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Modelli culturali e psicoterapia. La lezione di Dwairy
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2018 @ 01:27 In Cultura,Letture | No Comments
La riflessione intorno allo statuto dell’ “Altro”, del “diverso”, parte spesso da una polarizzazione Noi/Voi che per gli studiosi occidentali ha trovato in passato grande fortuna e valore scientifico in tutti i campi del sapere. Se tale suddivisione è stata prevalentemente criticata in ambito antropologico [1], essa incontra, ancora tutt’oggi, consenso in altre branche di studio, troppo spesso appiattite ad una cultura occidentale che non fa emergere le possibili divergenze e differenze presenti in altre culture, spesso viste attraverso le lenti distorte dei pregiudizi e ritenute così inferiori e non allineabili o comparabili a quella occidentale predominante nella società globale.
Il rischio sembra poi decisamente aumentare qualora si prenda in considerazione la psicoterapia ed in generale la psicologia in tutte le sue forme: essa appare, nell’immaginario collettivo, come disciplina utile esclusivamente per uomini e donne “occidentali”, vittime delle crisi dell’Io analizzate da Freud nella prima metà del secolo scorso. Tuttavia, è evidente che, sebbene tali saperi siano considerati come discipline sviluppatesi nel mondo occidentale, la psicologia e la psicoterapia hanno il loro valore euristico e scientifico anche nelle società “altre”, in quanto i disturbi della mente travalicano qualsiasi confine geografico imposto dall’uomo. Occorre tuttavia fare attenzione ad un’ingenuità che potrebbe risultare deleteria per il lavoro dello psicoterapeuta e del counselor, ovvero la pretesa di poter applicare in maniera meccanica concetti, teorie e pratiche della psicoterapia a pazienti e utenti non occidentali.
Prendendo come punto di riferimento il mondo arabo-musulmano, l’errore di ritenere la società araba come terreno privo di insidie e asperità, totalmente passivo e accomodante nella ricezione di elementi “occidentali”, ha spesso portato a crisi di identità, sfociate anche, in determinati casi, nel rigetto in toto dei valori e delle proposte occidentali: chiaro esempio di questa problematicità è riscontrabile anche nella storia dei Paesi arabi della metà del Novecento, costretti a fare i conti con la modernità e tuttavia non disposti ad accettare concetti, come ad esempio il nazionalismo ed il socialismo [2], spesso avulsi dalla realtà sociale quotidianamente vissuta dall’uomo arabo.
Allo stesso modo dei concetti politici, la persona arabo-musulmana potrebbe fraintendere e rifiutare una terapia formulata da specialisti occidentali e elaborata prevalentemente per un pubblico proveniente dalla stessa società dell’esperto. Da queste premesse, si rivela dunque necessario uno sforzo intellettuale e professionale che possa portare anche nel campo della psicoterapia un’indagine critica delle modalità con cui affrontare i disagi e i disturbi psichici dell’uomo arabo-musulmano. Adeguata e efficace risposta a queste istanze viene data da Marwan Dwairy, psicologo clinico operante nell’area di Nazareth, nel suo testo Counseling e psicoterapia con arabi e musulmani. Un approccio culturalmente sensibile (FrancoAngeli ed., 2015, cura e attenta traduzione di Alfredo Ancora), la cui lettura apre interessanti proposte di lavoro ed innovative strategie per la psicoterapia destinati a clienti arabo-musulmani.
La psicoterapia come evento transculturale
L’esperienza di psicoterapia “sul campo” è più che ventennale nel caso di Dwairy; tuttavia, è lui stesso a mostrare come, nei suoi primi anni di attività, la conduzione della professione avesse incontrato non pochi ostacoli, dettati prevalentemente da uno iato profondo tra le teorie studiate sui testi degli specialisti e la pratica di ogni giorno:
Da queste esperienze negative, Dwairy comprese la necessità, per il suo lavoro di psicologo, di approntare una strategia differente per poter agire in maniera efficace con i clienti arabo-musulmani. Evitando l’altro estremo (costruire teorie ad hoc per le persone arabo-musulmane), Dwairy si pose dunque l’obiettivo di creare un ponte che potesse collegare la cultura occidentale con quella orientale, nella consapevolezza che questo esercizio transculturale permette alla psicoterapia di allargare il suo impiego anche in una società differente da quella occidentale.
Le dimensioni dell’individualismo e del collettivismo
Fissato l’obiettivo dell’indagine, Dwairy focalizza l’attenzione verso una distinzione netta tra la cultura occidentale e quella mediorientale. Muovendosi con accortezza, l’autore invita il lettore a sfuggire ai pregiudizi di superiorità di una cultura rispetto all’altra, rifiutando tuttavia allo stesso modo la visione opposta, che pretende di scavalcare le differenze culturali trincerandosi dietro al facile ritornello “siamo tutti esseri umani”; entrambe le opinioni sono difatti pericolose per ogni esercizio che voglia definirsi transculturale. Dwairy pone dunque una distinzione di rilievo (individualismo-collettivismo) sui cui binari si muoverà poi la sua indagine e che dunque deve necessariamente essere ben definita per comprendere tutto il ragionamento dello psicologo laureato all’università di Haifa.
L’Individualismo è la dimensione collegata prevalentemente al mondo occidentale. In un modello di società legato a questa dimensione, l’individuo è visto come un unicum, una persona sufficiente a se stessa e slegata dal suo contesto familiare e sociale. Inoltre, gli obiettivi personali, le proprie ambizioni hanno valore superiore a tutte le altre esigenze della collettività.
Il Collettivismo è il modello sociale legato alla dimensione della collettività ed è in larga misura attestato nel mondo arabo-musulmano e in altre società extra-occidentali. L’individuo, in questo modello, risulta inglobato in un sistema sociale più grande, sia esso rappresentato da una tribù, dalla famiglia, dalla nazione; i suoi bisogni non divergono da quelli della collettività e ogni ambizione personale viene sempre relegata in secondo piano rispetto al bene comune e alle norme di comportamento dettate dalla collettività [3].
La divisione di queste dimensioni deve però essere giustificata per evitare di ricadere in un deleterio orientalismo. Dwairy dimostra quindi la sua radicale convinzione intorno alle differenze tra il modello occidentale e quello orientale (arabo-musulmano, nella fattispecie) attraverso una spiegazione di tipo economico-sociale:
Sebbene Dwairy si appresti a chiarire che comunque «l’economia non può spiegare tutta la variabilità della dimensione collettivista nei diversi Paesi, in quanto anche il patrimonio culturale ha una sua influenza», è evidente la sua convinzione che il mondo dell’economia abbia un peso preponderante nel definire una società come collettivista o individualista. Il punto di vista dell’autore potrebbe, tuttavia, essere integrato con una riflessione sullo statuto della religione islamica, din wa dawla, che per sua stessa essenza non autorizza distinzione tra società laica e religione; l’Islam riguarda ogni aspetto della vita del musulmano, che costantemente deve far riferimento al Libro sacro e alla Sunna per orientarsi al meglio nella sua vita di musulmano, di credente [4]. Questa concezione totale della religione manca nel Cristianesimo e ciò potrebbe aver facilitato quella separazione netta tra religione e mondo laico che si registra nell’Occidente contemporaneo.
Il counseling e la psicoterapia nella società collettivista
Durante i suoi anni di lavoro nell’area mediorientale, Dwairy ha potuto constatare molteplici difficoltà nell’esercizio della sua professione. Queste problematiche lasciano emergere la necessità di ripensare l’attività del counseling e della psicoterapia all’interno della cultura del cliente, creando dunque quel ponte transculturale precedentemente indicato come possibile soluzione alla distanza tra mondo collettivista e mondo individualizzato. Sembra quindi opportuno rivedere alcuni dei punti principali che Dwairy propone nel suo testo, come suggerimento per una nuova psicoterapia attenta alle necessità del cliente arabo-musulmano:
1) Il counselor non deve andare contro la cultura del cliente. Un errore assolutamente da evitare per il counselor è quello di assumere un atteggiamento di superiorità nei confronti della cultura del cliente. Tentare di “salvare” il cliente dalla cultura in cui è in ogni caso nato e cresciuto porta quasi necessariamente a risultati deludenti, in quanto difficilmente egli può accettare che il mondo di valori in cui è vissuto sia messo in discussione radicalmente. Occorre dunque lavorare all’interno della cultura del cliente e non rendere l’attività di psicoterapia un’arena di battaglia tra diverse culture:
2) Il counselor deve conoscere la cultura del cliente, il quale è immerso in un mondo di credenze, di valori che da sempre influenzano la sua vita, in maniera più o meno consapevole. Conoscere questa cultura rappresenta per il counselor un grande punto di forza che gli permette di utilizzare gli strumenti adatti per raggiungere il fine principale del suo lavoro, che è sempre quello di migliorare le condizioni psico-fisiche ed i disagi sociali del cliente. Un interessante esempio è costituito dallo statuto dell’analogia (qiyas): sfruttando questo strumento ampiamente utilizzato nella Tradizione islamica [5], il counselor può spingere il cliente a risolvere i propri conflitti attraverso l’applicazione dell’analogia. In questo modo, il musulmano è portato a riflettere in un modo a lui familiare e congeniale, accettato e promosso dalla sua cultura di riferimento.
3) L’attenzione verso gli strumenti di valutazione è un ulteriore punto che vale la pena approfondire; riguarda l’impiego dei diversi strumenti di valutazione utilizzati dallo psicologo per la sua diagnosi e terapia del paziente. In effetti, ciò che emerge dalle ricerche di Dwairy, è un invito a prestare la massima attenzione ai test proposti al cliente, in quanto, anche se in maniera del tutto involontaria, possono causare una crisi del rapporto con lo psicologo e interrompere la terapia:
Oltre ad un problema di fiducia, emerge la difficoltà legata alla lettura dei test. Essendo quest’ultimi spesso pensati ed utilizzati da un pubblico occidentale, al momento in cui sono proposti ad un cliente arabo-musulmano possono portare a dei risultati distanti da quelli attesi. Tale difficoltà va superata leggendo gli esiti attraverso le lenti della cultura del cliente, evitando così il rischio di ritenere affetto da patologie un comportamento in realtà conseguente e corretto in una diversa cultura.
La Culturanalysis: una terapia nella cultura
I tre punti analizzati nel precedente paragrafo convergono in una felice espressione di Dwairy, la “cultura- nalysis”. Lo psicologo e il counselor non devono porsi in contrasto con la cultura del cliente, accentuandone in modo irrimediabile le differenze culturali, ma entrare nella sua weltanschauung, nel suo sistema di valori, comprendendolo senza giudicare. Come ben specificato dall’autore:
Il culturanalyst diviene quindi figura di estrema importanza, rispettosa della cultura altrui e disposta ad entrare nel suo sistema di valori, allo scopo di trovare elementi culturali che possano prestarsi al miglioramento delle condizioni del paziente; quest’ultimo sarà ben più disposto ad accettare un cambiamento permesso dalla sua cultura rispetto ad uno imposto dalla cultura occidentale dello psicologo e la terapia potrà dunque indirizzarsi verso un risultato positivo e soddisfacente per il cliente.
Un esempio di questo agire all’interno della cultura stessa è rappresentato dall’utilizzo del Corano per risolvere conflitti interfamiliari, materia complessa nel mondo arabo-musulmano in quanto la famiglia costituisce il fulcro della società collettivista. L’autorità famigliare, spesso oppressiva e restia ad ogni cambiamento che possa mettere in cattiva luce la famiglia stessa, può invece accettare un cambiamento se questo viene giustificato con versi tratti dal Corano o con hadith del Profeta. Alcuni esempi tratti dal testo di Dwairy chiariscono al meglio questa strategia di azione:
Conclusioni e rilevanza dell’opera di Dwairy
Il testo di Dwairy è innovativo per molti motivi e la sua lettura permette al lettore, sia esso specialista o semplicemente interessato alla psico- terapia, di comprendere che il tentativo di far rientrare ogni praxis, caso particolare, all’interno di una teoria, di uno schema ben definito, impedisce una corretta visione del problema e, ben più gravemente, protrae nel tempo pregiudizi e concetti di stampo orientalista, completamente inadatti a indagare una realtà complessa come quella arabo-musulmana. Dwairy ha il merito dell’originalità del lavoro, che nasce da una situazione problematica (la disillusione di poter applicare ai clienti arabo-musulmani teorie occidentali) e si risolve nella sfida di una psicologia, di una terapia che deve rimettere in gioco tutte le sue conquiste e convinzioni per poter entrare efficacemente in campo orientale, campo in cui bisogna entrare con rispetto e volontà di comprendere una cultura differente, senza ignorarla o assumerla ad ostacolo lungo il percorso terapeutico.
Lo sforzo dell’autore, del mondo del counseling e della psicoterapia, è in questo caso parallelo a quello di altre scienze: uno sforzo di non conformarsi al “già detto”, di insistere sul riconoscimento plurale e democratico di diverse culture e società, impendendo così la prevaricazione di una cultura occidentale dominante, spesso ricevuta come allogena e fonte di inevitabili conflitti con culture altre. Per tali motivazioni, occorre far nostro l’invito di Dwairy a conclusione del suo testo:
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