noni per attraversare e superare il dramma di Euripide.
Già precedentemente avevamo affermato come la seconda scena della celebre tragedia greca servisse a giustificare la distanza dei modi e dei mondi dei protagonisti, altrimenti – complice una lingua che non differisce nel dialetto ma neppure nella forma o nello stile – difficilmente percepibili come diversi. Sottomettersi alla lingua dominante, dunque, per sottolineare come la lingua e la costruzione linguistica di origine, di partenza fosse ben altra, lontana dalla retorica dei bei discorsi vuoti e sboccata nei toni.
A Bonagiuso però, che ha deciso intelligentemente di far parlare ai protagonisti due lingue diverse – siano pure il siciliano arcaico di Medea e l’italiano/piemontese di Giasone –, l’espediente euripideo dell’agone linguistico tra i due non serve. Qui lo scontro va avanti dall’inizio alla fine. Solo così, all’invito al cambiamento avanzato da Giasone, questa nuova Medea che con le altre, più delle altre, condivide la condizione di esule, potrà rispondere con un non fraintendibile avverbio di negazione in siciliano, quel “noni” che dà il titolo al brano che canta Medea in risposta a Giasone.
Infatti, basta un noni a Medea per decidere di non piegarsi al mondo e modo dominante di Giasone, nemmeno in maniera fittizia. Medea è straniera e lo capiamo subito con la sua entrata in scena, ascoltandola cantare in una lingua estranea all’ambiente piemontese; lingua, il suo siciliano arcaico, alla quale non può abiurare. Lingua che è ormai la sua unica vera patria che le è concesso abitare e che abiterà fino alla fine.
Lo scontro linguistico tra la Medea ed il Giasone di Bonagiuso non è tale soltanto grazie alla scelta di due lingue diverse (siciliano vs italiano) ma diviene ancor più nobilmente scontro tra logos e odè, tra lingua e canto. La lingua della ragione contro il canto della passione. A spiegarlo, nella riscrittura di Bonagiuso, lo stesso regista che si ritaglia il ruolo di narratore – una sorta di corifeo – che qui non conosce versi e note, è l’unico “personaggio” al quale sono affidate incursioni prosastiche nel dialetto più arcaico e rovente, magmatico e plastico, musicale, anche se in prosa, come poche altre lingue al mondo.
Se l’odè si piega al logos. L’esempio di Pasolini
Emblematica del contrasto tra odè e logos risulta essere la lettura della tragedia euripidea che firma Pier Paolo Pasolini nel 1969 con la sua “Medea [12]. Il regista di Casarsa scelse infatti come protagonista del suo film Maria Callas, reduce da un declino artistico che era seguito a quegli anni d’oro (1951-1957) che dal debutto alla Scala di Milano la videro protagonista assoluta anche al Metropolitan Opera House di New York e nei più prestigiosi teatri d’Opera al mondo.
Scegliendo la Divina per la sua Medea, Pasolini operò una rivoluzione e restituì agli spettatori la condizione esule della maga e lo scontro linguistico mettendo letteralmente a tacere la voce più incredibile che si potesse ottenere. La Callas, che vedremo attrice in un solo film – proprio la Medea pasoliniana – non la sentiamo neppure. Pasolini non solo decide che la sua Medea non debba cantare – ciò che la Divina sa far meglio – ma decide persino di non utilizzare l’audio originale delle poche battute che affida al personaggio della madre infanticida facendole doppiare ad un’altra attrice. La voce divina adesso è muta. Come chiunque esule in terra straniera.
Nessuno come Pasolini, più di Pasolini, che ha messo a tacere il canto e la voce del soprano Maria Kalogeròpulos, è riuscito a rendere con maggiore verità la condizione di spaesamento, smarrimento di una straniera in terra d’altri.
Una Medea cantata, ma non è questa la novità
Se Pasolini annulla il canto e “spegne” la voce della Callas, abbiamo visto come Bonagiuso affidi al canto, esclusivamente o quasi, i versi della sua tragedia. In realtà, che la Medea sia cantata non è una novità. La scelta registica piuttosto si configura come un atto d’amore e omaggio verso la tragedia greca che all’origine era cantata e non prosastica.
A tale proposito è bene ricordare uno degli esperimenti personalmente più riusciti di resa teatrale di una tragedia. La memoria va a “Le supplici” di Eschilo per la regia di Moni Ovadia, tradotta da Guido Paduano e adattata in siciliano e greco moderno dallo stesso Ovadia insieme a Mario Incudine e Pippo Kaballà [13]. Ancora una volta un riadattamento in siciliano, un “musical contemporaneo” in chiave di cunto che riesce a mantenere integra la natura classica evocata dal ritmo di tipo giambico e da strumenti musicali mediterranei come il bouzuki (presente anche in Bonagiuso), la fisarmonica e vari altri strumenti che rievocano mondi lontani, legati alla terra, primitivi e orientali. Ancora una volta un mito sugli esuli che viene rinnovato e mantiene lo stesso la sua attualità.
Superato l’esempio estraneo a questo percorso su Medea – eppure sono quasi sicuro il regista castelvetranese abbia guardato anche alla messa in scena eschilea lasciandosi ispirare – torniamo al canto e alla musica in Medea. Mi toccherà allora, e mi scuso per la ripetizione, citare nuovamente Maria Callas. Non l’attrice muta dallo sguardo incendiario scelta da Pasolini, ma il soprano scelto per dare voce e canto (stavolta sì) a Medea nell’opera in tre atti omonima di Luigi Cherubini su libretto di François-Benoît Hoffmann, ispirato alla tragedia classica di Euripide. Ed anche a questa sicuramente ha guardato Bonagiuso. L’opera, andata per la prima volta in scena a Parigi nel 1797 arrivò in Italia solo nel 1909, grazie alla traduzione di Carlo Zanganini, ma deve la sua fortuna nel nostro Paese all’interpretazione più tarda di Maria Callas che vestì i panni di Medea dal 1953 prima al teatro comunale di Firenze poi alla Scala e all’estero. Un’interpretazione paradigmatica tanto da spingere il regista Pasolini a volerla protagonista del suo film, ma di questo abbiamo già scritto.
Con particolare interesse dobbiamo poi guardare al canto mimetico voluto dai drammaturghi, dai registi, ora affidato al coro ora ai protagonisti che restituisce atmosfere, ma soprattutto usi, costumi, tradizioni di culture e popoli lontani (o vicini se ci riferiamo alla Medea di Bonagiuso e chi scrive è siciliano pure).
Tornando al lungometraggio di Pasolini, nonostante il silenzio della protagonista, non possiamo non soffermarci sull’unico canto funebre ancestrale e sulle musiche etniche e orientali (giapponesi, iraniane, bulgare e tibetane), vera e propria colonna sonora del film, scelte con la collaborazione di Elsa Morante. Ecco quindi la musica misteriosa e arcaicizzante che accompagna l’entrata in scena di Medea e la segue per il suo vagare in Colchide salvo poi arrestarsi bruscamente con l’ingresso di Giasone e ancora la musica barbara ed etnica che torna nel momento in cui la maga medita l’atroce vendetta, le melodie sacre che fanno da sottofondo al sacrificio finale, il tutto finalizzato a sottolineare il contrapporsi netto del mondo di Medea da quello di Giasone.
Lo stesso succede nell’ultimo adattamento della Medea euripidea a Siracusa per la regia di Federico Tiezzi che si apre con un Prologo sinfonico-corale commissionato a Silvia Colasanti ed eseguito da un coro vocalizzante delle Voci bianche del Teatro dell’Opera a Roma per evidenziare certamente la violenza subita dai figli, per poi passare ai canti rituali in lingua haitiana e aruba della prima parte in cui domina il mondo tribale di Medea, per finire con Ruckert e Mahler ed i “Canti per bambini morti”.
Se è quindi il mondo sacro e tribale di Medea ad essere restituito in note e melodie, lo stesso accade in “Médèa. Arcana opera in canto” di G. Bonagiuso che della Medea siciliana restituisce il sostrato, dunque il legame sanguigno, vitale con la terra e soprattutto con la magia, anzi magarìa, con quell’essenza superstiziosa insita in questa regione, quella sfida tra malocchio e apotropaico tipica del meridione più profondo.
Ecco allora la maga sicana alle prese con incantesimi e incantamenti, la futtucchièra che prepara la fattura a morte intonando la litania:
E ancora restituzione mimetica del canto tradizionale nella riscrittura di Bonagiuso risulta essere la nenia dal suono antico, la ninna nanna, frutto dell’elaborazione del classico e vasto repertorio di ninna nanne, “vò” siciliane, da sempre intonate dalle madri dell’Isola ai lattanti e che raggiungono maggiore successo con il brano “Avò” di Rosa Balistreri. Ecco che anche Medea, madre e adesso infanticida, intona per l’ultima volta la nenia ai suoi figli che ormai riposano in eterno. Mai il sacrificio era stato restituito con tanta dolcezza di madre.
Medea e la condizione di esule e femmina
Torniamo ancora una volta alla condizione barbara di Medea, condizione restituita non soltanto dallo scontro linguistico euripideo, dal ricorso a canti e musiche etniche e orientali o della tradizione ad indicare luoghi remoti negli adattamenti teatrali e cinematografici. E nemmeno è soltanto la scelta di adottare una seconda lingua come abbiamo visto fare a Bonagiuso con il suo siciliano arcaico ma prima di lui han fatto Franca Rame e il marito Dario Fo nel monologo “La Medea” raccolto in “Tutta casa letto e chiesa” e scritto in un dialetto arcaico dell’Italia centrale oppure la Medea [17] di Emilio Isgrò ancora una volta in siciliano, sulla scia della celebre riscrittura dell’Orestea dell’artista, poeta e scrittore di Barcellona Pozzo di Gotto, messa in scena sulle macerie di Gibellina.
E forse, è proprio all’opera di Isgrò con le sue continue cancellature e gli innumerevoli mascariamenti, che la Medea di Bonagiuso sembra essere più affine. Vicina in parte per lingua, certo, ma anche per l’idea stessa del tradimento o tras-duzione, come ama definirla il regista castelvetranese, alla base dei due testi. Parleremo tra non molto anche di questo, ma torniamo per un attimo alla condizione barbara di queste molteplici Medee. Condizione che è stata restituita attraverso notevoli scelte di drammaturgia, regia o di riscrittura del finale. È il caso, per fare altri tre soli esempi, della Medea di Jean Anouilh (1946), della tragedia in due tempi “Lunga notte di Medea” (1949) di Corrado Alvaro e del romanzo “Medea. Voci” (1996) di Christa Wolf.
Anouilh, tra gli autori più grandi del teatro francese del Novecento, ha forse scritto la Medea [18] più tragica, cupa, straziante e allo stesso tempo sensuale, disperata e sola che sia mai stata pensata. Più delle altre vive disperatamente la sua condizione di donna e barbara. È nomade, la maga di Anouilh, i fasti che furono hanno lasciato il posto ad un carrozzone, dove Medea vive come zingara, confinata fuori le mura della città di Corinto. In questo ambiente liminare Medea viene tagliata fuori, abbandonata, emarginata insieme ai figli dalla nuova vita di Giasone. Zingara e sola adesso.
Legato al nuovo elemento scenico del carrozzone anche il finale della rilettura di Anouilh. È proprio dentro il carrozzone, appiccando il fuoco, che Medea decide di andare incontro alla morte insieme ai figli. Arsi e per sempre cenere in terra. Nessuna ascesa stavolta, niente carro del sole. La morte è esclusivamente terrena, la fine di ogni cosa.
Finale diverso anche per le Medee di Alvaro e Wolf. Per il primo, quello di Medea è il dramma della condizione dello straniero e dal momento che lo straniero è donna, la messa in scena del dramma diventa teatro del conflitto tra una società patriarcale ed una condizione femminile pronta a tutto per rivendicare il ruolo di moglie e madre. Corrado Alvaro riscrisse la Medea all’indomani della Seconda Guerra Mondiale universalizzando così il testo euripideo, tradendo le motivazioni del gesto finale arrivando a “giustificare” la protagonista. L’infanticidio, infatti, verrà letto come conseguenza dell’odio razziale. Medea dunque non uccide spinta dall’odio e da una vendetta sterminatrice ma per salvare i suoi figli “dall’ira del popolo”. Un popolo che già immagina barbarie e distruzione per tutta la città terrorizzato dalla straniera:
L’uccisione dei figli diventa così l’atto finale e disperato di una madre che non vuole consegnare i frutti del proprio sangue alla violenza dell’intolleranza del popolo ospitante.
Interessante, oltre al gesto finale dalle motivazioni rivisitate, sempre nella Medea di Alvaro, lo scambio tra la maga ed Egeo nella scena quarta, una riflessione sull’accoglienza dell’ospite e l’importanza di una casa:
E ancora:
Sul tema dell’accoglienza e della salvezza, Bonagiuso, consapevole di parlare al pubblico del XXI secolo, non può esimersi nella sua opera dal riflettere sul più grande esodo degli ultimi anni, sulla mostrificazione di vite innocenti che cercano salvezza per mare e spesso invece incontrano la morte in un Mediterraneo diventato camposanto. Se in merito si era già espresso chiaramente in “Mobbidicchi”, la tras-duzione, anche quella in siciliano arcaico del capolavoro di Melville, in cui scrive e affida al personaggio di Parsi queste parole: ‘nta st’avventura a caccia di balene, lu mostru unn’è a moddu; iu ci viu negghia, scarmazzo, a nord come a sud. E viu lu diavulu, lu signuruzzu di la navi, e viu l’omu chi chiama lu surci Diu e Diu lu diavulu si cci cunveni e lu mostro lo chiama ammoddo ma ammoddo mostri un ci nn’è. La balena è balena, un pisci. Lu mostru è a siccu! A siccu è lu mostru [22], ancora una volta, adesso, in questo nuovo spettacolo, Bonagiuso fa riferimento al mare e a chi in quelle acque perde tragicamente la vita:
Se attorno all’esistenza da esule di Medea stiamo ragionando, ingiusto sarebbe dimenticare il romanzo di Christa Wolf Medea. Voci dato alle stampe nel 1996 ed edito in Italia dalla casa editrice E/O.
Nella rivisitazione più discussa negli anni ‘90 della Medea – non dimentichiamo che per la prima volta è una donna a riscrivere il dramma euripideo – è percepibile ancora l’eco del boato della caduta del muro di Berlino (1989). Ricordiamo infatti, come l’occasione di Medea. Voci fosse proprio la liquidazione della Ddr successiva alla caduta del muro, Repubblica Democratica per la quale la Wolf era stata “collaboratrice informale” tanto da essere controllata dalla Stasi come sovversiva.
Come scrive M. Rubino «La politica assume, nel caso di Medea. Voci, un nuovo volto, quello delle incertezze, e comporta un passo indietro: l’esame retrospettivo di un secolo che non ha saputo tradurre le ideologie in reale felicità» [24]. La Medea di Wolf, che non è maga, non coincide con quella euripidea e adesso è vittima di Euripide che per «quaranta talenti avuti dalla città di Corinto» ne modificò il finale facendo della maga l’aguzzina dei figli. Questa nuova Medea infatti viene adesso ripulita dalla macchia e apprende dalla voce di Arianna la tragica fine dei bambini.
La Medea di Wolf è una barbara, una straniera, una reietta, figura che è occasione per riflettere sul mondo che cambia e soprattutto sulla condizione delle donne. Perché sì, Medea è esule ma non bisogna dimenticare sia anche donna rimasta vittima di una società patriarcale e del potere maschile.
Tre protagoniste dello stesso dramma, uguali eppure così diverse, condividono dunque con la Medea di Bonagiuso la condizione d’esule, la forte nostalgia di una terra, di una casa ed una condizione di straniamento – ben diverso dal sentirsi straniero – che con queste parole canta la maga sicana:
La Medea del drammaturgo castelvetranese si sente, dunque, straniata [26] non straniera. La differenza potrà anche sembrare sottile eppure i due termini sono lontani dall’essere sinonimi. Straniamento infatti è l’effetto di sconvolgimento dalla abituale percezione di realtà dovuta all’introduzione di aspetti nuovi, estranei appunto, che in letteratura il narratore introduce ricorrendo a procedimenti narrativi e stilistico-linguistici e ad una puntuale azione sul linguaggio e sui meccanismi stessi della lingua.
Il drammaturgo siciliano, che come filosofo nasce, sembra avere chiara la lezione dell’intellettuale e filosofo francese Jacques Derrida che, sostituendo una vocale alla parola difference, conia un neologismo (differance) che non può essere considerato un sinonimo, ma supera il concetto stesso di differenza.
Come spiegò lo stesso Derrida, «la parola difference non ha mai potuto rinviare né al differire come temporeggiamento né al dissidio [differend] come polemos. È questa perdita di senso che la parola differance dovrebbe economicamente compensare” dunque “si potrebbe dire che differance designa la causalità costituente, produttrice e originaria, il processo di scissione e di divisione di cui i differenti o le differenze sarebbero i prodotti o gli effetti costituiti» [27]. Una differenza dunque che non può e non vuole essere sanata e convertita, riportata ad una norma, lo straniamento di Medea in questo modo non ammette conversione.
Oltre che zingara, Medea è anche mutilata perché donna. Non può (de)scriverla meglio, la condizione femminile della maga, il francese Anouilh:
Dunque una Medea straniera e straniata due volte, in quanto barbara, appartenente a una terra lontana e remota e in quanto donna adesso lontana dal potere e dalla rilevanza in società e persino in casa. Lo sa bene la Medea di G. Bonagiuso che se anche decide di non sottomettersi linguisticamente, sa di essere – in quanto fimmina – subordinata al potere maschile:
e ancora, sempre nello stesso brano intonato dai Corifei:
Doveroso a questo punto menzionare la rilettura femminista della Medea di D. Fo e F. Rame in “Tutta casa letto e chiesa”:
E ancora:
Deve averla chiara, quest’ultima battuta, Bonagiuso, quando pensa al finale della sua tragedia che nell’allestimento scenico vede Medea uscire di scena non più come vacca al giogo – ma ora libera dalla morsa al collo, usando quel giogo, impugnandolo alto con le mani, come fosse il timone del carro del sole con le spoglie mortali dei figli in due sacchi di rafia legati alle estremità del giogo.
E ancora Bonagiuso, che prima d’essere autore si rivela lettore vorace, nella messinscena della sua tragedia sembra raccogliere le sollecitazioni che arrivano dalla Medea donna e madre di Corrado Alvaro. Toccherà allora riprendere un passo già precedentemente citato di Lunga notte di Medea:
Se la Medea di Alvaro utilizza un’ipotetica dell’irrealtà conscia dell’impossibilità di tale gesto, la Medea madre di Bonagiuso, che «avi la lupa. La fame che non passa pure se mangi, se divori, e anzi, più divori più hai fame, e più la pelle s’attacca con l’ossa, perché́ la fame non passa e pure a te si mangi», non conosce confini ed in scena è come se volesse ringoiarli, quei figli, nel suo utero materno, tornare madre ed esule ora che i figli li ha persi, andare per via e magari dare altra terra, altra casa, futura speranza a queste creature partorite ancora. Chissà.
Roberta Scacciaferro in Médèa. Arcana opera in canto di G. Bonagiuso (Teatro di Andromeda, 10 agosto 2023)
Isgrò e Bonagiuso. Siciliani a confronto
Sostenevo precedentemente quanto l’opera di G. Bonagiuso sembrasse maggiormente affine alla Medea, o meglio al lavoro di riscrittura, tras-duzione e cancellazione della tragedia greca operato dall’artista e poeta Emilio Isgrò. Per motivare le ragioni che mi portano a sostenere ciò, è bene fare un passo indietro e spendere (e prendere in prestito) alcune parole riguardo L’Orestea di Gibellina (1983-1985), la trilogia siciliana composta da Agamènnuni, I Coèfuri e Villa Eumènidi, quest’ultima messa in scena nel 1985 – sempre sulle macerie di Gibellina come le precedenti – ma con gli abitanti della città terremotata a far da coro. Isgrò proprio come Bonagiuso non traduce ma tradisce le tragedie, le cancella come solo lui può fare e modifica lingue e coordinate spazio-temporali. I due siciliani si divertono a cambiano calendari e geografie.
Agamènnuni infatti si svolge nel 1939, alla vigilia della guerra; I Coèfuri nel 1943, durante lo sbarco degli alleati in Sicilia e Villa Eumènidi nel 1954, in piena guerra fredda.
Al centro dell’Agamènnuni, che si chiude con queste parole: Ah, siciliani, siciliani ebeti! / Solo se siamo uccisi ci sorridono. / Solo se uccidiamo ci danno del lei. / È questo il fatto. È questa l’antifona. / È questo il nodo che dovrò tagliare, c’è il conflitto fra lingua e dialetto (il siciliano che parlano i personaggi riprende quello dei tanti siciliani emigrati in America e che Isgrò definisce «il dialetto distrutto dell’emigrazione senza ritorno». Ne I Coèfuri, il siciliano incontra l’inglese degli alleati ed Agamennone è descritto come lo stupratore di Elettra. Villa Eumènidi, invece, è ambientata in un manicomio e prende le distanze dal modello eschileo.
Anche per la sua Medea «forse principessa maya o azteca: comunque barbara», Emilio Isgrò stravolge i piani linguistici, temporali e spaziali, traducendo piuttosto fedelmente la tragedia euripidea facendo ricorso ad un impasto linguistico tra l’italiano, il siciliano, lo spagnolo, e ambientandola a Messina (che continua per convenzione e convenienza ad essere chiamata Corinto) al tempo delle dominazioni spagnoli.
Dal Pròlugu scopriamo come una quarta caravella partita insieme alle altre per scoprire le Americhe si sia invece incagliata nella terra dei Colchi. «Il ‘Vello de Oro’ richiama così il mitico Eldorado dei Conquistadores spagnoli, che coincide con l’antica Colchide ricollocata tra le “Americhe nerenere” [31]. Così come le Americhe per gli spagnoli, la Sicilia diventa per i piemontesi il Vello d’oro nel dramma di Bonagiuso che ambienta la sua “Médèa. Arcana opera in canto” in piena Italia risorgimentale e post-unitaria. Ed è proprio affidata ai Corifei nel canto d’apertura la dichiarazione della nuova spazio-temporalità della tragedia:
Modificando – Isgrò e Bonagiuso – la spazio-temporalità rispetto all’opera euripidea, ne modificano di conseguenza l’impianto e il registro linguistico ricorrendo (anche) al dialetto siciliano. Nell’utilizzo della lingua si consuma però il più evidente scarto tra i due. Se Isgrò contamina nelle sue opere la lingua facendone qualcosa di assai ibrido – decretandone così la morte o forse la sua sopravvivenza in una forma nuova, lontana dal suono arcaico, che più rimanda a un nuovo slang – Bonagiuso invece non transige, mostra una certa severa e rigida separazione tra lingue, non ibrida lui, anzi si impegna nella ricerca linguistica del lessema più arcaico che possa trovare (pitittu, balata,ruppa,nzuppilu…) e quando la ricerca non dà risultati sperati, non cade nella “sicilianizzazione” di parole italiane che non potrebbero trovare corrispettivo dialettale nel siciliano arcaico. Ecco allora fare spesso ricorso a figure retoriche quali la sineddoche, indicando per il tutto, quella parte che trova il corrispettivo arcaico, giustificando così la presenza nel testo di termini come màttula e cannavazzu.
Se il siciliano di Isgrò è già quello distrutto dall’emigrazione (nel caso dell’Orestea) o dalla dominazione (nel caso di Medea), il siciliano di Bonagiuso che ha la dignità di lingua, resiste orgoglioso all’abuso violento che si consuma ai suoi danni. Non si sottomette la lingua arcaica scelta da Bonagiuso, non conosce corruzione, conscia però di non essere più egemone, di essere adesso straniera persino nella sua stessa terra.
La Sicilia e la questione meridionale nel dramma di Bonagiuso
Il Vello d’oro/ Sicilia è isola di conquista, ancora una volta conquistata, “venduta” anzi svenduta dalle stesse illusioni e disillusioni dei siciliani, vittime – secondo Bonagiuso – di una Rivoluzione nella quale avevano creduto.
Nessun revisionismo storico in Bonagiuso, solo una ferma presa di posizione, un decidere da che parte stare, una condanna inclemente verso il Risorgimento italiano, uno scavo profondo nella questione meridionale che dal 1861 non ha mai smesso di affliggere il Mezzogiorno evidenziandone sempre più l’arretratezza socio-economico culturale.
Una lettura della Medea– quella del drammaturgo castelvetranese – che non nasconde un certo marxismo di fondo proprio nell’analizzare la più grave delle quaestiones irrisolte: quella meridionale per l’appunto. Non potrebbe essere altrimenti, il nostro regista e filosofo ha infatti chiara la lezione del suo docente di Storia della Filosofia all’Università degli Studi di Palermo, Armando Plebe, che chiudeva il famoso saggio “Dimenticare Marx?” volto a riabilitare il principale teorico del Comunismo, scrivendo queste parole:
Se è azzardato definire questa Medea di Bonagiuso – Medea che è profondamente politica – come marxista, certamente il drammaturgo fa propria la lezione di Plebe e si macchia della sua stessa imprudenza – anche se oggi è difficile definirla tale – ovvero parlar male di Garibaldi.
Per affrontare la questione meridionale Bonagiuso si affida anche ad alcune pagine del Verga, basti pensare alla novella “Libertà” ed al prestito “cappeddi” di verghiana memoria usato dall’autore di Vizzini per indicare lo status dei galantuomini, di quella borghesia complice di Garibaldi e i Mille:
Bonagiuso però, ricorrendo al prestito verghiano, non omaggia certo l’autore delle Novelle – autore di cui il filosofo di Castelvetrano non ha mai smesso di contestare quel verismo che definisce artistico, ragionato, quel teatro che anziché essere di rivoluzione si dimostra essere di reazione – ma lo supera riscattando ciò che per Bonagiuso era il bisogno letterario della Sicilia post-risorgimentale:
Così alla bestialità di creature elementari prive di prospettive di riscatto (ma è davvero creatura elementare Medea?), Bonagiuso affianca la ribellione, denuncia le miserie del Mezzogiorno, invoca la Rivoluzione e la pratica giocando con la lingua che da costruzione artistica diventa sempre più mimetica, prediligendo così il vero storico al vero artistico.
Se l’opera di Bonagiuso fosse una metafora? Conclusioni
Conoscendo la produzione teatrale del drammaturgo Bonagiuso, soprattutto i suoi ultimi tre lavori, ovvero le tre riscritture in quella che l’autore siciliano definisce lingua madre, il siciliano arcaico: Mobbidicchi (2019) da Melville, Luminarìa (2022) da Edgar Lee Masters e Medea. Arcana opera in canto (2023) da Euripide, tutte accomunate dal grande tema della morte – il vero oggetto della ricerca del capitano Achab nel primo dramma, e poi il tema della morte che l’intero Occidente ha rimosso nei secoli per l’americano Lee Masters e ancora la morte che incombe, arriva e pone fine a tutto (“fineru fineru tutti cosi fineru ” cantano Medea e i corifei intonando un requiem aeternam come punto fermo di questo nuovo tradimento drammaturgico di Medea, un “mea culpa” esente dal perdono nel quale ci si dichiara tutti vittime e peccatori, carnefici senza redenzione alcuna, un finale distante da quelli giustificatori di Alvaro, Wolf e Rame) – non mi è difficile pensare, ma è una lettura profondamente personale e suscettibile per questo d’errore, questa nuova Medea come atto finale di una trilogia nella quale, a legarsi indissolubilmente al tema della morte è proprio la lingua madre, quel siciliano arcaico che in Bonagiuso ancora una volta – vedasi il precedente Mobbidicchi – parlano donne sottomesse.
Sembra che con Medea. Arcana opera in canto, Bonagiuso, che ama i mascariamenti, abbia invece deciso di svelare l’essenza metaforica di questo suo lavoro che vede la morte come atto conclusivo di uno scontro tra egemoni e subalterni, giocato sullo scontro di genere e di lingue. Scegliere il dramma di Euripide non tanto per raccontare la vendetta, l’infanticidio meditato quanto la donna (che stavolta è terra, isola e lingua) violentata, abusata, snaturata ridotta a niente, straniera, “costretta” ad “uccidere” i suoi figli, a partorirli di nuovo e vederli crescere altrove.
C’è nella Medea di Bonagiuso l’immagine nitida di una regione dominata e adesso annessa al Paese che ha perso la sua lingua e i suoi figli, una regione vuota, vacante perché derubata di risorse, menti, energie che pesa niente al tavolo da gioco. Una regione, una lingua e il loro declino iniziato con l’Italia unita. Eppure, nonostante “tutti cosi fineru”, orgogliosa (provocatoria e sensuale era invece la nica Mobbidicchi) Medea continua ad abitare la sua lingua, ed è forse questa la vera battaglia di Bonagiuso, la questione delle questioni, quella che riguarda la difesa di un dialetto che si dice pronto a scomparire. Bonagiuso affida quel dialetto arcaico ad una nuova generazione in viaggio sul carro del sole. Ci sarà una qualche salvezza o di questa lingua rimarrà solo traccia scritta in testi come questi del filosofo e drammaturgo castelvetranese?
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