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Maschilità e cultura cattolica
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2025 @ 03:21 In Cultura,Religioni | No Comments
Nel linguaggio abituale usiamo come sinonimi termini che, invece, significano ‘cose’ diverse. Ormai gli studi biblici consentono di distinguere abbastanza chiaramente il kerigma (o “annunzio”) originario gesuano, sia pur filtrato dalle comunità del primo secolo; il cristianesimo come l’insieme delle molteplici interpretazioni e istituzionalizzazioni del “buon-annunzio” (“vangelo”) originario; il cattolicesimo come una di queste versioni ‘confessionali’ del cristianesimo (accanto a molte altre tradizioni ecclesiali, dalla costellazione delle Chiese ortodosse ‘orientali’ all’ancor più variegata galassia delle Chiese ‘riformate’ o ‘protestanti’).
Un’agenzia educativa in affanno, ma non fuori gioco
Se limitiamo il campo d’osservazione al cattolicesimo, e al cattolicesimo nell’area nord-occidentale del pianeta, non possiamo negare che esso patisca una forte crisi di consenso: le chiese si svuotano, gli ordini religiosi anche più antichi stentano ad attrarre nuove ‘vocazioni’, i movimenti e le associazioni registrano continui cali di adesioni [1]. Come accade alle stelle, però, c’è uno sfasamento temporale fra la dissoluzione intrinseca della Chiesa cattolica e la sua immagine pubblica: la decrescita statistica di cittadini/e che si dichiarano credenti e praticanti in senso confessionale non ha comportato una tempestiva e proporzionale diminuzione della sua influenza culturale nella società. Ciò per varie ragioni, tra cui l’utilizzazione selettiva e ideologica del discorso cattolico. Esemplare il caso dell’attuale pontificato. È rarissimo incontrare una persona che si riconosca integralmente nel magistero di Francesco: ma ciò non toglie che alcuni ambienti ‘progressisti’ si appellino a certe tematiche a lui care (la sensibilità per le sofferenze degli ‘impoveriti’ della Terra, la preoccupazione per l’equilibrio ecologico o il netto rifiuto della guerra come metodo di risoluzione dei conflitti); ed altri ambienti ‘conservatori’ si aggancino agli elementi devozionali che non mancano nella predicazione di questo papa (come ad esempio il culto di Maria e dei santi), sino al punto da sventolare crocifissi, madonne e rosari come esca elettorale.
Se questo quadro è, sostanzialmente, realistico; se sono più numerose di quanto si possa supporre le persone che, pur dichiarandosi a vario titolo “non cattoliche”, restano tuttora segnate da anni di pedagogia cattolica, per aspetti che potrebbero valutarsi sia positivamente (ad esempio la critica all’individualismo carrieristico) sia negativamente (ad esempio la tendenziale indifferenza nei confronti degli esseri viventi e senzienti diversi dagli umani); allora esaminare il modello cattolico della “maschilità”, misurarne la pervasività nel tessuto sociale e interrogarsi criticamente su di esso, potrebbe non risultare ozioso.
Non è per nulla strano che, anche in ambito teologico, sia successo ciò che è avvenuto in tutti gli altri campi in cui si è cominciato a riflettere sull’essere ‘maschio’: lo spunto, l’avvio, è partito dallo sguardo femminile (e femminista). Si è trattato di uno sguardo plurimo, di punti di osservazione critica molteplici: dalla sociologia delle comunità religiose all’esegesi biblica, dalla storia della mistica alla liturgia sacramentaria, dalla morale matrimoniale alla teologia in senso primario (intendo: il modo di pensare il divino). A partire proprio da questo punto centrale e fondante (il “genere” di Dio), provo – sia pur sommariamente – ad esporre, in sequenza centrifuga, quali capisaldi della dottrina cattolica (in molti casi non solo cattolica) hanno contribuito alla costruzione di una visione del “maschio”, dei suoi diritti e dei suoi compiti, delle sue virtù e dei suoi difetti.
a) Se Dio è maschio, il maschio si ritiene Dio
Il cattolicesimo è un ramo del cristianesimo che, a sua volta, è una delle ramificazioni dal tronco del monoteismo. Esso pertanto condivide non solo con le altre Chiese cristiane, ma anche con le altre due grandi religioni monoteistiche (ebraismo e islamismo), la concezione di Dio come un Padre eterno, onnipotente e onnisciente:
Come mi è capitato di scrivere altrove,
Da qui l’avvertenza rilanciata anche dalla ministra protestante Judith van Osdol:
Il monoteismo cristiano ha assunto, dal IV secolo in poi, una configurazione trinitaria: l’Unico Dio sarebbe non solo Padre, ma anche Figlio e Spirito santo. Per esigenze di chiarezza espositiva non affronto la questione sul perché la Terza Persona divina – che in base a testi biblici si sarebbe potuta denominare al femminile: Ruah, Sapienza, Sofia… [5] – sia stata designata con termini ‘neutri’ (Pneuma) o maschili (Spiritus) e mi concentro sul tema dell’incarnazione del Verbo in un maschio: Gesù di Nazareth. Per la riflessione teologica maggioritaria nei primi venti secoli, la Parola di Dio si sarebbe potuta incarnare in una donna con le stesse (im)probabilità con cui si sarebbe potuta incarnare in un asino o in una zucca. Quanto ciò significhi nell’auto-interpretazione maschile è facile immaginarlo: egli non ha solo il diritto, ma prima ancora il destino, di perpetuare di generazione in generazione la presenza di Cristo nella storia.
Per la verità, secondo alcune ricostruzioni, Gesù avrebbe attestato una “maschilità esemplare”: junghianamente, avrebbe accettato il femminile in lui e, proprio per questo, non avrebbe mostrato nessuna ostilità verso il femminile fuori di sé [6]. I suoi immediati discepoli avrebbero condiviso l’idea scandalosa di comunità inclusive in cui “non c’è più maschio e femmina, poiché siete uno in Cristo” (Galati 3, 28) e contrastato l’androcentrismo dominante nel mondo greco e romano. Forse le resistenze a questa rivoluzione culturale tentata da Gesù sono state, storicamente, da parte dei contemporanei, più dure di quanto Wolff non evidenzi. Tuttavia non c’è dubbio che ben presto, ad opera di Paolo e di ambienti a lui vicini,
c) Solo i maschi possono agire in persona Christi
Che questi presupposti biblico-teologici non siano privi di conseguenze pratiche e quotidiane lo si può constatare già all’interno della Chiesa cattolica. I ministeri ordinati (nel lessico extra-ecclesiastico: le funzioni dirigenziali) sono riservati esclusivamente a maschi etero-sessuali: essi solo possono ricevere la consacrazione a diaconi, poi a presbiteri e infine – eventualmente – a vescovi (con la nota preminenza assoluta del vescovo di Roma).
Il Documento ufficiale più recente (che, anche a parere di papa Francesco, mantiene intatta autorità sino ad oggi) è la Lettera apostolica di Giovanni Paolo II Ordinatio sacerdotalis ai vescovi della Chiesa cattolica sull’ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini del 22 maggio 1994 [8]. In esso – dopo aver precisato che attraverso “l’ordinazione sacerdotale” si trasmetterebbe «l’ufficio che Cristo ha affidato ai suoi Apostoli di insegnare, santificare e governare i fedeli» – si afferma che tale consacrazione «è stata nella Chiesa cattolica sin dall’inizio sempre esclusivamente riservata agli uomini». La ragione fondante di tale prassi persistente per due millenni sarebbe «l’esempio, registrato nelle Sacre Scritture, di Cristo che scelse i suoi Apostoli soltanto tra gli uomini». Tale opzione del Maestro sarebbe così vincolante che la Chiesa «non si riconosce l’autorità di ammettere le donne all’ordinazione sacerdotale».
Il Documento non può negare che – «benché la dottrina circa l’ordinazione sacerdotale da riservarsi soltanto agli uomini sia conservata dalla costante e universale Tradizione della Chiesa e sia insegnata con fermezza dal Magistero nei documenti più recenti» – «tuttavia nel nostro tempo in diversi luoghi la si ritiene discutibile, o anche si attribuisce alla decisione della Chiesa di non ammettere le donne a tale ordinazione un valore meramente disciplinare». Ma a questo fervore di studi e di iniziative pratiche dalla base del “popolo di Dio” non viene riconosciuta alcuna rilevanza, nonostante la stragrande maggioranza delle altre Chiese cristiane (con l’eccezione delle Chiese ortodosse) abbia ormai maturato la convinzione che Gesù non ha istituito alcun sacramento che imprima, nell’essere del pastore, un “carattere ontologico” (differenziandolo in maniera intima e definitiva dal resto dei fedeli) e che dunque il compito di presidenza/coordinamento/animazione può essere affidato a persone di qualsiasi sesso, genere e orientamento affettivo.
L’impianto patriarcale della Chiesa cattolica comporta delle conseguenze che, se non fossero tragiche, risulterebbero divertenti. Infatti chi sono gli organi istituzionali deputati a tratteggiare (possibilmente aggiornandolo di secolo in secolo) il modello cattolico di donna? Il papa, i suoi dicasteri romani (che corrispondono, grosso modo, ai ministeri di un governo statale), le conferenze episcopali (che, in casi eccezionali, come nei concili ecumenici e nei sinodi mondiali, si riuniscono addirittura a livello planetario): dunque sempre e solo maschi. Secondo una battuta del compianto gesuita Roger Lenaers, è come se a stilare una credibile trattazione sui migliori vini fosse incaricata un’assemblea di astemi [9]. In tono più serioso, la teologa Marinella Peroni si è in anni recenti rivolta così a papa Francesco in quanto esponente del genere maschile:
d) Il marito è la Testa di ogni famiglia
Il maschilismo androcentrico intra-ecclesiale ha avuto, e in molti ambienti (come nelle formazioni partitiche e nell’associazionismo cattolico di Destra in cui pure si negano principi elementari del cristianesimo evangelico) continua ad avere, delle ricadute significative anche sul piano pedagogico e dell’organizzazione familiare. Un passaggio neotestamentario cruciale è in Efesini 5, 22 – 24:
Indubbiamente il marito deve svolgere la sua funzione con rispetto e affetto (“Mariti, amate le mogli come il Cristo ha amato la Chiesa e si è offerto per lei”, Efesini 5, 25), ma la differenza di ruoli è netta e immodificabile: esattamente come la differenza fra padri e figli (anche se ai padri si raccomanda: “non esasperate i vostri figli, ma educateli, correggendoli ed esortandoli nel Signore”, Efesini 6,4) e fra padroni e schiavi (anche se si invitano i primi a smettere di “minacciare” i secondi, “consapevoli che nei cieli c’è il loro e il vostro Signore, che non ha preferenze personali”, Efesini 6, 9).
L’identikit del maschio cattolico
A titolo di bilancio, sia pur provvisorio, si potrebbe provare a delineare l’identikit cattolico del maschio ideale? Solo un secolo fa sarebbe stato possibile: certo in linea teorica, di principio, non sulla base dell’osservazione sociologica empirica. Ma oggi la Chiesa cattolica non è più un continente, sostanzialmente compatto, bensì un arcipelago di isole collegate disordinatamente da ponti e traghetti più o meno transitori. In un certo ambiente educativo cattolico si potrebbero riconoscere modelli di maschilità molto differenti da altri ambienti cattolici e, invece, assai simili a modelli di ambienti protestanti o buddhisti o del tutto ‘laici’: il “politeismo dei valori” di weberiana memoria attraversa ormai i cattolicesimi effettivamente configuratisi sparsi sul pianeta non meno dei vari ebraismi o dei vari induismi insediatisi nei diversi contesti socio-culturali. Chi ha superato i settant’anni può testimoniare mutamenti enormi sia diacronici (soprattutto da prima a dopo il Concilio ecumenico Vaticano II degli anni 1962 – 1965) che sincronici (ad esempio fra il cattolicesimo mediterraneo e il cattolicesimo latino-americano).
Con questa avvertenza preliminare si può abbozzare un modello di maschilità basato su testi antichi e moderni che, più o meno persistentemente, hanno contribuito alla formazione della mens cattolica.
a) L’interlocutore diretto di Dio
Come per ogni cristiano, anche per il cattolico, soprattutto dopo il Concilio ecumenico Vaticano II, la Bibbia esercita una rilevanza fondante: essa, infatti, è considerata la testimonianza privilegiata della rivelazione che Dio fa non solo di sé, ma del suo progetto sul mondo e sull’umanità. Ai bambini che frequentano i corsi catechistici in preparazione alla prima eucarestia o alla cresima, così come agli studenti che si avvalgono dell’insegnamento della religione cattolica o ai giovani adulti che si iscrivono ai corsi pre-matrimoniali (tutte categorie statisticamente numerose, nonostante l’abbandono generalizzato della partecipazione alla vita delle parrocchie, soprattutto per attaccamento alle tradizioni familiari e per evitare ogni accenno di emarginazione sociale) viene insegnato che la Bibbia è Parola di Dio rivolta, per la mediazione di esseri umani, all’intera umanità. Ma è davvero così? O dal primo all’ultimo libro di questa Biblioteca l’ipotetica auto-rivelazione di Dio è rivolta a maschi attraverso la mediazione di maschi? Ci sono mille ragioni storiche per spiegare – e in parte giustificare – questa parzialità di prospettiva: ma se non viene riconosciuta e segnalata, essa condiziona l’auto-interpretazione antropologica (di maschi e di femmine) in maniera tanto più pervasiva quanto meno esplicita. L’androcentrismo biblico è insidioso perché, non essendo mai nominato, passa quasi come un orizzonte di senso ovvio: indiscusso perché invisibile.
Che il maschio sia l’interlocutore diretto di Dio – il principale se non l’unico – dal momento che spetta a lui l’onore e l’onere di trasmettere alle donne i messaggi divini, lo si evince da una messe davvero consistente di passi biblici. Si legga, quasi a caso, il libro dei Proverbi (che apre la breve serie dei libri sapienziali) nel Primo Testamento: è interamente ed esclusivamente indirizzato, da un anziano padre, a un giovane rampollo.
Ritornano frequentemente tre consigli: evitare le prostitute (“un uomo che ama la sapienza allieta il padre;/ chi frequenta le prostitute dissipa la ricchezza”, 29, 3); evitare l’adulterio con una donna sposata (la prudenza ti strapperà “dalla donna altrui,/dalla straniera che sa adoperare parole melliflue,/che ha lasciato il compagno della sua giovinezza”, 2, 16 – 17); evitare di sposare una stolta (“Goccia continua il giorno di pioggia/ e donna litigiosa si assomigliano./ Chi vuol calmarla, vuol far tacere il vento/ e raccogliere l’olio con la destra”, 27, 15 – 16) e, dunque, scegliere una moglie assennata (“Una donna efficiente chi la trova?/ È superiore alle perle il suo valore./Confida in lei il cuore di suo marito, /che ne ricaverà sempre un vantaggio./ Gli procura ciò che è bene, non il male,/ per tutti i giorni della sua vita”, 31, 10- 12). Nessuno di questi consigli, in nessun testo biblico, è mai formulato al femminile (ad esempio da una madre a una figlia).
Sia all’interno dei Proverbi che in tutte gli altri libri della Bibbia possono rintracciarsi innumerevoli altre conferme, ma forse la più plateale si ritrova in una delle “dieci parole” che, nella catechesi quotidiana, sono note come i dieci “comandamenti”:
Il divieto dell’invidia è rivolto esclusivamente al maschio e riguarda una serie di “proprietà” del prossimo che vanno dalla “casa” all’ “asino”, passando per la “moglie”. Che la Parola di Dio sia rivolta all’uomo in quanto maschio è confermato – se ce ne fosse bisogno – anche nel Secondo Testamento, per esempio là dove in una lettera ufficialmente attribuita a Paolo si legge:
b) L’interprete di un ruolo prima, e più, che un soggetto emozionabile
Oltre il messaggio implicito, subliminare, di essere stato scritto da maschi per maschi, cosa dice esplicitamente sul maschio Il grande codice (Northrop Frye) dell’Occidente? Che egli si realizza attraverso il rispetto rigoroso di un insieme di regole che ne definiscono il “genere” nell’accezione di ruolo socio-culturale. Dell’osservanza di questi parametri – a cui egli per primo è tenuto ad attenersi – dev’essere custode vigile e giudice inflessibile.
La disciplina è qui auto-disciplina? La correzione da non trascurare è esercitata da altri su di noi o da noi su altri (mogli, figli, schiavi)? In passi come questo non mi pare chiaro, ma in altri è chiarissimo:
Consegne di questo genere sembrano veicolare una sorta di raccomandazione: il vero maschio adempie ai compiti previsti dal suo ruolo senza lasciarsi condizionare dai sentimenti. I doveri del proprio stato vanno assolti con fermezza, senza concessioni alle emozioni:
e lo libererai dagli inferi» (Proverbi, 23, 13 – 14).
Oggi questi metodi da “pedagogia nera” [11] sono, almeno programmaticamente, rinnegati, ma ho conosciuto diversi maschi di formazione cattolica che nel corso dell’esistenza non hanno mai accarezzato figli o nipoti (almeno in pubblico) e che hanno anche proclamato apertamente come criterio generale che “i figli si baciano solo quando stanno dormendo”. Avrebbero avuto convinzioni e comportamenti differenti anche se non avessero ricevuto un’educazione cattolica? Molto probabilmente no, a giudicare dalla frigidità affettiva di tanti genitori formatisi in contesti etnico-religiosi differenti. Ma è certo almeno questo: il modello cattolico di maschilità non li ha incoraggiati a posture più empatiche.
c) Un soggetto da preservare dalle tentazioni
Nel racconto mitico del paradiso terrestre Adamo disobbedisce a Dio su suggerimento del Diavolo: di per sé sarebbe un brav’uomo, ma è fragile e non immune dalle tentazioni. Non così debole da cedere subito: solo quando Eva si fa complice e portavoce del Serpente, il disgraziato si arrende. Da qui, già nel II secolo dell’era cristiana, le invettive misogine come da parte di Tertulliano:
Idee, stereotipi, pregiudizi di altre epoche? Non direi. Proprio mentre scrivo queste righe apprendo dalla stampa nazionale la dichiarazione di un alto esponente dell’attuale maggioranza parlamentare riguardante le disavventure extra-coniugali di un suo amico, costretto a rassegnare a causa di queste le dimissioni da ministro. Chi parla è stato testimone di nozze (in chiesa) dell’amico ministro ed entrambi sono noti per l’appartenenza all’area cattolica:
Dunque: l’amante del ministro è una sorta di meteorite vagante nell’aere che il pover’uomo non è riuscito a scansare. Dopo duemilacinquecento anni il copione non è mutato: la donna come causa prima (se non unica) del “peccato” dell’uomo, vittima innocente delle circostanze tentatrici. Che egli abbia sfruttato il potere politico per godere dei favori sessuali di una signora non viene minimamente considerato: il focus è esclusivamente concentrato sull’aspirante consulente del ministro, intenzionata a sfruttare la propria avvenenza per favori clientelari. Difficile non concordare, in questa logica, con la lungimirante saggezza dell’arcivescovo di Firenze sant’Antonino che nel XV secolo aveva dipinto il ritratto della donna con pennellate non certo prive di efficacia letteraria:
In fondo, però, al maschio basterà poco per mantenersi indenne da sbandate autolesionistiche: ridurre al minimo le frequentazioni femminili e, anche in questi casi necessari, tenere a bada la propria “natura” di “cacciatore” in comprensibile ricerca di “prede” su cui canalizzare la tracimante libidine innata, senza la cui provvidenziale esuberanza, peraltro, l’umanità si sarebbe estinta da millenni.
d) Qualche spiraglio sul futuro
Dopo secoli di discorsi magisteriali e teologici maschilisti sulla maschilità, con papa Francesco si vanno aprendo dei piccoli spiragli di segno diverso. Già nel 2014 egli critica «l’idea semplicistica che tutti i ruoli e le relazioni di entrambi i sessi sono rinchiusi in un modello unico e statico» [15]. L’anno successivo, nel 2015, ha modo di ribadire l’opportunità che i genitori svolgano «ruoli e compiti flessibili, che si adattano alle circostanze concrete di ogni famiglia» [16]. Poi, nel 2016, si sofferma in particolare sulla necessità che il padre
È interessante, nel medesimo testo, la distinzione fra ciò che potremmo definire ‘naturale’ e ‘culturale’ ai fini di una equilibrata visione del “genere” come «configurazione del proprio modo di essere, femminile o maschile»:
Non priva d’interesse inoltre, perché distante dall’agiografia tradizionale la lettura che papa Francesco propone, nel 2020, della figura (prevalentemente simbolica, s’intende) di san Giuseppe di cui sottolinea la tenerezza (con cui «dobbiamo imparare ad accogliere la nostra debolezza»), l’accoglienza della compagna di vita («Giuseppe accoglie Maria senza mettere condizioni preventive») e la preferenza per “l’ombra” («essere padri significa introdurre il figlio all’esperienza della vita, alla realtà. Non trattenerlo, non imprigionarlo, non possederlo, ma renderlo capace di scelte, di libertà, di partenze. […] La logica dell’amore è sempre una logica di libertà, e Giuseppe ha saputo amare in maniera straordinariamente libera. Non ha mai messo se stesso al centro. Ha saputo decentrarsi, mettere al centro della sua vita Maria e Gesù») [19].
Queste timide aperture papali non possono essere sopravvalutate per almeno tre ragioni. Intanto perché s’intrecciano con posizioni, opinioni, esternazioni del medesimo pontefice che risentono di eredità sessuofobiche e/o omofobe di altro tenore. Poi perché «nella comunità cristiana lo sviluppo di pratiche di autocoscienza tra uomini e percorsi collettivi di ‘critica alla costruzione sociale della maschilità’ è stato assai limitato e l’elaborazione di un pensiero sul ‘maschile’ è avvenuto anche in campo teologico in modo piuttosto discontinuo» [20]. Infine perché il dibattito sulle differenze di “genere” si va spostando molto più in avanti, sino a chiedersi se continuare a definire, pur elasticamente, le categorie del maschile e del femminile (con il rischio di restare impigliati nello schema essenzialista di ciò che sarebbe tipico degli uomini e tipico delle donne) sia un’operazione conducente e persino legittima nell’epoca della tematizzazione del queer [21]: davvero esistono due o tre generi (sia come identità psicologiche sia come ruoli sociali) o non è più realistico riconoscere, con il teologo don Cosimo Scordato [22], che esistono tanti generi quante sono le persone sulla faccia della Terra? Se a ogni passo in avanti della Chiesa cattolica ne corrispondono cento della società civile, quest’ultima si troverà sempre un po’ più avanti – se non nelle risposte – almeno nelle domande.
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