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Muoversi e operare nella complessità: alcuni mutamenti dopo l’emergenza pandemica
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2024 @ 03:29 In Cultura,Letture | No Comments
Qualche settimana fa Maura Gangitano e Andrea Colamedici [1], due giovani filosofi promotori di stimolanti dibattiti, hanno avviato sui social un partecipato confronto relativo all’abuso che si sta abbattendo su un termine invero assai delicato: quello di complessità. Vorrei partire proprio dalle loro parole nella riflessione che intendo qui proporre. Innanzitutto perché richiedono uno spazio di senso in apertura, come gli stessi autori puntualizzano, e poi perché finalmente indicano una direzione da seguire quando il termine viene chiamato in causa:
Il significato di complessità
Il termine complesso viene generalmente riportato nei dizionari italiani come sinonimo di complicato, in quanto riferito a «cosa non semplice» [3]. In ambito epistemologico esiste tuttavia tra i due termini una differenza semantica di fondo irriducibile.
Complicato (cum/plica, con pieghe) è ciò di cui non conosciamo ancora la soluzione o il funzionamento (un problema, un contesto, un oggetto), ma sappiamo che risponde ad una relazione lineare che può essere individuata, seppure con fatica, e di conseguenza esplicitata con chiarezza. Complesso (cum/plecto, intrecciato) è invece quel sistema che rivela al suo interno interdipendenze non lineari né prevedibili, da cui non si può uscire con soluzioni esatte e incontrovertibili tali da divenire “ricette” operative o fermi protocolli. Si tratta di differenze che il fisico Giorgio Parisi ha presentato anche ai non addetti ai lavori con un esempio di rara efficacia, attribuendo il primo aspetto all’aereo, che può avere fino a dieci milioni di componenti diversi, ma in cui ogni parte ha un suo scopo estremamente preciso, e possiamo prevedere a priori le conseguenze delle relazioni tra i pezzi dell’ingranaggio (un guasto, una interferenza), mentre è decisamente complesso uno stormo di storni che volteggia sulle nostre teste, mutando inspiegabilmente e improvvisamente direzione, forma e distribuzione dei volatili.
Un sistema complesso non dipende da un progetto artificiale, pianificato a tavolino: è spesso il frutto di un’evoluzione spontanea legata ad interconnessioni tra settori in relazione. La complessità in esso presente deriva dal fatto che noi non abbiamo un’idea facile su come possiamo modificarlo per ottenere che funzioni in una maniera diversa, mentre è certamente possibile modificare il meccanismo del motore di un aereo (Parisi, Ceruti, 2013).
Se è pur vero che nella realtà quotidiana noi abbiamo a che fare anche con problemi semplici (sine/plica, senza pieghe), come quando dobbiamo preparare la parmigiana con la ricetta della nonna o arredare una camera con mobili e oggetti da collocare in uno spazio delimitato, è soprattutto con la complessità che siamo chiamati a fare i conti più seri, sia che si parli di scelte o impegni lavorativi, che nel caso di relazioni interpersonali o sentimentali, di strategie comunicative, di educazione dei figli, degli alunni, dei cittadini, di progetti politici, come di tanto altro ancora. Ecco perché, come sottolineano i due filosofi in apertura, pensare e operare con la complessità rappresenta sempre un punto di partenza, un cominciamento.
La complessità, che con le sue fitte trame si può intendere come una sorta di rete che avvolge l’universo, ci trascina fuori dalle certezze razionali, logiche, prevedibili, e richiede per essere governata nuovi paradigmi scientifici con nuove competenze, senza tuttavia mai svelarsi del tutto. Di questa complessità si è alimentata la riflessione filosofica sin dalle origini, se si tiene conto che già con la ricerca dell’archè il pensiero dell’uomo era ricco più di domande che di risposte, mosso dall’incerto sapere, in quello stato di stupore misto a paura che sarà definito thauma (meraviglia) da Aristotele. È tuttavia dalla fine dell’Ottocento che la crisi delle risposte, che la scienza aveva già dato in età moderna come certe e razionali, finisce col travolgere tutti i settori del sapere [4].
La complessità, dell’universo e della sua lettura, prende il sopravvento, si incrinano certezze secolari basate sui processi generati da un determinismo meccanicistico nel quale, data una causa, ci attendiamo sempre lo stesso effetto. La scienza predittiva è chiamata a cambiare paradigma, deve allontanarsi dal riduzionismo del modello cartesiano, in cui il tutto equivale alla somma delle parti, e accogliere una «crisi dei fondamenti», in cui prendono spazio il disordine, il caso, l’incertezza.
Lo studio dei sistemi complessi, delle particelle elementari, delle scienze umane e delle neuroscienze, così come l’introduzione dell’epigenetica [5] nella biologia contemporanea hanno evidenziato come conoscere scientificamente qualcosa non significa necessariamente poterne interpretare il futuro (Cravera, 2021:11).
Nella realtà non constatiamo in effetti una linearità, facciamo piuttosto esperienza di sistemi che si trovano dentro altri sistemi, governati da relazioni dinamiche in cui la certezza futura viene sostituita da un più saggio probabilismo. Non significa questo – sostiene il fisico Carlo Rovelli – che «dobbiamo accettare l’idea che la realtà sia solo interazione?» (Rovelli, 2014) [6].
Il nuovo paradigma scientifico non punta più ad isolare elementi da studiare nella loro autonomia ontologica, ciascuno con caratteristiche proprie già definite, bensì interpreta fenomeni e mutamenti che si influenzano reciprocamente e retro-attivamente, in cui l’alto livello di interconnessione che influenza le relazioni conduce a modifiche inaspettate, dalle quali provengono ulteriori spinte a modificare il contesto, per essere a loro volta modificate. Irrompe sulla scena una sorta di “disordine costruttivo”. È proprio quanto accade in un gregge in movimento o in un volo di storni (Parisi, 2021) [7], nei fenomeni sociali e nella stessa origine della vita, laddove non possiamo che constatare, al posto di spiegazioni lineari, la presenza di «proprietà emergenti» che chiedono di essere conosciute [8].
Il principio di complessità, come sostiene uno dei suoi teorici più importanti, il filosofo Edgar Morin, non solo vieta qualsiasi teoria unificatrice, ma riconosce l’ineliminabilità della contraddizione [9], dell’incertezza non razionalizzabile. Di conseguenza, la presenza del caso nella catena delle logiche connessioni rompe i paradigmi epistemologici tradizionali, impone l’attenzione per la trasversalità e le interdipendenze dei piani e dei saperi. Un nuovo paradigma orienta anche le innovazioni tecnologiche, che possono così aiutare a leggere e affrontare la complessità del reale.
Va da sé, data questa premessa, che tutta la storia della convivenza umana, nella sua relazione con l’universo, ha a che fare con la complessità. Non è mai certa infatti tra le persone, e tra esse e il mondo circostante, una relazione scontata né si possono prevedere conseguenze rigorosamente definite dell’operato di donne e uomini nei diversi contesti. Ogni giorno facciamo esperienza della rete di contatti, condizionamenti e situazioni che orientano il nostro comportamento facendo crollare processi di lettura e progetti d’azione strettamente determinati da cause note e univoche. In quello che è stato definito «l’errore di Cartesio» (Damasio,1995: 336-341), e cioè la separazione, per caratteri e funzioni, tra una res cogitans e una res extensa, tra pensiero, emozioni e fisicità del corpo, il neurologo Damasio ha visto i pesanti limiti nell’interpretazione delle vicende umane e ha suggerito di «ricordare a noi stessi e agli altri, ogni giorno, la nostra complessità, fragilità, finitezza e unicità» (Damasio, 1995: 341), al fine di evitare di rimanere intrappolati in schemi di scarsa efficacia esplicativa sull’agire umano.
Qualche anno prima Karl Popper, a cui va riconosciuto un fondamentale contributo nella crisi del paradigma classico della scienza, aveva ripreso la celeberrima metafora del “tacchino induttivista” di Bertrand Russsell, per rendere evidente il fallimento di ogni predizione comportamentale basata sulle esperienze passate, e dunque legata a rapporti causa/effetto già noti. Lo scacco interpretativo dell’induzione si aggiungeva a quello della pura deduzione cartesiana, imperniata sull’analisi del problema non immediatamente «chiaro e distinto», che andava scorporato in dati semplici da cui ricavare conclusione di sintesi, come se il tutto potesse derivare da una semplice somma delle parti, per condurre ad «enumerazioni tanto complete, e rassegne così generali da essere sicuro di non dimenticare nulla» (Descartes, 2011).
Le nostre economie si presentano in verità come sistemi complessi e privi di nessi assolutamente scontati e definiti, data la multiforme azione di fattori che possono alterarne il corso tradizionale già conosciuto. La semplificazione che viene talvolta adottata, curando la singola parte e non la totalità, è un errore ricorrente. Non si tratta però soltanto di un discorso per specialisti di scienza o di nodi economici. Anche Umberto Eco (1988) ha ripreso l’espressione: «Per ogni problema complesso esiste sempre una soluzione semplice, ed è quella sbagliata», ricordando il rischio che si corre semplificando – spesso in modo grossolano – ciò che è strutturalmente complesso.
Il fallimento delle semplificazioni si è presentato puntuale nei grandi momenti di incertezza storica, come nella crisi del 1929 e ancora in quella del 2008: si guardava ciecamente a fattori isolati per capirne le cause e trovarne la cura, mirando a semplificare il problema, e invece, come purtroppo ben sappiamo, le cose sono state e rimangono difficili da comprendere e soprattutto da affrontare, quando si rimane aggrappati a parametri di lettura tradizionali.
Ne abbiamo avuto ulteriore conferma nella seconda fase della recente pandemia, successiva al lockdown. Il coinvolgimento di virologi ed epidemiologi da un lato, e quello di economisti, imprenditori, psicologi dall’altro ha avuto certamente come scopo quello di ridurre la complessità della tensione sociale, ma probabilmente sarebbe stato più efficace fare un unico tavolo dei lavori con un team ristretto composto da esperti con diverse competenze, al fine di governare con maggiore efficacia le conseguenze che la pandemia rivelava nei diversi settori della società (Cravera, 2021: 31-33).
Un habitus per un mondo complesso
Come muoversi allora nella complessità per pensare bene, e agire di conseguenza? Certamente «aprirsi a molteplici punti di vista, ricercare il confronto e il diverso, aspettarsi l’inaspettato, uscire dal proprio sapere specialistico, farsi nuove domande, non accontentarsi delle solite risposte» (Cravera, 2021: 101) facilita la “ridondanza cognitiva”, quel processo che abitua a cercare tante prospettive di lettura del reale prima di prendere una decisione. Non si tratta certo di opera facile poiché anzi occorre allenarsi con quotidiano esercizio, sia accogliendo la necessità dell’errore, foriero di nuovi interrogativi e percorsi da esplorare, che coltivando reti di esperienze e conoscenze in grado di arricchire la nostra interpretazione della realtà.
Se guardiamo al contesto lavorativo, ad esempio, il team working si presenta uno strumento molto utile per muoversi con successo nella complessità: il confronto fra colleghi, partner, stakeholder arricchisce notevolmente sia le competenze di relazione che le conoscenze trasversali. Fa inoltre maturare meta-competenze per raggiungere obiettivi, valutando meglio le difficoltà da superare, per leggere rapidamente la situazione in cui ci troviamo, per divenire consapevoli delle possibili e delle diverse conseguenze del nostro agire, per costruire contesti di relazioni favorevoli per il fine individuato. Il team attiva aperture inclusive, incoraggia ibridazioni cognitive e ci prepara ad affrontare con maggiore successo la complessità del mondo. Una formazione in ogni settore professionale orientata in tale direzione rappresenta sempre un punto di forza [10]. E riprende quella per certi versi introdotta dall’attivismo di John Dewey, con l’appello costante all’esperienza che alimenta le idee e le azioni, destinato ad aprire strade nuove nelle strategie educative (Dewey, 2014), scartando soluzioni aprioristiche, ignare dell’identità dei soggetti impegnati nell’agire e delle loro esperienze precedenti.
Le diverse metodologie applicate in campo educativo, a loro volta, hanno rivelato che nessun piano può avere successo se trascura la fluidità costante di ciò che esperiamo e i nessi improvvisi che si accendono, da cui possono scaturire comportamenti non contemplati in un’analisi astratta dei processi, che però assumono rilievo nelle dinamiche sociali. Programmare è pertanto necessario per orientare l’attività verso un fine, ma è altrettanto importante rivedere e adattare in corso d’opera quanto è stato inizialmente pianificato, nella formula del work in progress permanente, data la natura elastica, e per l’appunto complessa, della psicologia umana. Non si tratta di opera facile né scontata, specie nella «società liquida»[11] in cui siamo immersi, in cui i repentini mutamenti di valori e di riferimenti aggiungono precarietà e incertezze alle nostre già fragili esistenze.
Alcuni mutamenti nei sistemi complessi dopo l’emergenza pandemica
Dalle diverse analisi che sono state condotte sulle conseguenze sociali della pandemia da Covid19 sono emersi certamente possibili rischi legati alla lunga chiusura e all’isolamento generato dall’emergenza, che avrebbero potuto condurre a nuove fragilità e disagi relazionali [12].
Eppure la stessa pandemia, devastante per mortalità e alterazioni socio-economiche, ha a sua volta avviato conseguenze non prevedibili su altri piani, modificando comportamenti e prospettive d’azione e di lavoro in modo significativo. L’urgenza della comunicazione, sia scritta che orale, attraverso un ricorso più familiare al digitale, un diffuso interesse per le conoscenze mediche, la maggiore attenzione per pratiche igieniste e sanitarie, l’evidenza che i processi d’intervento nel reale dipendono da interconnessioni di fondo, appartengono ormai alla consapevolezza planetaria. Il filosofo Maurizio Ferraris (2021: 66) include tra gli assiomi della sua analisi che non dobbiamo avere paura del progresso perché è certamente più fecondo comprendere il mutamento e partecipare alla trasformazione delle cose:
Il mutamento repentino dal marzo 2020 ha interessato miliardi di persone, costringendo le organizzazioni lavorative ad attrezzarsi rapidamente per permettere il lavoro a distanza dei loro collaboratori, anche se non sempre con un adeguato livello di sicurezza per le persone e i dati, catapultati improvvisamente nel movimento virtuale. In tale quadro di comportamenti, il lockdown si è comportato come forte “attrattore emergente”, determinando in modo spontaneo necessari cambiamenti e adattamenti all’interno delle organizzazioni, con risultati di gran lunga più rapidi e articolati di ogni precedente “attrattore deliberato”. Ciò che da tempo era sospeso per impedimenti di vario genere, insomma, ha trovato strade aperte che ne hanno permesso lo sviluppo (Cravera, 2021) [13]. Nel caso della scuola, ad esempio, non era stato sperimentato fino a quel momento un collegamento da remoto su piattaforme istituzionali, che pure esistevano per scambi didattici e condivisione di materiale.
Tuttavia, la necessità del momento, facendo leva sull’abitudine al lavoro collegiale e su una formazione digitale pregressa di molti docenti, ha fatto sì che l’anno scolastico proseguisse senza interruzioni, seppure con inevitabili nodi da sbrogliare soprattutto per il coinvolgimento di minori nella rete e di una notevole quantità di dati sensibili immessi senza precise regole già formulate. Il conseguente ingresso agevolato del digitale nelle scuole e nei sistemi educativi ha a sua volta generato altre criticità, su cui tutti gli operatori, a diversi livelli, sono chiamati ad intervenire per leggere e orientare al meglio i benefici della sua applicazione.
Per analogia, è possibile sostenere che il ricorso forzato allo smart working da parte delle aziende, che pure erano spesso prive di esperienze nel campo, non ha tuttavia portato alla paralisi delle loro attività, ha semmai sostituito la cultura basata sul tempo di lavoro con la cultura del risultato, ha aumentato il livello di autonomia delle persone nello svolgimento del compito assegnato, nonché il ricorso capillare alle tecnologie disponibili che fino a quel momento erano state trascurate.
Oggi il ricorso al digitale è più diffuso anche tra le fasce di età che prima della pandemia erano ancora distanti, e anche se impone un necessario controllo e una più accorta regolazione d’uso specie quando riguarda i più piccoli, certamente ha aumentato la capacità di consultazione delle informazioni da parte dei più anziani, diminuendo la loro marginalità dai sistemi comunicativi e operativi, ormai sempre più spinti verso la dematerializzazione nella trasmissione dei contenuti.
A quasi quattro anni dall’inizio del lockdown si può certamente evidenziare (Cravera, 2021: 62) che:
Evoluzione che può procedere, se si vuole dare valore non solo al cosa ma anche al come della finalità delle nostre azioni, solo da una nuova strategia sistemica, con al centro una social collaboration nei diversi settori chiamati in causa e la consapevolezza di vivere, muoversi ed agire in sistemi complessi non semplificabili.
Dalle interazioni tra le persone presenti in ogni organizzazione possono scaturire «iniziative, rituali, idee, prassi comportamentali che influenzano la traiettoria evolutiva del sistema» (Cravera, 2021: 64), esiti che dunque dipendono dall’approccio di fondo adottato. Nell’habitus da acquisire gioca senz’altro un ruolo non secondario la capacità di ascoltare l’altro, l’esercizio costante all’attenzione quando l’altro parla, l’attesa di nuove parole e l’incrocio con le idee che pian piano prendono forma dal tempo [14].
Dalla scoperta dell’alterità che il lavoro in team, l’ascolto e l’attenzione per i mutamenti in atto favoriscono, dalla collaborazione tra competenze trasversali, potrebbe scaturire la nuova maieutica per governare la complessità, se sapremo giocarci ovunque e bene questa carta di crescita sociale e culturale. Perché tutti siamo chiamati in causa, come singoli e come comunità. Ancora una volta, va fatto appello a quell’antica saggezza: Homo sum, humani nihil a me alienum puto.
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