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Le relazioni nel vissuto migratorio. Tracce e voci di siciliani all’estero
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2025 @ 03:09 In Cultura,Migrazioni | No Comments
di Grazia Messina
La riflessione che mi accingo ad esporre si muoverà in una retrospettiva storico-antropologica nel tentativo di mettere a fuoco alcuni tratti del massiccio esodo dei siciliani nel corso del Novecento [1]. Farò per questo riferimento anche a dati e contenuti presenti nel Museo etneo delle migrazioni di Giarre, che ha come contesto specifico di osservazione quello ionico-etneo, inserito nel più ampio quadro relativo alla fascia orientale e all’intera Isola [2].
Vorrei iniziare con due testimonianze della nostra emigrazione. La prima si riferisce alle partenze per gli Stati Uniti tra Ottocento e Novecento, l’altra agli espatri in Germania del secondo dopoguerra:
Cosa hanno in comune le due storie qui presentate, per quanto diverse tra loro per protagonisti, luoghi e tempi di sviluppo? Entrambe mettono a fuoco un tratto fondamentale nell’esperienza del migrante, e cioè il suo costante “essere in relazione”: con il paese di origine, con quello di destinazione, con gli altri siciliani in cammino, con la realtà lavorativa e quella associazionistica, laica e religiosa, con lingua, cultura, affetti [3]. L’attenzione rivolta ai tanti processi relazionali, sempre in fieri, e alla loro implicita ineliminabile complessità [4] che ne impedisce una precisa quantificazione, diviene pertanto fondamentale al fine di comprendere il processo di maturazione identitaria dell’emigrante, sia esso personale che collettivo.
Non vi è inoltre dubbio che eventuali interventi politici, sociali e legislativi, in riferimento tanto alle partenze quanto agli arrivi, debbano tener conto degli studi coltivati in simile direzione, che potremmo definire di tipo socio-antropologico-culturale. Il ricorso alla pluralità di fonti disponibili (museali, archivistiche, letterarie, teatrali, cinematografiche e di altro respiro artistico), ha permesso di valorizzare le diverse esperienze di vita, senza trascurare le difficoltà incontrate dai siciliani nel paese di accoglienza e le risposte date dai singoli e dai gruppi per reagire a forme di marginalità o discriminazione.
Contemporaneamente ha preso forma un crescente interesse per le comunità e le forme di associazione laica e religiosa nate all’estero, così come per i legami con la terra d’origine e per le relazioni e gli scambi che nel tempo si sono conservati fra i due mondi dell’emigrante siciliano. In quest’ottica hanno assunto rilievo le testimonianze, le biografie, le lettere, le narrazioni sia dirette che indirette, i memoir, aggiungendo al patrimonio documentale della storia d’emigrazione anche il peso e il valore delle fonti orali [5].
Dal laboratorio storico al Museo
Quanto fin qui indicato definisce l’orizzonte di riferimento in cui ho cercato di portare avanti ricerche e attività come docente e come studiosa del fenomeno. Ho infatti adottato tale prospettiva di lettura del movimento per avviare nel 2001, nel liceo scientifico di Giarre in cui insegnavo, il “Progetto Migranti” [6], al fine di ricostruire con un trasversale gruppo di lavoro il flusso di emigrazione dall’isola, recuperando storie familiari ancora custodite nei cassetti dei nonni con lettere e fotografie, oppure trasmesse con racconti privati. In ogni caso, storie ancora sconosciute, che rischiavano di rimanere nell’oblio.
Si è trattato di sperimentazione molto fertile sotto vari punti di vista. L’entusiasmo degli studenti, dei colleghi, delle famiglie, degli emigrati, delle associazioni e dei tanti coinvolti nella ricerca ha generato un clima attivo e coinvolgente in tutta la scuola: ogni giorno nei corridoi qualcuno mi fermava per chiedere di poter consegnare una nuova storia, un nuovo racconto. I ragazzi che avevano individuato un parente, un vicino di casa, un conoscente erano entrati spontaneamente in una relazione intergenerazionale assai vivace, ricca di valori in transito, di confidenze preziose. Avevamo aperto, insieme ai cassetti di famiglia, anche valigie di ricordi a lungo soffocati, rimossi, che adesso venivano alla luce con una valanga di emozioni e sentimenti. Come si può ben comprendere, da quel momento non è stato più possibile fermarsi.
Nel contempo in classe i docenti presentavano la cornice storica del movimento, con la sua genesi a cavallo tra Ottocento e Novecento, le tante sfaccettature della sua evoluzione nelle due fasi successive fino alla vigilia del secondo millennio (all’epoca la quarta fase di mobilità in corso non aveva preso del tutto forma). Attraverso quel laboratorio storico [7] che aveva aperto la scuola al territorio e ai suoi abitanti, sono stati ricostruiti, con varietà di contenuti e di documenti (passaporti, fotografie, biglietti di viaggio, bauli, oggetti vari), alcuni aspetti del lungo cammino dei siciliani dell’area ionico etnea nel mondo, che nel 2008, con il sostegno della “Rete dei musei siciliani dell’emigrazione” e del comune di Giarre, hanno permesso la creazione del “Museo etneo delle migrazioni”.
Un Museo dunque dalla genesi singolare, in cui gli studenti sono stati autentici ‘costruttori di storia’ in ogni fase: hanno contribuito alla raccolta delle storie (circa un centinaio) e del materiale documentale da esporre nelle sale, alla definizione di tavole statistiche, alla realizzazione di sceneggiature e brevi docufilm in cui hanno potuto collegare all’emigrazione dalla Sicilia il processo opposto di immigrazione nell’isola, presente com’è noto con numeri in crescita dagli ultimi decenni del Novecento. In più occasioni, infine, proprio i ragazzi hanno guidato i visitatori attraverso il percorso di narrazione delle partenze e degli arrivi illustrato nelle sale museali, e hanno anche incontrato comunità emigrate all’estero (Germania, Polonia, Romania, Spagna, Australia).
Negli anni successivi ho continuato a studiare il fenomeno con ricerche personali o altri laboratori didattici, uno dei quali inserito in un PCTO [8] con studenti del triennio liceale. Dall’analisi del fondo del CGE [9] relativo al periodo 1901-1925, consultato nell’Archivio storico comunale di Giarre, è nato nel 2022 il volume La Sicilia Migrante, scritto con Antonio Cortese e sostenuto dalla Fondazione Migrantes [10].
L’emigrazione transoceanica
Quale quadro emerge dalle esperienze e dagli studi appena presentati? Prima di trattare dell’emigrazione europea, e in particolare di quella diretta in Germania, meta da anni preferita dai siciliani che si spostano all’estero per studio e lavoro, vorrei rispondere alla domanda evidenziando brevemente due tratti specifici del primo esodo siciliano, il più copioso fino ad oggi con un milione e mezzo di partenze, per lo più verso le Americhe, dalla fine dell’Ottocento al 1925. Questo mi permette di riprendere, anche in senso cronologico, il ruolo fondamentale delle relazioni nell’esperienza migratoria a cui ho accennato in apertura. Gli stessi tratti, seppure con diversa espressione, li ritroveremo nella successiva emigrazione in Germania.
Un aspetto di quel primo movimento riguarda un carattere specifico dell’emigrazione siciliana, sin dal suo esordio decisamente plurale: le partenze sui piroscafi, anche quando furono prevalentemente maschili, riguardarono gruppi di persone in marcia (parenti, amici, paesani) che, una volta arrivati nella nuova destinazione, chiamarono presto con lettere e biglietti di viaggio prepagati altri familiari e conoscenti. Fu quello l’inizio delle catene migratorie, che vide stanziarsi negli stessi luoghi oltreconfine emigrati provenienti dalle medesime aree della Sicilia. Da tali aggregazioni spontanee derivarono tante società di mutuo soccorso [11], come pure associazioni laiche e religiose, il cui compito non fu solo volto a tessere reti di sostegno e assistenza, ma anche orientato a custodire lingua, valori, tradizioni, ideali, riti religiosi del paese d’origine. Per unire, collegare, attenuare le lacerazioni del distacco e accorciare le distanze.
Un secondo aspetto da non trascurare nella prima fase dell’esodo di massa riguarda il ruolo della Chiesa cattolica [12], dell’attività missionaria di scalabriniani, salesiani, cappuccini, pallottini e altre congregazioni, che «ancor più di ‘consoli e filantropi’, si attivarono non soltanto nell’ambito dell’associazionismo assistenziale protettivo, ma anche in relazione al superamento delle divisioni campanilistiche esistenti in quello mutualistico-ricreativo» [13], correggendo l’eccessiva frammentazione che aveva accompagnato la formazione delle varie comunità italiane.
La nascita di molte scuole parrocchiali e delle Chiese nazionali, specie nelle Americhe, favorirà una accelerazione dei processi unitari tra gli immigrati e ne aiuterà l’inserimento [14]. La religiosità popolare, specie quando ha saputo adattarsi con culti, riti e cerimonie ai contesti di adozione, pare essere stata a sua volta per gli emigranti un autentico baluardo contro incertezze, sradicamento, nostalgie, fungendo da trait d’union con il paese delle origini, le sue tradizioni, i valori di formazione e gli affetti lontani [15]. Tutti elementi, quelli presentati, che hanno avuto la funzione di una autentica mediazione culturale tra gli emigrati, le istituzioni locali e le autorità governative, dinamica che ha impedito che l’iniziale spaesamento portasse al fallimento dell’esperienza migratoria. Nuove relazioni si sono in ultima istanza intrecciate alle precedenti, per modellarle e orientarle al fine di un migliore inserimento nei paesi di adozione.
Nel secondo dopoguerra prende forma con numeri rilevanti, seppure più contenuti rispetto al primo periodo, l’emigrazione italiana in Europa. Una sfaccettatura politica distingue senz’altro l’ultimo ciclo migratorio del secolo dai precedenti, dato che si delineò da una serie di accordi intergovernativi (nel 1946 con il Belgio, nel 1947 con la Francia, nel 1948 con la Svizzera, nel 1955 con la Germania federale) nati per fronteggiare la crisi postbellica e orientare in altri Paesi, come ebbe a dire Alcide De Gasperi nel 1949, l’«esuberanza non solo di forze manovali, ma anche tecniche e professionali» [16]. Le prime partenze dall’isola riguardarono in verità manodopera scarsamente qualificata e prevalentemente maschile (miniere, edilizia, industrie), che si spostava per brevi periodi lavorativi, con contratti stagionali a termine in cui si prevedevano rientri reiterati.
All’emigrazione verso l’estero, dalla Sicilia si aggiunse dagli anni Cinquanta agli anni Novanta una massiccia migrazione interna verso il Centro e il Nord Italia, mentre proseguiva quella dalle aree interne alla zona costiera e urbana: tutti movimenti che hanno inciso in modo significativo non solo sulla demografia ma anche sul profilo socioeconomico dell’Isola.
Con i dati di cui disponiamo possiamo prendere in considerazione l’evoluzione del movimento nel comune di Giarre nell’arco temporale che va dal 1931 al 2002. Non dissimile per direzioni, tempi e modalità si è presentato lo sviluppo negli altri comuni del circondario di cui ci siamo occupati, seppure ovviamente con numeri differenti. Si tratta, va precisato, di cifre relative alle richieste ufficiali di residenza all’estero, confluite dal 1988 in AIRE, mentre poco in verità ci dicono del carattere temporaneo e stagionale degli espatri, specie di quelli diretti in Germania, carattere tipico del primo periodo del movimento.
Nel 1950 Giarre contava circa 18mila abitanti, saliti a quasi 27mila nel 2002 per incremento demografico in parte legato a nuove nascite, come pure allo spostamento di popolazione dalla campagna retrostante alla rete urbana. Nel comune sono infatti presenti tutte le scuole superiori del circondario etneo, fattore attrattivo per molte famiglie, prima dimoranti nell’area collinare e montana. Alla crescita demografica ha inoltre contribuito a partire dagli anni Settanta il flusso immigratorio, che nel 2013 farà registrare nell’area nuove presenze da oltre 56 nazioni, per lo più extraeuropee (erano 46 nel 2008).
Dei 2.202 trasferimenti ufficialmente registrati in AIRE dal 1931 al 2002 – cifre che vanno considerate comunque parziali, e dunque sottostimate specie per i Paesi europei, come si è detto – la maggior parte riguarda trasferimenti in Australia (545 unità) [17], con un movimento senza interruzione e in crescita fino agli anni Novanta (con un picco di 42 partenze nel 1993), che ne fa il paese col maggior numero di espatri nelle tabelle anagrafiche [18]. Tra le destinazioni europee è la Germania a generare un flusso che cresce rapidamente a partire dal 1961[19], con il picco di 41 registrazioni nel 1994 e un totale di 428 espatri complessivi dal comune fino al 2002. Il Paese europeo si colloca in tal modo al secondo posto nella tabella generale delle cancellazioni anagrafiche dal comune siciliano [20].
Le testimonianze presenti nel Museo di Giarre e nelle pubblicazioni del “Progetto Migranti” raccontano di partenze per la Germania tra gli anni Sessanta e Ottanta, per lo più a carattere temporaneo, seguite da rientri nel paese di origine. E di tante relazioni alle stesse correlate [21]. Elementi questi che arricchiscono la rilevazione quantitativa e le statistiche italiane disponibili.
Per meglio comprendere cosa caratterizza il nuovo flusso verso la Germania risulta così ancora una volta utile fare appello, seppure senza pretesa di definizioni generali, ad alcune testimonianze [22]. Cause della partenza, scelta della destinazione, esperienza lavorativa all’estero con successi e fallimenti, diventano nel racconto tessere del movimento del secondo Novecento dall’Isola:
Come nella “grande emigrazione” di fine Ottocento, anche questo nuovo ciclo di partenze presenta un carattere plurale, confermato dalle testimonianze sopra riportate. Chi si allontana dal paese raramente si muove da solo, in genere si associa ad altri parenti o paesani o li raggiunge al suo arrivo in Germania. I primi viaggi si fanno in treno (specie con la Freccia del Sud, ma anche con altre linee che prevedevano cambi di vettura in vari snodi di transito durante il percorso), con partenza dalla vicina stazione ferroviaria. Solo con l’acquisto dell’auto, dopo qualche anno di permanenza all’estero e i primi guadagni – acquisto che viene visto anche funzionale alla dichiarazione del nuovo status raggiunto a seguito del sacrificio dell’espatrio – le famiglie iniziano a muoversi più facilmente e per periodi più lunghi, in genere per l’intero periodo delle ferie estive. Il bagagliaio dell’auto diviene esso stesso mezzo per coltivare relazioni tra i due mondi dell’emigrante: lo si utilizza per portare oggetti per la casa in Sicilia o regali ai parenti quando si viene in paese, e poi per portare beni, soprattutto alimentari, dal paese, al rientro in Germania. Si cerca in questo modo di alleggerire il peso delle distanze, ma i ritorni all’estero rimangono sempre dolorosissimi, strazianti.
Concetto Vecchio, giornalista del quotidiano «la Repubblica», nato a Zurigo da genitori emigrati dal comune etneo di Linguaglossa e lì vissuto fino ai 14 anni, così racconta quei rientri [23], recuperando, come fotogrammi impressi nella sua memoria di bambino, le emozioni della partenza annuale dal paese per la Svizzera. In quei momenti la destinazione non faceva differenza, divenivano tutti uguali i luoghi lontani, sia per chi partiva che per chi rimaneva:
Specie per la prima e la seconda generazione di emigranti, le relazioni sono state coltivate soprattutto all’interno della comunità italiana che si era costituita nel paese di accoglienza, spesso con il sostegno delle Missioni Cattoliche che hanno tutelato e difeso gli interessi dei lavoratori, sostenendoli nel non facile inserimento scolastico dei figli (ricordato come evento inizialmente persino traumatico per i bambini), e fungendo da riferimento prezioso per le famiglie ancora in preda ad incertezze e fragilità.
I ritorni in Italia sono stati registrati sia nei periodi di recessione economica del Paese come pure nelle situazioni di difficoltà familiare, per motivi di salute o per sopraggiunto malessere a seguito di un inserimento insoddisfacente. Non tutti i rientri si sono però conclusi in modo permanente: trovare i paesi privi dei servizi, dei collegamenti e delle opportunità presenti all’estero, nonché svuotati per l’incessante emigrazione siciliana nel mondo, ha determinato nuove ripartenze per la Germania, stavolta in modo permanente. Il desiderio del ritorno definitivo in Sicilia nel tempo si è incrinato, sono diminuiti i rientri per le ferie e il tradizionale acquisto di prodotti locali, ormai presenti anche nelle città tedesche con l’incremento delle esportazioni [24].
Il reinserimento in Sicilia non è stato privo di criticità, specie se la permanenza in Germania si era protratta nel tempo. Esso è raramente avvenuto nel contesto rurale, anche se da quel mondo si era staccato l’emigrante. Eppure, le qualificazioni raggiunte col lavoro all’estero non hanno permesso di proseguire in settori simili nel luogo di rientro (perché per lo più assenti), quanto piuttosto di adattarsi più facilmente ad altra occupazione presente nell’area o di manifestare una maggiore autonomia di scelta in nuove attività.
Chi invece si è fermato all’estero, specie a partire dagli anni Novanta, ha ormai la famiglia in Germania, cresciuta con figli e nipoti, sempre meglio inseriti nel contesto socioeconomico. Negli ultimi decenni del Novecento nuovi caratteri definiscono la condizione dei siciliani in Germania: sono aumentate la presenza femminile e la stanzialità delle famiglie, risulta migliorato l’inserimento dei bambini nelle scuole come pure la mobilità lavorativa. Divenuti cittadini italiani residenti all’estero, questi emigrati hanno interrotto il ciclo delle rimesse tipico della fase “rotatoria” e stagionale [25] e hanno inciso, insieme alle nuove ripartenze e ad una fisiologica denatalità, anche sul calo demografico oggi presente in Sicilia.
Le misure istituzionali avviate in Sicilia
In un quadro complessivo di osservazione non possono essere trascurate le relazioni degli emigranti e delle loro famiglie con le Istituzioni. A seguito degli accordi intergovernativi, da cui prende forma quella che è stata definita una “emigrazione assistita”, la Regione siciliana si muove in primo luogo per combattere la piaga dell’analfabetismo, che nel 1960 faceva ancora registrare 959.505 analfabeti su una popolazione di 3.488.749 abitanti [26] (un quarto circa della popolazione). Con due leggi consecutive, la n. 13 del 1947 e la n. 63 del 1950, vengono aperte nuove scuole regionali e professionali anche in zone agricole e montane, al fine di permettere la frequenza a quanti dimoravano lontano dai centri urbani.
La nuova condizione degli emigrati di ritorno, costretti a rientri forzati per la scadenza dei contratti per lo più a tempo determinato con obbligo di rientro in Italia prima di un impiego successivo, genera a sua volta nuovi problemi, e conduce nel 1975 alla legge sui “Provvedimenti in favore dei lavoratori e delle loro famiglie”. L’anno successivo il decreto del 31 marzo introduce l’obbligo del rientro dei capitali custoditi all’estero nel periodo lavorativo con norme penalizzanti per i risparmiatori [27]. La misura viene intesa dagli emigrati come un invito a non rientrare in Italia, posizione che appare confermata nel 1985 dalle parole del presidente dell’ARS Lauricella, il quale in un incontro con gli emigrati siciliani a Chapelle, in Belgio, dichiara agli astanti che la Sicilia si trova ancora in situazione di emergenza e che risulta di conseguenza “difficile farvi ritorno” [28]. Implicitamente, si consigliava di proseguire una permanenza all’estero, sperando così di contrastare la costante disoccupazione e puntare nel contempo su nuove rimesse in grado di alimentare la bilancia dei pagamenti.
Negli stessi anni anche la Chiesa si muove per l’assistenza agli emigrati e alle loro famiglie. Paolo VI promulga il 15 agosto 1969 la Pastoralis migratorum. In Sicilia si tiene nel 1974 il convegno sull’emigrazione a Poggio S. Francesco, organizzato dall’Istituto Paolo VI di Palermo con la collaborazione dell’Ufficio emigrazioni della Conferenza episcopale italiana [29]. Nel 1985 il Convegno delle Chiese siciliane promosso dalla Conferenza Episcopale Siciliana ad Acireale si sofferma con particolare attenzione sul fenomeno dell’emigrazione e sulle sue conseguenze sociali. Nel 1986 temi e interventi verranno ripresi nel convegno “Chiesa ed emigrazione a Caltanissetta e in Sicilia nel Novecento”, promosso ed organizzato dall’Istituto Teologico pastorale “Mons. Giovanni Guttadauro” [30]. Altri importanti incontri hanno fatto seguito a queste prime iniziative negli anni successivi.
Nel frattempo prosegue all’estero l’intensa e costante attività delle Missioni cattoliche, di altri Centri di sostegno sociale di stampo laico [31] e dal 1985 anche l’impegno dei Comites, al fine di fronteggiare le problematiche presenti nelle famiglie che hanno deciso di rimanere nelle nuove destinazioni, come pure di venire incontro alle esigenze degli altri che, stavolta in modo per lo più isolato, lasciano l’isola nel nuovo millennio per maggiori opportunità personali e professionali.
Dal 2005, quando si pensava che il ciclo emigratorio si fosse ormai notevolmente ridotto, secondo alcuni addirittura esaurito, in Sicilia si delinea infatti il nuovo e significativo flusso di mobilità verso l’estero tuttora in corso, con prevalenza di giovani in formazione o già qualificati. La Germania si prospetta ancora una volta nell’isola come meta da raggiungere, ed è divenuta ormai il principale Paese di destinazione dei siciliani per gli studi, il lavoro, il futuro delle famiglie.
Come anche le testimonianze qui riportate hanno messo in luce, il cammino del soggetto in mobilità ha mantenuto tratti costanti: tra la partenza e l’arrivo, e tra l’arrivo e la decisione della permanenza o del rientro, continuano ad essere le interazioni umane, sociali, istituzionali a segnarne sviluppo ed evoluzione, a determinare decisioni e progetti di una storia certamente personale ma comunque condivisa.
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