per la cittadinanza
di Gianluca Serra
La locuzione “ritorno della memoria”, similmente alla più in voga “recupero della memoria collettiva”, accompagna i propositi di molte ricerche sul passato, specialmente quelle a taglio etno-antropologico. La frequenza del suo uso, tuttavia, non è indizio di una semantica priva di ambiguità.
In primo luogo, un vizio logico va messo in luce: la memoria collettiva (cioè di una comunità, ove “di” è genitivo soggettivo e oggettivo) non è provvista di un’esistenza autonoma rispetto ai soggetti che la esercitano. Essa non è il relitto di una nave affondata che attende correnti propizie per liberarsi dalle concrezioni e “ritornare” a mostrarsi, oppure di una missione archeologica per “essere recuperata” e musealizzata. Con il linguaggio dell’informatica potrei anche dire che la memoria non è un file salvato su floppy disk da 3,5” che vorremmo leggere trent’anni dopo sull’ultima versione di Windows.
La memoria collettiva è piuttosto un costrutto che risulta dal lavoro di tessitura di più parti: fonti scritte, orali, fotografie, mappe, intuizioni, ipotesi e persino malinconie. In questa operazione, chi si assume l’onere del lavoro di ricerca, analisi e sintesi delle varie parti, giocoforza vi partecipa aggiungendo qualcosa del suo vissuto, una tara estetica ed etica, un rumore di fondo che attualizza inevitabilmente la memoria, le apre una prospettiva soggettiva sul presente e sul futuro. “Collettiva” è l’appartenenza della memoria come prodotto finale dello studio ma il suo processo di costruzione rimane, per quanti paletti metodologici possano essere messi lungo il percorso, un processo prevalentemente individuale e, come tale, imperfetto. Max Weber docet.
In secondo luogo, la memoria collettiva – specialmente quella locale – risulta troppo spesso esposta alla tentazione di rivestirsi di un sentimento di malinconia per un passato più o meno lontano che, in assenza di visibilità e fiducia nel futuro, si tende a idealizzare come prospero e felice. Una mitica età dell’oro perduta nella quale rifugiarsi col ricordo. Una nostalgia per il passato di questo tipo ha l’apparente natura di stato poetico, allontana dalla politica e diventa una porta aperta sull’abisso dello scoramento, dell’impotenza, dell’habitus mentale e comportamentale della rassegnazione individuale. Contagiosa come un virus ai tempi di Internet in cui orde di lodatori del tempo che è stato vengono arruolate e arruolano intere comunità nel vuoto dell’antipolitica in cui manovrano i rigurgiti identitari di populismo, xenofobia e razzismo.
In terzo luogo, il passato è, in un certo senso, una terra straniera per noi abitanti del presente. Lo rivela ancora una volta il linguaggio, hegeliana casa dell’essere: la comune percezione è che chi studia il passato lavori su “pezzi” di un oggetto che si presume sia stato integro all’inizio del suo divenire e poi, a un certo punto, sia andato in “frantumi”. Un’idea della storia come di un processo di allontanamento dall’intero, dal proprio, dal sé… da casa. Sottile, ma di robusto nylon, è il fil rouge con la semantica di “ostracismo” – il bando, l’esilio che nelle poleis greche poteva essere inflitto al concittadino ritenuto pericoloso per la città; il suo nome veniva scritto da coloro che votavano nell’assemblea popolare su un frammento o coccio di terracotta (ostrakon). Il voto decretava la trasformazione da cittadino a straniero, un passaggio di status analogo a quel processo espropriativo che cambia il sé-che-siamo-oggi nell’altro-che-eravamo-ieri. In una terra straniera appunto, di cui ci restano frammenti in mano, da leggere, interpretare, contestualizzare. O semplicemente da ignorare, lasciare dissolvere sotto gli elementi e nella dimenticanza che si accompagna ai cicli anagrafici in contesti in cui chi vive non scrive.
Ecco che l’esercizio della memoria è, o meglio dovrebbe essere, un viaggio à rebours che richiede di spogliarsi di quel sé che permea l’hic et nunc per incontrare, con bagaglio di pregiudizi il più leggero possibile, l’altro-da-sé. Non per spianarlo e farne un lotto edificabile su cui innalzare un memoriale idealizzante e rassicurante di qualcosa che ci assomiglia. Sarebbe grottesco, carnascialesco far indossare costumi d’epoca a passioni e nevrosi contemporanee. Conoscere meglio un certo modo di essere – arcaico e rimosso – che ci ha caratterizzati fino a tempi relativamente recenti, eppure già lontani, non ha un valore di riscontro immediato, potrebbe addirittura apparire un’operazione futile, di disimpegno, di evasione dal reale. Ma non è affatto così: nel nostos (il viaggio di ritorno) verso il passato incontriamo una forma di noi stessi che è già diventata l’altro, il diverso da noi. Per quanto si usi ripetere che la memoria fa parte della nostra identità, la memoria di noi stessi non è un fatto identitario perché non coincide perfettamente con noi stessi, essa è il nostro riflesso su un’acqua che è già passata da quel punto del fiume in cui oggi ci affacciamo e misuriamo il panta rei. La memoria è semmai una eco in noi, flebile e carsica, di ciò che fummo. Una nostalgia – parola che per etimo ci rimanda ancora al nostos, il ritorno.
Fare esperienza, attraverso l’esercizio della memoria, dell’altro che siamo stati, ci prepara a incontrare e rispettare l’altro che è fuori da noi, accanto a noi, fra noi nello spazio liquido più prolifico di storia che esista al mondo, quel Mediterraneo che produce più storia di quanto Stati e popoli che in esso si affacciano siano capace di metabolizzarne. Un Mediterraneo in cui sono in atto importanti migrazioni di uomini da Sud verso Nord, accompagnate da risposte politiche della sponda economicamente più avanzata che oscillano fra cattura e accoglienza, fra criminalizzazione della clandestinità e protezione della fragilità, fra isterismi e ragione, fra Europa-fortezza ed Europa comunità di diritto.
Con questi presupposti sul nesso èthnos-èthos, il nostos della memoria può contribuire ad aprire lo spirito dei nostri tempi a valori che la globalizzazione sta progressivamente erodendo e rimpiazzando con attraenti surrogati commerciali improntati all’omologazione. Parlo di quella irrinunciabile manifestazione della biodiversità umana che è il pluralismo culturale. Parlo del rispetto reciproco delle differenze culturali (che è cosa diversa dalla passiva tolleranza) e che può funzionare solo quando si fonda sulla conoscenza reciproca fra sé e altro.
La Sicilia di Idrisi, capovolta con il sud in alto e il nord in basso, ci ricorda a distanza di oltre otto secoli che, nelle rappresentazioni mentali collettive, ogni polarizzazione è solo un costrutto culturale figlio di una contingenza storica, non un’immanenza della geografia. La carta idrisiana torna attuale nella misura in cui vi riconosciamo il negativo metacartografico di un Mediterraneo smemorato del suo passato: il sé che da nord guarda l’altro a sud non capisce – perché lo ignora o perché glielo fanno ignorare – che sta guardando al riflesso della propria immagine, in uno scambio che può essere dialogo e non scontro, multiculturalismo e non identitarismo. Il Mediterraneo come specchio che riflette, e per riflettere.
Impostata in questi termini la memoria, o meglio il suo esercizio, può svolgere una meritoria funzione etico-politica nella società del nusquam et nunc che si nutre di istantaneità e vomita non-luoghi in una permanente pratica di distrazione dal reale e fuga dalla polis. Con questa ambizione la memoria, risacca del tempo, può contribuire a costruire la cittadinanza come spazio di diritti in opposizione a ogni declinazione identitaria che si appella a presunte appartenenze o destini.
Dialoghi Mediterranei, n. 53, gennaio 2022
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Gianluca Serra, dottore di ricerca in diritto europeo, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche in prestigiose riviste giuridiche nazionali e internazionali sui temi della tutela dei diritti fondamentali della persona e della ricostruzione dello Stato in contesti post-bellici. Dal 2020, dopo varie esperienze lavorative nella funzione pubblica internazionale (in Afghanistan, Somalia, Estonia, Belgio), è dirigente dell’agenzia europea per gestione operativa delle frontiere comuni esterne, con sede a Strasburgo. Recentemente ha pubblicato: Viaggio a Capo Granitola (2021) Le tonnare di Capo Granitola e Sciacca. Il ritorno della memoria (2021).
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