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Lo specchio intelligente del mondo. Fotografare per curare
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2016 @ 01:03 In Cultura,Società | No Comments
di Cinzia Costa
Osservare e cercare di codificare il mondo che ci circonda è un’operazione che, per quanto connaturata alla specie umana, poiché diffusa universalmente, è tutto fuorché un’attività naturale; essa si traduce, infatti, in quei processi ormai ampiamente noti che riguardano la costruzione di paradigmi culturali che servono agli individui per orientarsi nei luoghi fisici e concettuali che abitano. La svolta post-modernista che, nella prima metà del Novecento, ha travolto le scienze umane (e non solo), ha ampiamente indagato i processi epistemologici che hanno portato alla costruzione di saperi e conoscenze fino ad allora stimati veritieri poiché prodotto della Scienza, intesa quest’ultima come un’entità sé movente in grado di autoprodursi indipendentemente dall’uomo e dalle dinamiche di potere che distinguevano, tra gli uomini, i produttori dai fruitori del sapere. Come è noto quasi tutta la celebre produzione letteraria di Michel Foucault aveva proprio l’intento di scardinare queste dinamiche e di indagare quale fosse l’archeologia epistemologica del sapere e quali i canali attraverso cui la conoscenza veniva diffusa all’interno delle società. La Scienza diventava dunque il prodotto di processi e dinamiche di potere fortemente violente e tutt’altro che innocue, piuttosto che l’origine di queste ultime. Sulla stessa scia sono gli studi di carattere post-coloniale e post-moderno che hanno preso le mosse da Clifford e Marcus, con Writing cultures negli anni 80 del Novecento.
Per quanto questi elementi possano apparire oggi come fortemente indagati e riconosciuti in tutti i campi di studio, in particolar modo delle scienze umane, i processi attraverso cui la collettività si appropria delle informazioni e del sapere appaiono ancora oggi fortemente vincolati a fortissime dinamiche di potere. L’illusione di essere in possesso di una completezza di informazioni relativamente al mondo in cui viviamo, derivante principalmente dall’utilizzo costante di internet e dei social media per acquisire o condividere informazioni, cela spesso il fatto che i mezzi da noi utilizzati nella quotidianità non sono affatto neutri; piattaforme come quelle dei social network più diffusi sono infatti aziende multinazionali come molte altre, mosse da interessi finanziari e politici di non poco conto [1].
Questa illusione di democrazia è una delle caratteristiche dell’era digitale; un’altra peculiarità dell’era contemporanea è quella che ha visto diffondersi in maniera capillare l’utilizzo della fotografia come mezzo di comunicazione a tutti i livelli sociali: oggi, a differenza del passato, tutti sono in possesso di una macchina fotografica, o, comunque di un dispositivo digitale con fotocamera integrata. Eludendo la necessità di possedere particolari capacità tecniche, la diffusione del digitale, ed in particolare di dispositivi come smartphone o tablet, ha fatto sì che la fotografia acquisisse nuove forme, nella sua consistenza materiale e semantica. Fotografare è un nuovo modo di comunicare, entrato a far parte prepotentemente del nostro linguaggio pubblico e privato. Non è necessario qui rimarcare che la proliferazione quantitativa di produzione fotografica non corrisponde in alcun modo all’innalzamento della qualità, anzi, con un bassissimo margine di dubbio si può affermare che la quantità di immagini sia inversamente proporzionale alla loro qualità. Tuttavia, se per fotografo intendiamo colui che produce un’immagine per comunicare un messaggio, di qualsiasi genere, allora, come sostiene Ali Sayed-Ali (2016: 91), «nell’era dei social media, dove 1,8 miliardi di foto al giorno vengono caricate e condivise, tutti noi siamo fotografi».
Rimanendo su questo piano, ciò su cui sarà estremamente interessante riflettere è la portata semantica e il valore del cambiamento di fruizione della fotografia nel nostro quotidiano e, ancora di più, su che tipo di uso pragmatico e sociale, e non più meramente estetico, è possibile fare delle immagini, senza che un mezzo così potenzialmente dirompente perda significato nell’oceano di figure, icone e visioni che continuamente vengono prodotte e condivise. Bisogna dunque chiedersi quale possa essere lo «spessore referenziale delle immagini» (Faeta, 2006: 62) che continuamente scattiamo, condividiamo, postiamo.
A questo proposito torna utile una interessante riflessione proposta da Francesco Faeta (2006) in merito ai possibili usi che della fotografia si possono fare nell’ambito degli studi antropologici e sociologici. Partendo dalla considerazione che la fotografia non è né solamente una tecnica, un linguaggio o un’arte, ma tutte e tre le cose insieme, l’autore propone tre possibili quadri analitici della fotografia all’interno della ricerca umanistica: il quadro archivistico, quello vernacolare e quello creativo (Faeta, 2006: 63). Mentre il terzo scenario, quello creativo, si configura come campo prettamente interno agli studi, poiché si riferisce a quella produzione fotografica concepita e nata all’interno degli stessi ambiti di ricerca (si tratterebbe infatti delle fotografie scattate direttamente dall’antropologo sul campo, con lo scopo di raccogliere documentazione per i propri studi), gli altri due scenari, quello archivistico e quello vernacolare, costituiscono due bacini di produzione autonoma ed esterna alle discipline, ma che rappresentano una importantissima fonte di analisi. La fotografia può avere dunque l’oneroso compito di assurgere a “specchio intelligente” del mondo, come Faeta la definisce.
L’utilizzo archivistico delle fotografie ha una grande rilevanza anche negli studi di tipo filologico, storico e sociologico, e Faeta lo descrive menzionando un particolare tipo di fonte fotografica, quella di autore colto, professionista o comunque ben identificato, risalente generalmente ad un passato, remoto o prossimo che sia, e munita di un apparato didascalico che ne identifichi il soggetto e le circostanze.
Il profilo vernacolare della fotografia è quello che, a mio avviso, acquisisce oggi particolare rilievo, poiché si riferisce a tutta quella produzione di immagini che un tempo afferivano alla sfera privata dei soggetti, sfera che oggi, in seguito alla diffusione dei social media, non può più essere definita tale. Grande interesse acquisisce in questo senso l’investigazione del valore semantico di queste fotografie, quale sia il linguaggio utilizzato e quali i messaggi che i soggetti intendono comunicare immortalando quella precisa circostanza. Cercare di porre l’attenzione in particolare su questi ultimi due aspetti legati alla fotografia
Questi sono i presupposti teorici che hanno portato il 22 ottobre 2016 alla realizzazione di un evento di grande interesse a Palermo e in altre sei città del Mediterraneo (e non solo). L’evento, che ha preso il nome di Visioni (Di)Visioni [2], è stato organizzato dalla neonata associazione Enzima [3] in coordinamento con altre sei associazioni di altrettante città, di cui la capofila è stata l’organizzazione FRAME [4] che ha base a Beirut, in Libano. Le altre città coinvolte sono state Napoli, Algeri, Marsiglia, Lubiana e Amman, insieme, appunto a Beirut e Palermo. La manifestazione, svoltasi simultaneamente in tutte le città, ha previsto il coinvolgimento di centinaia di persone che, munite di qualsiasi tipo di dispositivo fotografico digitale, hanno attraversato le strade delle proprie città e le hanno immortalate in alcuni scatti, per la precisione 12 scatti ciascuno, su 12 temi proposti dai promotori dell’evento, tutti inerenti all’ambito delle migrazioni e del patrimonio.
La giornata, strutturata come una vera e propria maratona fotografica, si è svolta con una organizzazione parallela e similare in tutte le città: i partecipanti si sono incontrati la mattina del 22 ottobre in un luogo prefissato, hanno effettuato la propria registrazione sulla piattaforma di FRAME (nel caso in cui non l’avessero fatto preliminarmente), inserendo il proprio account personale, e hanno ricevuto i primi quattro temi della giornata; nel corso delle ore successive i fotografi si sono presentati a dei checkpoint dove hanno caricato sul portale le foto scattate (una per tema) e hanno ricevuto i temi successivi. Durante la giornata, così, la piattaforma digitale è andata man mano riempiendosi di fotografie provenienti da tutto il Mediterraneo.
L’obiettivo di questa campagna fotografica era infatti quello di creare un grande archivio collettivo all’interno del quale riversare centinaia di immagini che documentassero la vita quotidiana in sette città diverse. Ciò che ha portato a questa mobilitazione inter e trans-nazionale è stata la volontà di promuovere la documentazione attiva dal basso, per questo motivo la partecipazione era libera e aperta a tutti coloro che avessero voglia di condividere la propria prospettiva e percezione della realtà in cui vivono, a prescindere dalle proprie capacità tecniche o disponibilità nei mezzi. All are welcome. Sono stati infatti ben accolti fotografi sia professionisti che amatoriali, alcuni dei quali hanno partecipato esclusivamente con il proprio smartphone. La sfida comune di tutti i partecipanti è stata dunque quella di usare la documentazione fotografica collettiva per creare un dialogo pubblico e per produrre conoscenza e comprensione tra diverse comunità, oltre qualsiasi tipo di frontiera, geopolitica o culturale. «Usando il potenziale del cyberspazio, il progetto Photo Marathon ha creato una immaginaria stanza virtuale sospesa al centro del Mediterraneo» (Cirillo, Corbi, 2016: 31), capace di contenere visioni spesso affini, ma anche fortemente divergenti su temi condivisi.
Il motore principale di tutta l’iniziativa è dunque la necessità di costruire nuove narrazioni fuori dalle grandi cornici all’interno delle quali le nostre città e i fenomeni che le movimentano vengono generalmente raccontati: tutti possiamo essere documentaristi e anche noi abbiamo il potere di creare e diffondere i media; in questo senso la scelta delle tematiche “ombrello”, quali patrimonio e migrazioni, hanno un valore particolarmente significativo, poiché entrambi i fenomeni attraversano capillarmente le nostre comunità e sono spesso sottoposti ad una violenza narrativa che ha le sue origini in ambienti molto lontani dalle strade che tutti i giorni percorriamo e abitiamo [5]. Le migrazioni e il patrimonio sono stati proposti come chiavi di lettura e prospettive da cui osservare i temi, invece, più specifici, selezionati da un range di proposte di tutte le organizzazioni partner che hanno collaborato con Frame alla preparazione dell’evento. I temi scelti per le fotografie, sono stati: morning, intersection, work, language, pattern, diaspora, foreignflavors, saudade, hero, someone’sdream, waiting, nationalism.
L’associazione Enzima, che nasce proprio con l’intento di stimolare la partecipazione attiva della comunità locale, di analizzare in prospettiva sincronica e diacronica la situazione del territorio palermitano e di promuovere opportunità di integrazione per i giovani, autoctoni e non, nel tessuto urbano e nella vita culturale, ha organizzato l’iniziativa a Palermo, città che si presta particolarmente bene a questo tipo di operazioni emotivamente sensibili. In un momento storico come quello che stiamo vivendo appare come necessità primaria quella di creare connessioni con aree «geograficamente molto lontane, ma culturalmente molto vicine» [6] e di coinvolgere attivamente in questo processo la cittadinanza. Le domande che si sono posti gli organizzatori locali sono state: quali sono le somiglianze e quali le divergenze tra le città coinvolte? Cosa sono veramente le migrazioni e il patrimonio, e qual è la percezione che di questi fenomeni ha chi effettivamente li vive tutti giorni per le strade della propria città?
In questi termini la fotografia offre un punto di osservazione privilegiato, in quanto il fotografo che scatta un’istantanea sta immortalando un luogo e un contesto all’interno del quale egli stesso si trova. Il nostro corpo rientra nella direzionalità delle immagini, creando una triangolazione fatta di tre elementi: l’immagine, il mezzo e il corpo (cfr. Belting, 2001). Il coinvolgimento diretto dell’autore nell’immagine che sta scattando porta ancora una volta a riflettere sulla relazione dialettica che intercorre tra «mezzo, occhio e realtà» (Faeta, 2006: 63) e spinge a leggere l’immagine come un testo, ad esaminarla dal punto di vista epistemologico e a decostruirla.
Al di fuori da certe retoriche economiche e politiche, che plasmano e plagiano generalmente il discorso pubblico, filtrato da quei dispositivi di potere che Foucault ha reso ormai molto noti, come vivono Palermo e le sue contraddizioni i cittadini che la abitano? Interessante sarebbe inoltre capire se anche le nostre visioni sono plasmate dalla Mano Invisibile della comunicazione di massa che produce i soggetti e, qualora così fosse, confrontare le nostre percezioni eurocentriche con quelle delle altre città coinvolte [7]. La possibilità di decostruire la retorica che ammanta il mondo circostante, e le nostre stesse identità, spesso conformate su modelli e ideali etnocentrici, diventa concreta nel momento in cui ci troviamo ad osservare la realtà da un’altra prospettiva, e in questo l’iniziativa della Photo Marathon ha un impatto diretto e prorompente. «Crediamo che questo tipo di azione di archiviazione collettiva e collaborativa possa ridisegnare identità e confini, soggettività e alleanze, ideologie e geografie» (FRAME Life) e proprio per questo motivo la giornata del 22 ottobre è stata pensata per essere il punto di partenza di un ampio dibattito che si spera di alimentare con l’organizzazione di mostre, conferenze e pubblicazioni di diverso genere. L’archivio deve essere una grande fonte di riflessione che non può esaurirsi in una sola iniziativa.
A titolo puramente esemplificativo mi piacerebbe dunque qui proporre una breve parentesi comparativa su alcuni dei temi che sono emersi nel corso dell’evento Visioni (Di)Visioni e sulle affinità o divergenze che sono venute a galla attraverso le fotografie. La dissonanza e/o consonanza è stata particolarmente significativa rispetto ad alcuni temi di maggiore rilevanza sociale e politica, come “Diaspora” e “Nazionalismo”, ma non sono mancati importanti spunti di riflessione, tutto fuorché banali, anche rispetto ad altri soggetti, come “Eroe”, “Sapori stranieri” o “Intersezioni”.
Di grande interesse risulta la differente prospettiva con cui i partecipanti delle diverse regioni hanno deciso di rappresentare la Diaspora: la presenza di volti con tratti somatici tra i più variegati è un connotato comune a moltissime delle foto: sub-sahariani principalmente in Italia e Algeria, siriani in Libano, algerini a Marsiglia, etc. Ma anche passaporti (uno jugoslavo, uno ucraino) e fotografie di campi di accoglienza in Giordania e Francia. La rappresentazione del Nazionalismo vede, invece, accanto a ritratti di simboli classici delle nazioni, bandiere, monete, statue o ritratti di sovrani, le immagini di conflitti sociali, espressioni di xenofobia e violenza: è il caso della scritta “Stop Islam” o “Sloveni alle armi” a Lubiana, manifesti di contestazione alla classe governante italiana a Napoli e Palermo, forze dell’ordine e uomini che indossano la kefiah in Giordania. La rappresentazione diffusa del nazionalismo come un paradigma che porta con sé anche espressioni di forte violenza, connesse spesso alla sicurezza e alla paura dello straniero soprattutto in Europa, rimanda ad un clima, quello che stiamo oggi vivendo, di forte tensione sociale, a tutte le latitudini.
Il tema dell’eroe ha riscontrato, per esempio, molte similitudini nella rappresentazione di persone comuni, occupate in mestieri generalmente considerati umili, o nobili, come i vigili del fuoco, immortalati in diversi scatti, ma anche eroi locali, come Diego Armano Maradona o Eduardo De Filippo a Napoli, le vittime di mafia a Palermo, e Papa Francesco o Gesù in diverse città; ma l’iconografia più diffusa e comune, relativamente a questo tema, è stata quella che collegava l’immagine dell’eroe a quella di genitori. Molte sono le fotografie, in tutte e sette le città, che ritraggono padri soprattutto, ma anche madri, passeggiare o giocare con i propri figli.
Un altro tema per il quale i soggetti principalmente ritratti sono stati i bambini è stato quello relativo ai “Sogni altrui”. Sono moltissimi gli scatti che vedono bambini impegnati a giocare, a simulare azioni da adulti, a desiderare un giocattolo o un dolciume esposto su un banco di vendita. Questa rappresentazione comune trovo che rimarchi un aspetto probabilmente condiviso in tutte le società: la fiducia riposta nelle generazioni future. Un’altra costante emersa in modo significativo è stata la scelta di rappresentare il tema “Intersezioni” come interrelazione fra persone, simili o diverse, soprattutto per etnia; questo tipo di iconografia è stata utilizzata da molti dei fotografi che hanno partecipato e indica, a mio avviso, la essenziale e primaria funzione che le relazioni umane hanno in tutte le società [8].
Questi sono solo alcuni esempi che è possibile individuare a seguito di una analisi piuttosto sommaria, ma l’archivio che è stato creato è una fonte inesauribile di spunti di riflessione e possibilità di analisi comparative. Tutto ciò ci ricorda ancora una volta l’importanza della polifonia e della spinta dal basso in tutti i processi politici e sociali, a cui appartiene anche la ricerca scientifica, che fuori d’Accademia, può trovare nuova linfa vitale.
In un contributo apparso sul National Geographic dell’aprile 2016, Franco Arminio, poeta e paesologo campano, assimila il guardare ad una cura: camminare per le strade, osservare, andare in giro e guardare come cambiano città e paesi sono atti rivoluzionari. Sposando pienamente questa prospettiva, l’osservazione e la fotografia, mezzo di comunicazione che scavalca il linguaggio verbale per mettere al primo posto le percezioni, diventano strumenti di riflessione epistemologica imprescindibili, una vera e propria azione terapeutica per la salute delle nostre comunità, oltre tutti i confini.
L’edizione palermitana dell’evento, cui mi è stato possibile partecipare in prima persona da dietro le quinte può vantare almeno due aspetti positivi nel suo bilancio finale. Il primo è relativo al fatto che, grazie alla collaborazione con alcune operatrici di comunità, è stato possibile mobilitare nell’iniziativa un gruppo di minori stranieri non accompagnati che, seppure con un livello di coinvolgimento differente rispetto ai partecipanti palermitani, si sono dimostrati interessati e hanno avuto la possibilità di osservare la città che li ospita da una prospettiva diversa, visitando luoghi e percorrendo strade spesso a loro preclusi a causa della dislocazione periferica della comunità che li ospita. La loro partecipazione è stata motivo di grande entusiasmo per i promotori dell’associazione Enzima che hanno avuto così anche l’occasione di interrogarsi sul modo in cui alcuni migranti vivono Palermo. La riscoperta della città, tuttavia, non è un elemento che ha coinvolto solo i partecipanti “stranieri”, ma anche gli autoctoni. Una parte dei fotografi palermitani si è infatti detta entusiasta per aver avuto la possibilità di guardare nuovamente alla propria città fuori dagli schemi che la quotidianità generalmente offre. Si aggiunga che Palermo può vantare il merito di avere contribuito alla edificazione di un archivio collettivo che offrirà grandi spunti di riflessione, forse, terapeutica.
Le fotografie sono tutte visionabili sul sito www.frame.life .
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