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L’esilio come metamorfosi, identità in transito
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2025 @ 00:43 In Cultura,Letture | No Comments
di Giorgia Rubera
Tengo sangre de lemosín, árabe, castellano y murciano, y me hago por necesidad solidario de todas las atrocidades y aun crímenes que los invasores cometieron en nuestro territorio. Si usted suprime a los romanos y a los árabes, no queda de mí quizás más que las piernas; me mata usted sin querer, amigo Unamuno (Ganivet 1898).
La presente analisi esplora l’esilio come processo di metamorfosi identitaria nelle vite di alcuni poeti, artisti e intellettuali arabi. Non intende essere una riflessione sul dolore dell’esilio, quanto piuttosto si propone di esplorare l’attraversamento, il transito identitario. L’esperienza di sradicamento si configura come una trasformazione profonda dell’identità che, nel suo mutare, trova nuove forme di essere tra il dolore della separazione, la nostalgia per le radici perdute e nuove appartenenze.
La parola poetica, la scrittura, l’arte diventano uno spazio in cui l’identità si esprime non più su basi geografiche, ma su un orizzonte più vasto, quello della memoria, dell’immaginazione e della critica culturale. È proprio in questa concezione di appartenenza identitaria ibrida che oggi si può trovare una forma di resistenza alle derive identitarie nazionaliste.
In questo contesto le persone che giungono “a Lampedusa, a Tijuana o verso altri lidi” come sottolinea l’antropologo Massimo Canevacci (2024) diventano parte di un’avanguardia che sfida i confini tradizionali della cittadinanza e dell’appartenenza. Esse incarnano un nuovo paradigma politico, culturale e giuridico a cui aspirare, che va oltre lo Stato-nazione, una diversa visione che investe chiunque rifiuti di rimanere ancorato in un «territorio identitario stabile visto come oppressivo, tradizionale, inadeguato, autoritario, illiberale, patriarcale, coloniale» (Canevacci, 2024: 9-10).
Svincolare l’identità da confini rigidi e immutabili ci permette anche di riscoprire le tante radici culturali della nostra identità europea, compresa quella di Cuando Fuimos árabes (Ferrin 2018).
È nell’erranza che si disegna un’appartenenza nuova, oltre i confini, oltre ogni tentativo di irrigidire l’identità in categorie fisse e immutabili, quantomeno “alleggerendola” (Remotti 2012, 104) e rendendola più vicina all’ ibridazione e al mescolamento.
Ibn Ḥamdīs
Come la Tabula Rogeriana del geografo arabo al-Idrisi presenta una visione del mondo da un’altra prospettiva, anche questa riflessione si propone di osservare il fenomeno dell’esilio in Ibn Ḥamdīs come metamorfosi identitaria.
Ibn Ḥamdīs, Abū Muḥammad ‛Abd al-Giabbār ibn Abĭ Bakr ibn Muḥammad, poeta arabo siciliano, nasce a Siracusa intorno al 447 dell’egira islamica, (1055-1056 d. C.) e lì trascorre la sua giovinezza nel privilegio di una vita agiata nella Valle d’Anapo. La sua poesia presenta i canoni dello stile poetico arabo e una sofisticata conoscenza linguistica, ci ricorda Francesca Maria Corrao analizzando la sua vasta opera poetica (Corrao 2015).
Nell’antologia Diwan che comprende seimila versi che passano da lunghi componimenti poetici classici qaṣīda (sing.), a brevi poesie, racconta la sua Sicilia che emerge come un luogo ideale, un paradiso perduto, un mito su cui fondare la sua identità. La sua poesia è un canto nostalgico per una terra che non gli appartiene più, ma che rimane viva attraverso il ricordo.
Leonardo Sciascia nelle sue opere tornerà più volte sul poeta Ibn Ḥamdīs, in un articolo nel giornale ‘Il Pioniere’ nel 1960 scrive:
Ibn Ḥamdīs visse alla fine della dinastia dei Kalbidi in Sicilia che, divisi e in lotta crearono l’ambiente ottimale per la loro sconfitta. All’arrivo normanno in Sicilia andrà via dalla Sicilia, dalla sua casa, scriverà:
Noto rappresentò l’ultimo baluardo arabo della Sicilia, come sarebbe stato poi per Granada secoli dopo l’ultimo rifugio del governo musulmano nella penisola iberica. A quel tempo Ibn Ḥamdīs ha 24 anni, inizia così il suo esilio. La prima tappa sarà nella città di Sfax, in Tunisia, paese in cui inizia la sua metamorfosi.
È interessante osservare che, andato via dalla sua terra natale, la sua identità è già cambiata, non è più e non è ancora altro, a lui viene attribuito il nominativo di al Siqilli, Ibn Ḥamdīs al Siqilli (il siciliano).
Anche alla stessa Sicilia spetteranno vari cambi identitari nel tempo storico e nel giro di pochi secoli; la stessa identità arabo islamica [1] siciliana verrà via via cancellata dalla memoria.
Lo storico Franco Cardini ci ricorda come a partire dal Quattrocento e con maggior forza poi dal Settecento, in quello che si può definire Occidente si è costruita «una Weltanschauung fondata sul presupposto d’una sua discendenza in linea diretta e quasi esclusiva dalla cultura ellenica, a sua volta avvertita e interpretata come qualcosa di esclusivamente europeo e occidentale, distinto quindi e contrapposto rispetto all’Oriente (o agli Orienti)» (Cardini 2020: 137).
È quindi estremamente importante recuperare le storie non raccontate, nascoste e soppresse dalla narrativa dominante. Questo compito dell’antropologia e della storia è fondamentale per sfuggire al rapto de la historia in questo caso delle radici islamiche europee, operato dall’Occidente (Alcantud 2002, 2014a, 2014b, Ferrín 2018).
È interessante osservare questa figura storica in transito continuo tra luoghi che essi stessi cambiano nome e identità. Il suo esilio lo porterà poi a Siviglia alla corte del re poeta Al-Mutamid dove passerà degli anni tra poesia e nostalgia.
Al-Mutamid: Il Re-Poeta
Al Mutamid di Siviglia, il re poeta, además de poeta fue Rey y no viceversa, ci dice Miguel José Hagerty (Al-Mutamid 2006: 16) parlando di Al- Mutamid e aggiunge che Siviglia a quel tempo era talmente infusa di poesia e cultura da essere definita «una feliz y fortunata mezcla vital de poesia y pueblo, pueblo y poesia» (ibidem).
Nato in una delle epoche più floride di al-Andalus, Al-Mutamid governò una corte che divenne emblema di splendore culturale e raffinata vita intellettuale. Quando salì al trono del regno di Taifa nel 1069, Siviglia era già celebrata come la capitale poetica di al-Andalus. Qui, nel palazzo al-Mubarak, il sovrano fondò un’accademia di poeti, trasformando la sua corte, riunendo alcuni tra i più brillanti intellettuali e poeti del tempo. Tuttavia, il suo regno fu segnato dall’instabilità politica e dalla crescente pressione dei cristiani del nord.
Sconfitto dagli Almoravidi, il 7 settembre 1091, fu condannato all’esilio ad Agmat, alla periferia di Marrakech, privato del suo regno, del Real Alcázar, del Palazzo e dei giardini della Buhaira, e soprattutto della fervida vita intellettuale e artistica che aveva contribuito a sviluppare a Siviglia, Al- Mutamid non fu però privato della poesia. Visse anche lui l’esilio trascorrendo gli ultimi anni della sua vita in prigione, scrivendo versi pieni di dolore e nostalgia. Nei suoi versi si alternano il ricordo dello splendore culturale di Siviglia e l’amarezza per la condizione di esiliato, costretto a vivere lontano da tutto ciò che un tempo aveva definito la sua identità. Scrive Al- Mutamid in dei versi dedicati ad Ibn Ḥamdīs:
To me, nothing more painful and paradoxically sought after characterizes my life than the many displacements from countries, cities,abodes, languages, environments that have kept me in motion all these years (Said 2000: 184) [3].
Lamentando la sua vita in esilio, il senso di sradicamento e l’ambiguità identitaria che ha vissuto fin dall’inizio della sua vita, Edward Said, nelle ultime pagine della sua autobiografia, scrive che infine si rende conto di aver sperimentato una trasformazione, di percepire cioè la sua identità non statica, per cui si trova a vivere l’esperienza di essere attraversato da un ammasso di correnti fluide, in movimento continuo, destabilizzanti a volte, contraddittorie. Said abbraccia la condizione di essere out of place, fuori posto.
Quella di Edward Said effettivamente è stata una vita in costante cambiamento. Nasce a Gerusalemme da genitori palestinesi cristiani protestanti, nel 1948, dopo la proclamazione dello Stato di Israele, la sua famiglia viene espropriata di tutti i beni, inizia la sua militanza per la causa palestinese, per la soluzione “due Popoli due Stati”, diventa rifugiato politico. Said cresce tra Egitto e Libano prima di trasferirsi negli Stati Uniti. Il padre, durante la Prima guerra mondiale si era arruolato nell’esercito americano ottenendo la cittadinanza statunitense, cambiando nome e identità e così tutta la famiglia.
Lo stesso nome, dunque, segna sin dalla sua nascita quella che sarà un’identità in between. Edward, infatti, nome tipicamente inglese convive in lui accanto ad un cognome “inequivocabilmente arabo” (Said 2023: 17), dalla sua infanzia è un’identità ibrida quella che si trova a vivere.
Questa situazione di displaced in Said diventa importante spazio di osservazione critica. Compito dell’Intellettuale in esilio per lui è proprio la critica, data la posizione privilegiata di essere in between (Said 2008). Per Said ogni tentativo di recuperare un’origine perduta deve passare attraverso la consapevolezza della sua inevitabile trasformazione.
Dalla stessa situazione di esilio e di metamorfosi identitaria ci parla un altro poeta esule strappato dalla sua terra, Mahmoud Darwish. Durante la Nakba nel 1948 con la sua famiglia in fuga dalla guerra trova rifugio temporaneo in Libano. Al loro ritorno, appena un anno dopo, scoprono che il villaggio natale era stato raso al suolo e la loro terra d’origine era ormai parte dello Stato di Israele. Quel ritorno segna per Mahmoud Darwish e per ogni palestinese la condizione lacerante di sentirsi straniero nella propria terra, un “illegale”.
I suoi versi in Man anā dũn manfà , Chi sono io senza esilio? ci aiutano ad osservare in profondità quello che è il nucleo di questa riflessione:
Chi sono io senza esilio? Questi versi ci riportano al discorso iniziale, all’identità e al transito e a Ibn Ḥamdīs: l’arrivo dei berberi Almorávidi nel 484 egira (1091) sancì la fine di quel periodo dorato in Andalusia e il suo esilio incontrò una nuova tappa presso la corte degli Zīriti ad al-Mahdiyyah in Tunisia dove visse come poeta di corte degli ultimi quattro principi ziridi.
Ma chi era a quel punto al Siquilli? Era ormai anche un po’ Andalusí, si accingeva a tornare in Tunisia e a entrare in contatto con un’altra parte del Mediterraneo islamico medievale. Se fosse tornato in Sicilia la sua identità sarebbe stata differente, mutata. La Sicilia è nelle sue poesie un mito, la radice della sua identità, ma chi sarebbe stato lui senza l’esilio? Cosa la sua poesia?
La vicenda di questi poeti esuli solleva interrogativi profondi sull’identità. Cosa significa essere “di Sicilia” o “di un altro posto” se si è in esilio?
Considerando che l’identità non è mai statica né monolitica, ma un costante processo dinamico, in divenire, l’identità dell’esiliato è quindi diasporica, mai completamente radicata in un luogo, ma caratterizzata da un senso di appartenenza multipla e spesso contraddittoria. Le culture della diaspora rimangono in between tra mondi, vivono in un luogo ricordandone un altro, sono sincretiche.
Su questo tema tanto vasto da non poter essere trattato oltre in questa sede, riprendo i versi visionari della scrittrice e artista libanese Etel Adnan che ritornano sul trauma della guerra e dell’esilio. Con una scrittura visionaria in cui versi, segni, dipinti dialogano insieme come “altre lingue” tra le mille lingue che l’attraversano, Etel Adan è una figura straordinaria, in cui spiritualità e impegno politico si fondono.
“Mi sento in esilio?” si chiede nel suo testo To Write in a Foreign Language (Adnan 1984), risponde
“Sì, mi sento esiliata? è una condizione talmente antica che fa parte della mia stessa natura [5].
Etel Adnan nasce a Beirut nel 1925 da padre arabo di Damasco e da madre greca di Smirne, la sua città natale non smise mai di abitare i suoi pensieri, insieme ai resti della perduta casa della sua giovinezza. Utilizza testo, simboli grafici, pittura accostando immagini oniriche di raffinata poesia a forti immagini di denuncia della violenza della guerra, del colonialismo e del neoimperialismo.
La sua lotta per i diritti del popolo palestinese permea il suo lavoro in modo potente.
Nel 2002, dopo la battaglia, l’occupazione e il massacro di Jenin, in Cisgiordania, Etel Adnan scrive un testo poetico di straordinaria e struggente intensità e attualità:
Conclusioni
Queste esistenze in transito ci offrono una lente preziosa da cui osservare il presente. In un’epoca come la nostra, segnata da migrazioni e guerre, la prospettiva culturale con cui osservare l’identità è costitutivamente ibrida, essendo naturaliter plurale, dinamica e fluida. Celebrando patrie immaginarie Salman Rushdie (Rushdie 1991) esalta l’ibrido, la trasformazione che nasce dalla combinazione di esseri, idee e culture differenti. Nell’atto stesso di trasformarsi, l’identità non perde la propria essenza, ma si arricchisce, muta. Nel transito del tempo e nello svelamento delle narrazioni le stesse categorie, Oriente/Occidente, nativo/emigrante, si dissolvono, sfumano i loro confini. Osservare l’arabo siciliano Ibn Ḥamdīs ci aiuta inoltre a riflettere sulle categorie Occidente e Oriente, anch’esse inventate, dicotomiche. Occorre ripensare lo stesso punto di vista monolitico con il quale sono state definite: «è problematico sostenere l’esistenza effettiva di un identità occidentale, il proporre l’alterità rispetto a una orientale […] poche nozioni sono infatti più infide e scivolose di quella di Occidente» (Cardini 1994: 13).
In Orientalism (1978) Edward Said analizza il modo in cui l’Occidente ha costruito l’identità dell’Oriente attraverso un discorso coloniale che lo rappresentava come “altro”, l’esotico, l’irrazionale, l’inferiore. Un meccanismo di rappresentazione in cui l’Occidente si definisce come razionale, moderno e superiore contrapponendosi a un Oriente immaginario, primitivo, passivo e decadente. Questa narrazione per Said è servita a giustificare il colonialismo ed è stata veicolata attraverso la politica ma anche attraverso la letteratura e l’arte, creando e consolidando stereotipi che ancora oggi influenzano la percezione dell’Oriente (Said 1999).
Le poesie di Ibn Ḥamdīs il siciliano, Al Mutamid l’andaluso, la nomade Etel Adnan che si specchia nella Spagna islamica per ritrovare la memoria del passato (Adnan 1993: 56 ) ci ricordano che le radici dell’Europa sono anche collegate alla cultura islamica. Si pensi al contributo delle corti andaluse e siciliane nella trasmissione del sapere greco-arabo-latino, che fu fondamentale per lo sviluppo del pensiero rinascimentale. E come ci ricorda Francesco Gabrieli:
Nell’apertura del volume Pirandello e la Sicilia Sciascia riprende le idee dello storico Americo Castro e scrive: «indubbiamente gli abitanti dell’isola di Sicilia cominciano a comportarsi da siciliani solo dopo la conquista araba (come d’altra parte gli abitanti della Spagna)» (Sciascia 1996: 13).
Leonardo Sciascia si fa portavoce del recupero dell’eredità del mondo siculo islamico arabo e denuncia la perdita nei discorsi identitari europei di queste radici.
Questa necessità di recupero dell’eredità islamica e del senso plurale dell’identità, oggi la ritroviamo espressa proprio nell’arte, in moltissime opere di artisti, per citarne solo alcuni: Franco Battiato che nel 2011 mise in musica alcune opere del Diwan di Ibn Ḥamdīs in L’essenza del reale per i festeggiamenti dei 150 anni dell’Unità d’Italia per ricordare la ricchezza delle sue radici culturali, o nelle musiche dei Milagro Acustico o in tutta la musica di Enrique Morente y La Orquesta Chekara Andalusí, dell’ Ensemble Ibn Arabi, Eduardo Paniagua, Omar Metioui & Mohamed Mehdi Temsamani per la musica arabo-andalusa, Jose Heredia Maya arabo-flamenca in Spagna o nel recupero delle radici arabo-andaluse nei pittori come Ana Crespo, Hashim Cabrera, Ligia Unanue.
E in questi tempi dove i venti nazionalisti e imperialisti ricominciano a soffiare in tutto il mondo è quanto mai importante denunciare le manipolazioni alla base delle narrazioni dominanti, riconoscere la dignità di ogni identità in esilio, in transito e sostenere il diritto ad una nuova cittadinanza e il diritto alla libertà di movimento per tutti.
É fondamentale sottolineare che il fulcro del gioco del consenso politico nazionalista e imperialista contemporaneo risiede nella disumanizzazione dell’Altro: del migrante, del rifugiato, dell’esiliato.
Concludo con quello che potremmo definire il Manifesto della nuova antropologia politica, nel concetto sviluppato dall’antropologo Massimo Canevacci che auspica un inedito diritto costituzionale cosmopolita, quando descrive il suo discorso sul soggetto diasporico.
È proprio in questa concezione di appartenenza fluida e inclusiva che si può intravedere una possibile resistenza alle derive identitarie nazionaliste e imperialiste.
Un senso di appartenenza che non si radica nella fissità di confini culturali o geografici, ma che si nutre della molteplicità, dell’incontro e della trasformazione. In questo spazio di transizione l’identità non entità monolitica acquisita alla nascita è di fatto un processo in divenire, aperto alla contaminazione e al cambiamento, alla crescita e allo sviluppo di un uomo nuovo che appartiene, come dice il filosofo e critico culturale Homi Bhabha, a una grande storia di cui tutti facciamo parte.
E come l’identità per l’uomo, per un popolo è l’idea di nazione che si configura come una narrazione. Le origini delle nazioni, proprio come quelle delle narrazioni, si perdono nel mito e i loro confini esistono solo nella fantasia come ci ricorda Homi Bhabha (Bhabha 2020). La nazione è il racconto di una collettività che sceglie un’origine storica a cui far risalire la narrazione dell’appartenenza originaria. Ma il confine è in continuo movimento, sposta le frontiere della narrazione sulle nazioni.
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