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Maschere tardobarocche e “Pathosformeln”
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2020 @ 02:01 In Cultura,Società | No Comments
di Mariachiara Modica
Il repertorio iconografico dei mascheroni reggi-balcone che impreziosiscono le facciate dei palazzi tardobarocchi iblei evocano nostalgici ricordi di acroteri, antefisse e maschere teatrali, di grottesche e bestiari medievali. Un universo segnico alquanto complesso, sicuramente scaturito dal fortunato incontro tra la biblioteca dell’architetto cosmopolita del Seicento e del Settecento e le maestranze locali di intagliatori e scultori. In quest’epoca numerosi sono i trattati teorici e pratici, che circolano in Europa e nel Mediterraneo, destinati alla pratica di cantiere; essi testimoniano la diffusione di un repertorio iconografico alquanto variegato (Montana, 2008).
Rintracciarne le matrici culturali e indagare la loro semantica è materia alquanto complessa, poiché le decorazioni dei palazzi nobiliari, rispetto alle grandi opere di architettura religiosa sono frutto di commissioni private che implicano canali secondari, meno ufficiali, nelle scelte stilistiche e tematiche. Tuttavia, tali scelte iconografiche, pur rispondendo al gusto personale dei committenti, sono, in una certa misura, sintomatiche dello spirito di un’epoca.
Percorrendo l’intreccio di vie e viuzze che costituisce il tessuto medievale di Ragusa Ibla, ci s’imbatte nell’imponente presenza tardobarocca di chiese e palazzi, pubblici e privati, i cui apparati decorativi intessono un rapporto tutt’altro che secondario con lo spazio circostante e con la storia (e le storie) di chi quegli spazi li vive (e li ha vissuti). Partendo da questa riflessione, si proporrà di riprendere un discorso transdisciplinare, già proficuamente intrapreso (Montana, 2008), per riflettere sulla funzione mitopoietica delle maschere di pietra, evocatrici di quel passato interrotto bruscamente dal terremoto del 1693 che coinvolse il Val di Noto, seguendo le suggestioni del processo critico intrapreso da Aby Warburg sul Nachleben der Antike «la sopravvivenza dell’antico» [1].
Osservando i mascheroni tardobarocchi iblei, sembra difficile credere, nonostante l’assenza di documenti che attestino con certezza il repertorio figurativo dal quale si attinse, che essi nascessero per un mero intento strutturale, di reggi balcone, appunto, bloccati in una silenziosa funzione decorativa. In realtà, il balcone sorretto da mensole antropomorfe e zoomorfe, si manifesta già per la prima volta tra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, come negli esempi di Palazzolo Acreide, Caltagirone e Caltanissetta, per poi imporsi nell’architettura civile post terremoto (Piazza, 2009). Ed è proprio con la ricostruzione post terremoto che la facciata dei palazzi nobiliari si anima con decorazioni scultoree che celebrano l’attitudine siciliana a voler vivere la vita all’aperto, con tutta la collettività; la facciata arricchita da immagini femminili, infantili, caricaturali o mostruose dalla forte plasticità, si trasformano in vere e proprie quinte teatrali (Boscarino, 1981).
La denominazione comunemente adottata per la descrizione dei balconi figurati di Ragusa fa riferimento al personaggio o personaggi centrali (Spadola 1982). I cosiddetti balconi dei “Cherubini” e del “Telamone” di Palazzo La Rocca hanno degli evidenti riferimenti classicheggianti: il telamone, in particolare, ricorda, in proporzioni ridotte, le grandi colonne antropomorfe di certi templi greci. L’unico a presentare un registro binato con un apparato iconografico più complesso è il balcone del “Bel Cavaliere” con i suoi due sgherri; ogni mensola ha un personaggio in alto in dialogo con una mascherone corrispondente in basso. Personaggio e maschera dai tratti caricaturali e fito-zoomorfi si ritrovano anche in ognuno dei balconi di Palazzo Cosentini, costruito approssimativamente negli stessi anni del Palazzo la Rocca, nella seconda metà del XVIII secolo. Anche in questo caso dei capimastri non si hanno fonti certe, ma tra i nomi dell’epoca spiccano i Cultraro (Nifosì 1985). Nei balconi “della Maldicenza”, “del Benessere” e “del Gentiluomo” si ricorre nuovamente alla rappresentazione di alcuni personaggi stereotipati del tempo: il musicante, il mendicante e il nobile, l’occhialuto astrolabico. Quest’ultimo è l’intellettuale saccente, l’astrologo, che a furia di scrutare gli astri diventa cieco.
Il tema dello sguardo è centrale: tutti i personaggi in scena hanno direttrici visuali diverse, c’è chi guarda verso il basso i viandanti che provengono da destra, chi quelli che provengono da sinistra, e chi, ancora, guarda in alto, verso gli edifici religiosi. La memoria pagana si rivela anche nelle figure femminili dalle forme abbondanti, con seni scoperti, con cornucopia – simboli di prosperità – e soprattutto nei volti caricaturali, mostruosi e ghignanti, ricoperti di fogliami, metà uomini e metà animali, che sintetizzano nei tratti del volto vizi e virtù, rievocando il monito moralizzante dei bestiari medievali e le immagini dell’Iconologia di Cesare Ripa.
Inequivocabile è anche il richiamo alle maschere fittili teatrali, ai riti dionisiaci, sublimati nella tragedia greca, che – ricorda Nietzsche – mettevano in scena l’orrore, il grottesco e l’invettiva, nonché «la forza apotropaica dell’osceno e del deforme» (Montana, 2008: 9). Nell’antichità la deformità trovava spazio nella finzione scenica, nel teatro, oppure era relegata ad una dimensione magica, “semi-animalesca” o “semi-divina” (Pisani, 2016). D’altra parte non poteva essere altrimenti nella Grecia antica, soprattutto quella del periodo classico, ancorata all’ideale del kalos kai agathos (Bourriot, 1995), l’equivalenza tra bellezza e bontà, concetto che ritroverà la sua ragion d’essere nella physiognomica, che ebbe molto seguito nella ritrattistica romana e nella cultura occidentale dei secoli successivi.
Anche Umberto Eco (1985: 61-65) ci ricorda che la fisiognomica è una scienza (poco scientifica) molto antica:
La deformità di certi volti in pietra della Sicilia sud-orientale fu sicuramente un modo per combattere la forza dirompente del sisma attraverso antiche pratiche pagane dagli intenti apotropaici. In effetti, c’è una matrice mitologica che parrebbe poter giustificare una tale ricorrenza iconografica: in Sicilia sopravvive la fittile Gorgone Medusa dell’Athenaion di Siracusa. Medusa è il mostro per antonomasia, è trasformato in pietra dal riflesso dello scudo di Atena, dea che protegge la Sicilia dai terremoti perché, nella lotta per il possesso dell’Attica, riesce a sconfiggere Poseidon, dio del mare, anche noto come “scotitor di terra”. Quindi, per una trasposizione di intenti, rappresentare Medusa – e le sue varianti – era un modo per ricordare Atena ed esorcizzare altre catastrofi sismiche (Cresti 2008).
Nel tragico che si commemora e si vuole esorcizzare, attraverso queste maschere enigmatiche e caricaturali, sembrano sopravvivere formule espressive di pathos, le Pathosformeln di cui ha parlato Aby Warburg. Le Pathosformeln sono formule espressive condensatesi in immagini permanenti, provengono da un nucleo originario di miti, simboli e segni creato dagli antichi, che ha lasciato un’impronta indelebile nella memoria collettiva dell’umanità (Settis 2004). La ricerca warburghiana ci suggerisce di rileggere la storia dell’arte quale «storia di fantasmi per adulti», per via di quella che lui definì Nachleben der Antike, «sopravvivenza dell’antico».
Le immagini hanno una genesi complessa, sono la trasposizione simbolica di quei fenomeni naturali precedentemente inglobati nelle pratiche rituali e nella danza. Alcune di queste formule rituali diventano forme condensate, eco del pathos primitivo, il cui significato sopravvive attraverso i ricordi e le narrazioni trasmesse come patrimonio immateriale da una generazione all’altra. L’immagine antica sopravvive e riappare in determinati momenti storici come «momento energetico prodotto da temporalità complesse, dalla contrapposizione tra l’adesso e il non più, il qui e l’altrove» (Calabrese & Uboldi, 2011: VIII).
«La sopravvivenza disorienta la storia» (Didi-Huberman, 2006: 83), si rivela come traccia sintomatica, impronta [2] nella memoria che Warburg scelse di chiamare engramma (mutuando il termine da Richard Semon del 1904, a proposito degli studi di neurofisiologia). Le tracce di un passato che si anacronizza vanno a costituire un palinsesto di strati eterogenei dalle radici multifocali, e in questo processo di stratificazione sussistono continue risemantizzazioni e metamorfosi (Michaud, 1998).
Impronte di un passato non ripercorribile in maniera lineare caratterizzano dunque le maschere di pietra tardobarocche che ricordano quelle fittili di teatro, richiamano le grottesche e i bestiari medievali, mentre convivono con la lezione della fisiognomica greco-romana e l’iconologia alla Ripa, e ancora, cristallizzano il sentire del tempo fatto di superstizioni, leggende popolari e pratiche contro il malocchio.
Anche Burckhardt sosteneva che per cogliere lo spirito di una determinata epoca, bisogna andare oltre i fatti storici narrati nelle fonti ufficiali e osservare le opere d’arte, i paesaggi, nonché i dettagli apparentemente secondari: abiti, decorazioni architettoniche e grottesche (Ghelardi, 1991). Lo stesso Warburg usava ripetere che «il buon Dio abita nei particolari» (Gombrich 2018: 24). La cultura pagana traslata in un sentire popolare, traspare dai mascheroni tardobarocchi convivendo con la cultura cristiana, vive nel marginale, così come accade per l’energia “bacchica” rintracciabile in certe danze del sud Italia (la tarantella e il ballo di San Vito), come sottolineava Nietzsche (cit. in Didi-Huberman, 2006: 143).
È il tragico che sopravvive tenacemente in una cultura; esso scaturisce dell’eterno riproporsi dell’antica tensione tra elementi apollinei ed elementi dionisiaci. Questo sembra essere il terreno da cui trae linfa vitale la dirompente forza segnica dei mascheroni tardobarocchi, nei quali si ravvisano le tracce (engrammi) della sopravvivenza dell’antico, sintomatiche di una storia – e di storie – di indeterminatezza e ambiguità, in un luogo rinato a seguito del trauma generato dal sisma che ha prodotto macerie e seminato morte. Il volto tardobarocco della ricostruzione post terremoto sembra infatti aver avuto origine da due forze contrapposte: il desiderio di rinascita e il ricordo del lutto subìto. In termini psicanalitici equivarrebbe alla lotta tra il sistema di difesa che rimuove una rappresentazione traumatica e la sua sopravvivenza come «debole traccia mnestica» (Freud, 1967).
Le maschere tardobarocche giocano con la percezione dello spettatore, ma sono, soprattutto, impronte energetiche di esperienze emotive della memoria collettiva, riattivate per una scelta selettiva (Pasini 2000), conscia o inconscia, operata da una specifica dimensione sociale in una determinata epoca; successivamente questi engrammi (tracce, simboli) si concretizzano in formule di pathos, le Pathosformeln.
La riconquista del significato di certe formule di pathos andrebbe spiegata con il processo di immedesimazione, l’Einfühlung, che consiste in un’esperienza estetica esperita attraverso un sentire empatico. Per questo aspetto specifico, il metodo di Warburg si allinea con le tendenze estetiche di fine XIX secolo e si orienta nell’indagine sul rapporto tra emozione (desiderio, paura, bramosia) ed epifania delle immagini degli antichi sotto nuove sembianze e significati (Dal Lago, 2016). Nelle formule di pathos impietrite, le maschere iblee, mettendo in scena la dialettica del mostro, metafora della forza distruttiva delle catastrofi naturali, assolvono al duplice ruolo di esorcizzare il male (funzione apotropaica) e di annientare la paura e lo sgomento cosmico (funzione catartica). L’emozione prodotta dal trauma riemerge per essere esorcizzata, come i fantasmi insepolti delle vittime del sisma che non ebbero il tempo di avere degna sepoltura e che continuano a sopravvivere nelle numerose leggende popolari iblee.
Si è detto, seguendo il fil rouge warburgiano, che le immagini hanno una genesi complessa, sono in un rapporto reciproco intricato, generatore di prospettive multiple e temporalità labirintiche, nascono in un terreno fatto di rappresentazioni oniriche, frammentate e deformate. Il fondo di questa ricerca è senza limiti, rizomatico, ci invita a guardare segni, simboli, desideri, ricordi e nomi che si danno alle cose di ogni luogo nel loro farsi e disfarsi nella memoria in infinite forme, come suggerisce Italo Calvino nelle Città Invisibili:
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