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Minoranze culturali e turismo. Il caso di “Muse diffuse” nel territorio Walser
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2019 @ 01:55 In Cultura,Società | No Comments
di Gabriella Anedi
Nell’ambito del recente programma di promozione turistico-culturale sperimentato nel territorio di Gressoney-Saint-Jean in Val d’Aosta, l’arte si è trasformata in un ponte proteso tra sguardi contemporanei e una cultura locale segnata, nel paesaggio e nella lingua, dalla tradizione Walser (dal tedesco Walliser, “vallesano” ovvero abitante del Canton Vallese): un’esperienza collettiva che si riflette anche sulla partecipazione di una ricostruzione per immagini della storia che non cancella né si sovrappone alle costruzioni precedenti.
Culture e ponti
Quello condotto in questi ultimi dieci anni a Gressoney-Saint-Jean, è un progetto espositivo pensato fin dall’inizio in termini relazionali e nel cui ambito la ricca tradizione tessile del territorio è stata avvicinata come a un serbatoio di idee cui connettersi per nuove creazioni. È certamente una modalità non nuova, se si pensa alle sperimentazioni delle avanguardie storiche dei primi del ’900. Basti pensare alla collaborazione tra Natalia Goncharova e l’arte popolare, documentata ancora oggi con un’opera a due mani esposta alla galleria Tret’jakov di Mosca. Se allora questa operazione si inscriveva nel solco di una radicale rilettura del sentimento originario, della dimensione primigenia e primitiva dell’arte, oggi un analogo approccio è in linea con la domanda di un turismo sempre più interessato a entrare in vivo contatto con le tradizioni locali. Tuttavia, l’interferenza del presente col passato e la sua rilettura non sono operazioni prive di criticità, tanto più se consideriamo che il senso di appartenenza e la conservazione delle tradizioni spesso generano forme di resistenza o di diffidenza. Si apre allora la questione se oggi, ai fini di un’adeguata valorizzazione delle culture minoritarie, giovi maggiormente una contaminazione, per quanto rispettosa della tradizione, o se si debba piuttosto chiudere quest’ultima in una sorta di recinto folkloristico, che, nel momento in cui la vuole difendere, rischia però anche di soffocarne le potenzialità presenti [1].
Evidente appare il rischio di un congelamento, nel recinto territoriale, di linguaggi che invece, se riattivati creativamente, possono nutrire nuovi immaginari e ravvivare domande sui luoghi e sulla storia, grazie anche all’effetto spiazzante provocato dal linguaggio moderno e da nuovi contesti.
Diventa possibile quindi far riemergere sedimenti di memoria collettiva senza limitarsi alla dimensione rassicurante della tradizione, per aprirsi alla dimensione sempre viva dell’indagine storica, che è pur sempre una domanda posta al passato a partire da un presente. Anche Pier Luigi Sacco, attento osservatore delle dinamiche del turismo culturale, ci mette in tal senso in guardia affermando che «pensare al patrimonio culturale in termini banalmente rievocativi e nostalgici non è soltanto una scommessa persa, è condannare la cultura ad un futuro di malinconica decadenza e marginalità» [2].
Generalmente, qualunque intervento teso a rileggere le culture popolari locali da parte di un osservatore “esterno” porta inevitabilmente alla costruzione di identità che possono sovrapporsi o annullarsi, affiancandosi o giustapponendosi a quelle percepite dai residenti. Il fenomeno è stato ampiamente studiato da Christian Arnoldi anche nei suoi risvolti più inquietanti: l’altra faccia della celebrazione del folklore nella stagione turistica è spesso l’anomia della triste vita dei residenti, dentro a un’economia che ormai è stata colonizzata e resa dipendente da un turismo di massa che, ben lontano dall’incontrare la vera dimensione della cultura montana, tende a ridurla a stereotipati oggetti di superficiale consumismo [3].
Nel suo saggio, lo studioso inoltre evidenzia come «l’incontro tra cittadini e montanari, il reciproco gioco di sguardi e il conseguente processo immaginario di invenzione abbiano generato nelle valli una vera e propria stratificazione di luoghi e di “dimensioni”».
Ci si può pertanto domandare in che modo degli artisti, invitati a operare in un dato territorio fortemente caratterizzato da consuetudini e appartenenze locali, e i turisti, guidati in questi nuovi percorsi perlomeno da una iniziale curiosità e apertura al diverso, possano sentirsi partecipi dei complessi meccanismi che presiedono nei secoli a una costruzione identitaria [4].
Spesso la risposta degli autoctoni, oscillante tra partecipazione e distacco, rivela la non neutralità dell’operazione, che si trova in bilico sul confine tra autentico e contraffatto, naturale e artificiale, tradizione e stravolgimento. Su questo difficile crinale, ci siamo chiesti se sia invece possibile recuperare la possibilità di una tradizione creativa accanto ad una innovazione non violentatrice, di una “immaginazione”, cioè, che non è sogno né stravolgimento, ma “invenzione”, ossia un modo necessario attraverso cui si entra nella realtà e si costruisce una comune appartenenza, secondo forme sempre dinamiche e rinnovabili.
Metodo e modelli
Se le nostre prime mostre in spazi chiusi rileggevano le possibilità espressive e materiche delle tecniche tessili tradizionali (il ricamo, la canapa, il feltro), con gli anni abbiamo immaginato che una loro diffusione nel territorio avrebbe consentito di meglio raccontare i luoghi della memoria e la loro storia, all’interno di una contaminazione vivace e un intreccio inaspettato tra suggestioni provenienti dagli spazi e dalle strutture locali e il linguaggio proprio di ogni artista da noi invitato. La proposta che ne è nata si collocava così a cavallo tra la public art e la street dance. Non era più a tema, quindi, la semplice esposizione di opere in spazi pubblici, ma la sperimentazione uno stretto colloquio delle opere stesse con un ambiente che diventava esso stesso materiale per la progettazione.
Così facendo, l’opera viene a modificare la percezione degli stessi luoghi, diventando atto interpretativo che, anziché ridurre o replicare simbolizzazioni consunte, reinventa quegli stessi spazi, conferendo loro nuovi significati, attivando lo sguardo dello spettatore, che è reso così più attento dalla novità dell’evento e capace di porsi con stupore dinanzi al “già noto”, in una sorta di epoché della percezione consueta.
La risignificazione delle storie e dei luoghi attraverso le opere degli artisti diventa pertanto una modalità non invasiva di rappresentarsi un territorio senza violarlo, di raccontarlo senza ridurlo, di trasformarlo nel tempo con reinvenzioni partecipate che rifuggono da cliché comodi e ripetitivi e souvenir possessivi. Insomma, un modo di concepire e rileggere il paesaggio risemantizzando attraverso l’arte anche il punto di vista chi lo abita. Questo si rende possibile soprattutto cogliendo nel delicato processo di avvicinamento dell’artista al luogo in cui accade una determinata esperienza creativa il segno di una sincera apertura all’incontro, con una voce, un volto, una persona.
È in fondo lo stesso paesaggio – ci ricorda Gaston Bachelard – a suggerirci, con la sua freschezza, il modo in cui bisogna guardarlo. «Naturalmente bisogna che il paesaggio ci metta un po’ del suo, bisogna che disponga di un po’ di verde e di un po’ di acqua, ma è all’immaginazione […] che tocca il compito più faticoso» [5]. Proprio la medesima immaginazione a cui – continuando la nostra vita errante, con lo sguardo rivolto verso il mondo – non riusciamo ancora a rinunciare.
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