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Metà mòrfosi: l’altra non saprei. Orienteering tra significati
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2025 @ 02:13 In Cultura,Società | No Comments
di Paolo De Simonis
Inforestarsi
I cipressi «un tempo avevano un ruolo ben preciso, segnalavano zone di confine, conducevano a qualcosa di rilevante per la collettività. Adesso ogni casa colonica si fa il suo ingresso con i filari di cipressi, per noi questa è una sgrammaticatura»[1].
Ma «del resto mia cara, di che si stupisce, anche l’operaio vuole il figlio dottore. E pensi che ambiente ne può venir fuori, non c’è più morale contessa …» [2].
Per non dir di Rocco, con famiglia appena sbarcata in casa di ringhiera:
«- Portiera: buongiorno sciura Maria
- Signora Maria: mamma mia, l’ha vis che roba?
- Portiera: Africa
- Signora Maria: ma da dove veniran?
- Portiera: Lucania
- Signora Maria: Lucania? E dove la sta Lucania? Mai sentita. A veni’ proprio tutti chi.
- Portiera: giù, giù, in fondo, in fondo» [3].
Ancora più in basso, sull’altopiano desertico del Tassili tra Algeria e Libia, alcuni cipressi si ostinano a sopravvivere testimoniando la loro storia e osservando quanto e come sia mutato il senso delle vecchie vie carovaniere: per effetto tanto del turismo, richiamato da pitture e incisioni rupestri preistoriche, che della ricerca di vita dei migranti sub sahariani diretti al Nord.
Cipressi come indicatori di memoria: «sembrano guerrieri dispersi nel deserto. Con i loro rami contorti, i tronchi che in qualche caso superano i quattro metri di diametro, le chiome ampie che si spingono fino a venti metri d’altezza, sono gli unici alberi monumentali presenti nel deserto del Sahara. E sono una rarità. Si tratta infatti degli ultimi 233 esemplari al mondo di cipressi di Duprez (Cupressus dupreziana), piante fuori del comune non solo per la capacità di sopravvivere in luoghi dal clima estremo, ma anche per la straordinaria longevità: i più vecchi hanno 4.000 anni» [4].
Sono piante ‘relitte’, nate quando anche il Sahara era verde. Scampate dai mutamenti climatici ma non dalle mutilazioni inferte loro dall’azione antropica che ne ha deformato la chioma: i rami dei cipressi sono serviti a migranti e trekkers per accendere falò e così difendersi dal freddo notturno del deserto. Questo anche se il Tassili n’Ajjer è stato dichiarato Parco nazionale nel 1972, Patrimonio culturale dell’Umanità dall’UNESCO nel 1982 e Riserva della Biosfera nel 1986: «Non solo perché la cultura della conservazione della natura in Africa è ancora agli albori ma anche perché sono davvero pochi, persino tra la gente del luogo, a essere consapevoli del pregio di questi alberi. È facile immaginare che nelle notti stellate si chiamino tra loro e si raccontino storie senza tempo, parlando di uomini e animali, mentre la brezza dell’altopiano accarezza le loro chiome» [5].
Per proteggerle si sono formate e attivate passioni competenti. Il CNR di Sesto Fiorentino svolge ricerca e informazione sulla «BIODIV-biodiversità degli ecosistemi agro-forestali per la tutela delle risorse genetiche di pregio con particolare riferimento agli stress abiotici e biotici legati ai cambiamenti climatici avente finalità di conservazione del germoplasma delle specie di cipresso nel mondo» [6].
Più latamente: «in questa epoca che disegna un futuro basato sullo studio della dinamica dei sistemi complessi, gli studi etnobotanici sono una fonte di informazioni preziose, un contributo di modelli stabilizzati che possono fornire importanti informazioni (per la gestione di sistemi più ampi) già selezionate e sperimentate nel tempo, a disposizione di tutti per poter essere trasferite nel giusto contesto».
Infine: «Anche la contaminazione, o l’influenza di culture vegetali più forti, contiene informazioni utili per comprendere i flussi migratori e gli eventi correlati. Le piante, primaria risorsa per l’uomo, raccontano molte storie interessanti a chi le sa ascoltare» [7].
Corsa agraria
L’interrogazione, risalente al 18 aprile 2020, è di Paolo Gennai, appassionato indagatore della storia del territorio toscano come dimostrano le sue ricerche: ‘pubblicate’ in senso profondo e denso perché al loro valore specificamente scientifico aggiungono quello della compartecipazione attiva di testimoni e competenze locali.
Sotto la sua direzione i musei di Montespertoli [10] si sono dimostrati assai generosi di relazioni. Dalle sperimentazioni laboratoriali, prossime alle ‘mappe di comunità’, ai convegni di ampio arco tematico: rapporti tra Resistenza e mondo mezzadrile, storia del controllo delle risorse idriche, paesaggi culturali. La visita ‘interna’, proposta nel succedersi delle sale, prevede inoltre uscite programmate nel territorio che viene narrato dalle voci di chi vi ha abitato e lavorato.
Paolo mi ha invitato spesso a queste escursioni, non lontane delle spirito georgofilo, che ho colpevolmente disertato.[11].
Stavolta però, in tempo di Covid, Paolo mi offriva, senza violare il necessario ‘distanziamento sociale’, un’escursione ‘da romito’ di un gruppo multidisciplinare che, strada discorsiva facendo, si è tradotta in conversazione liberamente partecipata. Senza ansia da prestazione accademica. La compagnia è stata piacevole soprattutto perché nessuno ha presunto di possedere «la parola che squadri da ogni lato» o «la formula che mondi possa aprirti» [12].
Il poggio cipressato è un fermo immagine che si staglia, lontano, sull’orizzonte interpretativo. Per avvicinarlo abbiamo individuato vari percorsi disposti, in estrema sintesi, su due versanti distinti quanto comunicanti: quello della ragion pratica e quello della ragione simbolica. I cipressi se ne stanno lassù perché ‘servono’ e/o perché ‘rappresentano’: in entrambi i casi avendo mutato nel tempo modalità e oggetti di tali funzioni.
Sul primo versante posso solo affacciarmi, grazie alla Rete, in qualità di spigolatore ignorante.
Nel medievale Trattato dell’agricoltura di Pier de’ Crescenzi, «traslato nella favella fiorentina» [13]
Nel 1622, dalla Coltivazione toscana delle viti e d’alcuni alberi: «Gl’abeti e Arcipressi intorno alle case rompono i venti e fanno la state ombra»[14].
Dell’influenza dei paragrandini metallici sulla vegetazione degli alberi rende conto una Memoria di Cosimo Ridolfi del 1831 [15]:
I Georgofili non tutelavano l’ambiente ‘conservandolo’. Cercavano semmai di mutarlo in meglio sperimentando e anche importando idee ed essenze dai nuovi mondi. La Toscana accoglieva immigrati destinati ad arricchire le radici locali [16].
Da rilevare poi che la presenza del cipresso in Toscana non corrispondeva, almeno in età moderna, ad esemplari isolati quanto piuttosto al loro addensarsi in ‘cipressete’.
Damiano Casanti, nel 1856, riconosceva al marchese Lorenzo Ginori-Lisci di avere esercitato nella sua proprietà di Doccia, a Sesto Fiorentino [18].
Autoctonia e continuità storica del cipresso in Toscana andrebbero, come si vede, assai relativizzate. Il Cupressus sempervirens corrisponde a un ‘dato’ non meno che ad un lungo percorso di azioni e significati.
Tra le sue manifestazioni più recenti figura il «progetto Interreg, CypMed I cipressi e la loro multifunzionalità per il miglioramento dell’ambiente e del paesaggio mediterraneo e che attualmente sta lavorando a un secondo progetto: Utilizzazione del cipresso nella salvaguardia dell’economia rurale, dell’ambiente e del paesaggio mediterraneo: prevenzione e gestione dei rischi naturali» [19].
Le cipressete, che occupano cinquemila ettari del territorio toscano, «rivestono importanti funzioni protettive, ambientali, paesaggistiche, turistico-ricreative e produttive»[20].
«In classical mythology, the cypress tree is associated with death, the underworld and eternity. Indeed the family to which cypresses belong, is an ancient lineage of conifers, and a new study of their evolution affords a unique insight into a turbulent era in Earth’s history» [21].
Ma «noi di TuscanyPeople, noi, gente di Toscana, non possiamo neppure concepire che il cipresso venga identificato semplicemente con la fine della vita, perché per noi è tutto il contrario, è il simbolo della vita stessa nel suo pieno splendore, nel suo pieno rigoglio, è il simbolo della bellezza, dell’eleganza, in una parola sola: il cipresso è il simbolo dell’eccellenza della nostra terra e di quella storica immortalità che ci lega ai nostri padri» [22]. Nonché dello «scorrere della vita», «dell’eternità» e del «mistero»: tanto da connettersi al mondo precristiano per «proteggere dagli incantesimi e favorire la fertilità». Il cipresso, inoltre, «pone in comunicazione la vita con la non-vita, con l’ignoto, con l’aldilà, con la divinità, con il mistero». Come non vedere, infine, che «rimanda al cielo, indica il cielo, è un dito puntato verso l’assoluto» ? [23].
Risposta di Fabio Dei & Édith Piaf: «I significati simbolici, sacrali o magici li metterei tranquillamente da parte [24]»: «Je n’ai plus besoin d’eux!/Balayées les symboles/Et tous leurs trémolos/Balayés pour toujours/Je repars à zéro» [25].
Ground zero allora, ‘atterrando’ in senso proprio. Come il ‘globo areostatico’, pilotato da un idraulico [26], che la sera del 16 luglio 1795, dalla fiorentina piazza del Carmine «fece la sua maestosa elevazione, dirigendosi a Levante verso il Casentino […] Alle ore 9 circa sopraggiunta la notte l’ardito volatore pensò di prender terra» [27] nel bosco cipressato del sig. Cav. Mattias Federighi, tra la Pieve a Remole e Le Falle.
Nota di cronaca: «Una processione, che quei popolani facevano in occasione della festa di quel dì, era ancora per la via, all’apparire dell’aerostato, lo spavento invade la più parte di quella rozza gente che, credendolo un animale od un gastigo del Cielo, fugge e si rintana; altri invece riconosciuto il pallone più volte annunziato, gli vanno incontro ed afferrano le funi che il viaggiatore lor gettava per prender terra» [28].
Non è dato sapere se l’idraulico, volando sopra i cipressi della campagna toscana, fu colpito da sindrome di Stendhal. «Non si rileva ch’ei provasse varietà tali nell’atmosfera che gli affettassero nobilmente i sensi» [29]. Quel che più lo colpì apparteneva al paesaggio urbano: il Battistero di S. Giovanni «che parevali un colle di neve»[30].
Ma, si sa, la comprensione della bellezza non è per tutti. Ruskin si pensava «dotato di una capacità, certamente maggiore che in gran parte delle persone, di godere della bellezza dei paesaggi» [31]. E Cézanne dubitava che i contadini sapessero «che cosa è un paesaggio, un albero. […] Sanno che cosa è stato seminato qui, là, lungo la strada, che tempo farà domani, lo sentono dall’odore, come gli animali, come un cane sa che cosa è questo pezzo di pane, soltanto secondo i loro bisogni, ma che gli alberi siano verdi, e che questo verde è un albero, che questa terra è rossa e che questi rossi franosi sono colline, io non credo, realmente, che la maggior parte di loro lo sentano, lo sappiano, al di là del loro inconscio utilitario»[32].
Augustin Berque ha ricordato l’elogio di un ruscello comunicatogli da un contadino giapponese: «Il est devenu beau, depuis qu’on l’ a bétonné» [33]. Un’ anziana nativa del Madagascar confidò a Maurice Bloch di amare la foresta «perché la si può tagliare» [34]. Convinzione di una pastora della Valnerina: «Se noi ci riflettiamo bene, noi apparteniamo, noi siamo come un albero, la persona nostra è come un albero, ma mica lo dice la gente istruita»[35].
‘Popolare’ è anche il metaforico sema lessicogeno di ‘cipressa’: varietà horizontalis, senza punta e dalla chioma piuttosto aperta, del maschile pyramidalis. In coerenza con un’opposizione frequente che ‘vede e legge’ nel femminile un quid di ‘più espanso’: come in pozzo/pozza, ramo/rama, coltello/coltella.
Il fatto è che «ni partout ni toujours» [36] ha preso ugual forma la nozione di paesaggio. Non siamo davanti ad un universale, posto che ne esistano. Non ogni cultura o persona è, o è stata, paysagère con approccio estetico: quanto meno non nelle stesse misure e modalità.
‘Paesaggio’ è d’altronde parola immigrata dalla Francia nel ‘500 con il significato di «Tableau dont le thème principal est la représentation d’un site généralement champêtre» [37]: accezione vitale fino a quando, lungo l’ ‘800, le subentrò quella di «ciò che un osservatore (fermo o in movimento) può vedere dei luoghi che lo circondano con uno sguardo complessivo dal punto di vista in cui si trova in un determinato momento o via via si colloca» [38]. C’erano però voluti tre secoli per passare dal filtro estetico a quello geografico. Il paesaggio moderno è stato concepito dallo sguardo isolato ed esperto di ego di varie dimensioni: dal primo piano di Goethe, con sullo sfondo l’Appia antica e il profilo dei Castelli [39], al «paesaggio vibrante di luce gessosa», niellato da Rudolf Borchardt [40] non lontano da Montaione (Firenze).
‘Scoprire’ in cima a un poggio la forma del cipresso individua, forse in prevalenza, una operazione culturale selettiva nutrita di preconoscenze iconiche e letterarie: canonico, a riguardo, il trittico di capolavori che comprende la Cavalcata dei Magi (1459) di Benozzo Gozzoli, la Tebaide (1460) di Paolo Uccello, l’Annunciazione (1472-1475) di Leonardo.
Il ‘cipresso culturale’, potremmo dire, non è nato dal basso, nel territorio, ma da una manovra di palazzo ordita dai poteri forti dell’estetica rinascimentale santificata in chiave romantica dalla cultura anglosassone: più specificamente con il formarsi a Firenze, e in altre località toscane, di una prestigiosa colonia residenziale d’Oltremanica la cui influenza avrebbe alla fine reso pop l’originaria ed élitaria opzione distintiva.
La mossa distintiva di pochi si è sviluppata, come un prototipo ben riuscito, in produzione di serie. Fattasi pervasiva, la nozione di ‘patrimonio’ crea appartenenza ed esigenze di tutela, con declinazioni di consapevolezza e assunzione di responsabilità assolutamente non prevedibili fino a pochi anni fa.
Più specificamente: «Il Sindaco del Comune di San Quirico d’Orcia Roberto Rappuoli ha scritto una lettera di diffida indirizzata alla Mc Donald’s per l’utilizzo delle immagini del territorio di San Quirico d’ Orcia nell’ultima campagna di promozione sul panino ‘Gran Chianina’. La Mc Donald’s avrebbe fatto un uso difforme delle immagini del suo territorio, in particolare di una tipica corona di cipressi» [44]. Uso difforme del territorio producono anche i profili di capannoni, strade, cave, elettrodotti. E i filari di cipressi immessi nel mercato culturale da Benozzo Gozzoli si adattano a sostenere operazioni di camouflage nei confronti di questi e altri segni di contemporaneità ritenuti lesivi del culto della memoria paesaggistica.
Risale a un esame di geografia con il temutissimo Aldo Sestini [45] il mio primo approccio all’orientamento nello spazio tramite la cartografia IGM 1: 25.000 che, con 0,15 mm di spessore e 2 di altezza, prevedeva anche il simbolo del cipresso. In seguito il dovere si rese piacere: con ‘il’ 25.000 mi sentivo quasi coinvolto nel paradosso di Borges [46], con la carta dell’ Impero 1:1. Una copia della realtà perfetta e quindi inutile. Pragmaticamente mi sentivo invece appagato dalle curve di livello in grado di rappresentare intervalli di cinque metri importanti per progettare e realizzare camminate nel mio paesaggio preferito, quello del Fucini e dei giorni di vacanza trascorsi da bimbo nel podere lavorato dai nonni mezzadri. Proprio dietro i campi le mie madeleinettes olfattive: le ‘coccole aulenti’ nella ‘cipressaia’ della villa di Poggio a Remole dei marchesi Frescobaldi.
Molto prima che si parlasse di trekking, hiking e orienteering ho serenamente vagato nel paesaggio toscano, tra colline e Appennino, anche per giorni: suggestionato dalle tracce di Dino Campana [47] e Bruno Cicognani [48].
Continuo ancora a farlo, pur su scala minore, ma ultimamente l’orientamento mi crea qualche difficoltà. Ebbene sì: mi è capitato di perdermi, come temo sia accaduto anche qui. Muovendomi tra i cipressi dovrei invece ricordarmi più spesso della diagnosi impietosa che, si dice, Francesco Saverio Nitti indirizzava a Vittorio Emanuele Orlando: «La vecchiaia: a qualcuno prende le gambe e ad altri la testa. Orlando cammina benissimo».
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