- Dialoghi Mediterranei - https://www.istitutoeuroarabo.it/DM -
Le Fiandre di Ripellino
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2023 @ 00:51 In Cultura,Letture | No Comments
di Antonio Pane [*]
In una lettera a Guido Davico Bonino (26 settembre 1971) Ripellino scrive: «Ti prego di voler tenere in considerazione un certo rallentamento del mio lavoro, perché, nonostante un’estate di riposo nelle Fiandre, i miei nervi sono alquanto in disordine, e sto tentando varie cure per rimetterli in sesto»[1]. Il reperto ci dà notizia di un lungo soggiorno [2] che si riverbera in vario modo nell’opera di Ripellino: precisamente in un gruppo di poesie di Sinfonietta, nel capitolo 72 di Praga magica, in due recensioni librarie apparse su «L’Espresso» e in due capitoli (Parapiglia e Manichinia) di Storie del bosco boemo. Questo ventaglio di scritture getta una luce su un episodio biografico non altrimenti testimoniato, ci consente di ripercorrerne per così dire le piste, e insieme di seguire le sorti, le singolari declinazioni di un tema ‘incontrato per strada’, figlio del caso, frutto di una stagione di ozi obbligati [3].
Il ciclo di Sinfonietta [4] è a suo modo annunciato, nella poesia n. 56, da dettagli che tradiscono una conoscenza diretta del territorio [5] (la maschera autobiografica del «piccolo agente di commercio, | con referenze e conoscenza di qualche linguaggio, | e con la bombetta sul capo come i cocchieri di Ostenda», e le «crevettes» [6], i gamberetti, celebrata specialità culinaria di Ostenda), ma viene propriamente inaugurato dalla poesia n. 58, che presenta la «spiaggia di Knokke» (con la sua «diga») e il «prato di Zoutelaan», pertinenze del comune di Knokke-Heist, la rinomata stazione balneare delle Fiandre Occidentali che fu la ‘base’ della ristoratrice vacanza, condivisa con i nipoti Daria e Pierre Andrè (i gemelli di Milena Ripellino e di Fulvio Transunto, nati a Bruxelles il 10 dicembre 1970) [7].
Giocata sul contrasto fra lo «stuolo di coccinelle morte» che destano cupi pensieri («La mia gioia picchiettata da tempo si è spenta, | come le coccinelle e le crespe stelle marine, | che crepano senza splendore sulla battigia») [8] e il «prato di Zoutelaan, rappezzato con toppe di sole febbrile | come un’erbosa e un po’ fuori moda valigia» (panorama circense in cui «le verdi parrucche degli alberi, i rossi gerani ubriaconi | risvegliano in me il buonumore, un atroce desiderio di vivere»), la poesia offre anche, nell’immagine dei «Piccoli memlinc» che «appendono a una tavolozza | gli stracci muffiti, i lenzuoli del cielo», un omaggio al pittore tedesco Hans Memlinc (maestro della cosiddetta seconda generazione fiamminga), forse tarato sui cieli caliginosi della Passione di Torino (1470-71).
Nella poesia seguente, la n. 59, l’ambigua apparizione di «Un camping raggrinzito dalla pioggia o un piccolo circo, un fungo di tela gialla?» accende un altro ‘numero’ di «ceffi di cedro giulivi, | lunghi nasi coperti di pruina, | sgangherate cicogne dello Zwin, | istrioni con ceri esequiali e bombetta | in una grande allegria funebrina», dove entra in campo la riserva naturale dello Zwin, sul litorale di Knokke, nota sede di nidificazione di quei volatili. E anche qui l’umor nero lascia trapelare, sia pure in costume clownesco, il «desiderio di vivere»: «Benché il mio sussiego faraonico non lo permetta, | al circo Wiener scenderò anch’io sulla pista, | saltimbanco fallito, nella luce impudíca, | che sgoccia sui capelli chiara d’uovo. | Caverò dalle mie profondissime tasche una folla | di folli strumenti dall’ancia distorta, | suonando a distuono e a capriccio, | riempirò febbrilmente la bolla | della mia testa smorta | di un grullo sorriso posticcio».
Questa pantomima da chapiteaux, questo alternarsi di tristezza e allegria, contagia anche la poesia n. 63 («E un’esile gioia vacillante pinguina, | la mia gioia contumace, assopita dai morbi e dai lutti, | si sveglia, sorride, si inebria, si adombra, si strugge, | la mia goffa gioia dignitosa in bombetta e marsina»), che veicola un nuovo toponimo, eleggendo a malinconica quinta, avvivata dai «carri fioriti» che «sfilano sul litorale» (forse ispirati a una manifestazione indigena), il porto di Bruges: «Vecchie caracche cariche dei miei mali, | rullando sui crisantemi di lacera fiamma dei flutti, | salpano da Zeebrugge verso lidi lontani».
La poesia n. 64 ripropone il tema della n. 58: «Le coccinelle a sette punti hanno fame | e si spostano verso il litorale in cerca di àfidi, | ma i venti e il mare del Nord le respingono. | Così la vita respinge me affamato di vita, | perché non sapevo godere delle sue piccole gioie | e la trascuravo, incollandomi al miele dei libri, | e borbottavo come una noiosissima tàccola. | Ora che vorrei rotolarmi sull’erba fiamminga | e volare sbilenco coi gabbiani-tromboni | e ridere assieme alle eretiche bionde, alle dame-bottiglie, | è troppo tardi, troppo tardi». I punteggiati insetti e il paesaggio nordico sono ancora tramiti del rimpianto, specchi del tempo perduto [9], e il verde dell’erba è ancora la sola, malcerta, contromisura: così precaria che nella poesia n. 66 il «verdissimo verde di Zoute» (ossia del quartiere di Knokke-Heist che guarda al confine olandese, e che ospita il Royal Zoute Golf Club) andrà a certificare l’impossibilità di salvarsi («Anche se mi accadesse di guarire, | è in me ormai così forte la malía del malessere, | che non saprei accettare la salute, | la smargiassa, l’estranea. Me ne sono accorto | in mezzo al verdissimo verde di Zoute»), a smuovere il desiderio di una vita ‘banale’ (condensata nell’«espressione gaudiosa di una pera» del verso conclusivo).
Il motivo è ulteriormente sviluppato lungo le tre sezioni (A, B, C) in cui si articola la poesia n. 67, sotto l’emblema, impresso nei rispettivi incipit, di quelle «cicogne dello Zwin», che si profilavano «sgangherate» nella poesia n. 59: «Ancora la giovinezza mi chiama, trampoliera e beccuta | come le cicogne dello Zwin»; «Ancora la giovinezza mi chiama, appuntita | come le cicogne dello Zwin»; «Ancora la giovinezza mi chiama, falòtica | come le cicogne dello Zwin». «Trampoliera e beccuta», «appuntita», «falòtica», l’età verde, riaccesa dal verde dei prati di Zoute, guadagna un contrappunto di virtuosistiche variazioni: nella prima con le «arroganti guglie», le «candele incrostate dei suoi pinnacoli», i «gomiti aguzzi», le «sghembe luci», la verticale audacia contrapposta al «rotondo ridicolo, i gonfi guanciali, | le sformate pantòfole, i paffuti batúffoli, | tutto ciò che ha mollezza di mollica, | gli oblòmov, la butirrosa, la mitica | sofficità dei palloni che scuffiano»; nella seconda (ribattezzata, in quanto «ogivale», Gelmeroda, dal nome del villaggio tedesco che ospita la cattedrale variamente ritratta da Lyonel Feininger) con il «gotico incendio delle sue cúspidi», il «prisma delle sue luci funambole», che irridono «i molluschi, | le prugne globose, la cascàggine apàtica, | la gelatina di flàccide bambole, | la morbidità disossata»; nella terza con «la sua effigie gotica, gli «occhi verdi che mi amano», «i suoi aguzzi violini» che sbaragliano «i poponi poltroni, il torpore panciuto, | le tane assonnate dei tassi, l’obeso Erebo, | in cui molti sprofondano, il canapè di velluto, | in cui, grassa e vecchia, una Salomè ingioiellata | aspetta un pene di paglia, i bambocci di lièvito, | la traboccante adiposità disossata».
Nella poesia n. 69 i nomi di luogo lasciano il posto, come per un congedo, alla quintessenza del paesaggio divinato da un acquarellista. Ne avremo il «nordico mare brumoso | con la sua bava di moca e candeggina, | col suo caffelatte che intride le dighe, | con la sua filigrana di nebbia salina», il «cielo maví, da cui sfólgora, | adorna di grossi mustacchi, la testa | di un sole albino», il «verdógnolo rame dei cieli vastissimi»: desolati orizzonti che, come l’arlecchinesco «prato di Zoutelaan», esortano per paradosso «a reggersi vivi malgrado le interminabili eclissi, | malgrado l’assidua contiguità della morte».
Dopo questa apparizione ‘atmosferica’, le Fiandre riaffiorano obliquamente in tre altre poesie, concludendo (quasi in dissolvenza, in bricie) la nostra collana. La n. 70, che potremmo intitolare ‘Fantasie dolciarie di un diabetico’ [10], fra le leccornie evocate dal «pasticciere solitario, | mentre passeggia mogio mogio lungo il mare», contempla «obese torte floreali, | scappate dai banchi della fiera di Heist». Nella n. 71, difesa dell’amour fou distrutto dai pettegolezzi, figurano invece «il bloemencorso delle chiacchiere fanàtiche» (che allude ai popolari cortei di fiori dei Paesi Bassi, già richiamati nella poesia n. 63) e l’immagine della reproba gettata «in un maleolente canale di Bruges o Kampa» [11], mentre la proliferazione ad elenco delle «lunghissime strade in cui vorrei correre», che riempie la n. 74, include fiandresche «traiettorie sull’orlo di un pestilente canale» e «dighe protese verso l’Olanda».
Il «maleolente canale di Bruges o Kampa» ci porta al capitolo 72 di Praga magica, per la sua didascalia in parentesi «Scritto a Bruges», senz’altro riconducibile all’«estate di riposo nelle Fiandre», e per la divagazione che lo conclude:
«Qui, a Bruges, ti ho pensata, Praga. Lungo i canali putridi e sonnolenti, sui prati in cui si assiepano stormi di cigni bianchi con una B sul becco, dinanzi alle immagini di Memlinc, nella quiete del Béguinage, nel Markt che rammenta la dissipata albagìa delle Fiandre, dinanzi alle maisons-Dieu, in via dell’Asino cieco, sul Quai du Miroir, nelle botteghe che ammucchiano candelabri e merletti e quisquilie di rame, ti ho pensata, Praga, coi tuoi splendori di pietra e con le tue cassapanche gremite di rugginosi rottami, coi tuoi cetriuoli in aceto, il cui acre sentore provoca angoscia. Il marciume delle acque lezzose di Bruges ha un’assai stretta parentela con la muffa di certe tue viuzze nell’isoletta di Kampa, dove abita il gran pifferaio di ombre e di larve Vladimír Holan. | Smarrito, spinoso come un cardo violàceo di Tichý, ho gettato una corda funàmbola dalla Spagna fiamminga alla Spagna boema. Nei giorni impregnati di malta attaccaticcia, quando l’umido verde dei polder intorno stilla mestizia, quando le gotiche case di Bruges (che Hanuš Schwaiger riportò nei suoi quadri) sono inquietanti come la misteriosa Sibylla Sambetha dipinta da Memlinc, ho pensato ai tuoi parchi, Praga, ai tuoi palazzi stregati, alle tue béttole, dove si fa gran guasto di birra» [12].
Oltre a duplicare il parallelo Bruges-Kampa, e a rimettere in campo – dopo un’estrosa istantanea dei caratteristici e molto fotografati cigni cittadini (titolari di una divulgata leggenda) – il Memlinc della poesia n. 58 (poi associato al pittore boemo Hanuš Schwaiger [13], che nel 1888, durante una visita dei Paesi Bassi, aveva più volte raffigurato il mercato ittico di Bruges), il brano ci porta virtualmente a spasso, come un suggestivo baedeker, nella ‘Venezia del Nord’, trascegliendone l’antica sede delle beghine (denominata enclos de la Vigne o, in olandese, De Wijngaard), la centrale Piazza del Mercato, le Maisons-Dieu (Godshuizen), complesso di edifici caritativi costruiti per devozione a partire dal quattordicesimo secolo, la Rue de l’Âne Aveugle (Blinde-Ezelstraat), e il Quai du Miroir (Spiegelrei), il suo più frequentato naviglio.
Passando ai due articoli apparsi su «L’Espresso» dopo il ritorno di Ripellino in Italia, si rileva che l’incipit del primo [14] riecheggia l’attacco del brano di Praga magica che abbiamo trascritto («Sulla brumosa spiaggia di Ostenda ho pensato a Gògol’, che vi si recava per soffocare la struggente ipocondria nei bagni di mare»), laddove l’altro [15] recupera l’inedito fotogramma di una familiare ‘via dello shopping’, «il Lippenslaan di Knokke, questo viale di sfolgoranti vetrine, scenario di accadimenti inverosimili come un fiammingo Nevskij prospekt», per farne spunto di una preziosa digressione esegetica che tesaurizza, diresti, l’inerzia di pigre passeggiate:
«Ed ecco che sui viali e sulle dighe di Knokke mi càpita di incontrare gli omini in bombetta del pittore (belga) Magritte. Su quel litorale ho capito meglio la sua arte, i suoi immensi cieli, i suoi palchi di nuvole. Queste soffici, lanuginose, stracciate nuvole, che attraversano il corpo guizzante di un uccello in volo, che riempiono i battenti di larghe finestre, che trapassano dentro le tele su cavalletto dipinte all’interno dei quadri. Se la foresta renana e il romanticismo tedesco hanno influito su Max Ernst, se la lugubrità di Praga si è appresa ai ventriloqui e ai clown di František Tichý, in Magritte si trasfonde la ciclotimia che già incrina le liriche dei simbolisti belgi, si insinua qualcosa dei nordici spazi coperti di bruma, delle bassure, dei grandi cieli con nuvolaglia».
Se queste epifanie del ‘tema fiammingo’ hanno la vivacità delle impressioni ‘a caldo’ (o, quantomeno, recenti), quelle depositate nelle prime due delle quattro sequenze di Storie del bosco boemo [16] ne rappresentano ormai l’eco lontana, l’affioramento nostalgico. I termini della composizione di Parapiglia e Manichinia sono infatti stabiliti in due lettere dell’autore a Guido Davico Bonino: quella del 27 novembre 1972, con l’elenco di «saggi-racconti» (che «dovrebbero, con ancor più fantasia, applicare su piccoli spazi verbali la formula della cancellazione dei confini tra i due generi, già tentata nel Trucco e in Praga») in cui figurano Dariopea: storia di due bambini e Storie di manichini, prototipi di Parapiglia e Manichinia; e quella dell’8 luglio 1974, che comunica: «Ho ora finito un volumetto di quattro racconti, che copierò in agosto».
A tale distanza, Parapiglia vede i suoi protagonisti, i gemelli Daria e Pierre-André (ribattezzato Pea), intenti a devastare «un negozio di objets farfelus sulla diga di Knokke, afferrando gingilli, palline, orologi a cucù, velieri dentro bottiglie» [17]. In Manichinia le Fiandre Occidentali sono la scena ‘meravigliosa’ di una storia fondata sull’animazione di quadri di Paul Delvaux e Oskar Schlemmer: «Fu già nelle parti di Fiandra un paese chiamato Manichinia» [18]. La pittoresca cittadina di Damme, a 12 chilometri da Knokke, è eletta sede dell’incontro (durante un «congresso di fantocci, conclusosi con un Gala au profit du Comité de protection pour mannequins abandonnés») fra le «donne di cera di Manichinia», ‘rubate’ alle tele di Delvaux, e i «piuoli di Schlemmerlandia» carpiti al pittore tedesco [19]. Insieme alla new entry della «torre di Lissewege» [20] (il monumentale edificio campanario, con scala di 264 gradini, da cui si possono ammirare le distese dei polders, il porto di Zeebrugge, le tre torri di Bruges, la costa belga e persino, a cielo pulito, le isole olandesi), la narrazione prevede, oltre un Kultuurpaleis [21] senza riscontro nella Damme reale (ve ne è, invece, uno a Ostenda), «ville fiamminghe (di quelle che si vedono a Knokke)» [22], e «grandi occhi di vetro assai simili alle gemme di paccottiglia che vendono alla fiera autunnale di Heist» [23].
Al termine di questa rapida ricognizione, si può aggiungere che la nostra ‘serie fiamminga’ realizza una sorta di rimpatriata, il saltuario ritorno a un sentiero battuto in gioventù. In una lettera del 6 maggio 1942 a Giovanni Descalzo [24], Lola Bocchi, allora segretaria di redazione di «Maestrale» [25], descrive un Ripellino diciannovenne «che conosce il russo, il polacco, l’olandese, il rumeno» [26]. Le molteplici e vivide risposte agli impulsi dell’occasione festeggiano forse la ripresa di una consuetudine che, acquisita sui libri, nell’esercizio linguistico, trova una sua impreveduta verifica ‘sul campo’. E i versi protesi alla «gioia» degli anni inesorabilmente andati fioriscono forse dalle stesse sillabe (Knokke, Lissewege, Lippenslaan, Zwin, Zeebrugge, Zoute) che ne conservano il suono, l’irripetibile aroma.
______________________________________________________________
Article printed from Dialoghi Mediterranei: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM
URL to article: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/le-fiandre-di-ripellino/
Click here to print.
Copyright © 2013-2020 Dialoghi Mediterranei. All rights reserved.