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Muri bianchi. Appunti gattopardeschi
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2024 @ 03:33 In Cultura,Letture | No Comments
Non son farfalle, son ombre leggiere
sui muri bianchi e grigi
del ricordo.
[Filippo De Pisis, da Ombre, 1942; 2003]
Sui depisisiani muri bianchi si proiettano ombre leggere simili a quelle che ritroviamo nella tremula e sfuggente realtà notturna di Lucio Piccolo. Due condizioni spirituali nate dal disagio inaspettatamente trasformate in parole e segni di forte impatto creativo. Una energia che conduce alle Ombre di Ernst H. Gombrich: ombre proiettate da abitatori di quadri o di stanze in improvvisi guizzi di luce e che, pur nella loro persuasiva incorporeità, si rendono oggettivi, si consolidano in ‘altra’ inoppugnabile realtà per il sol fatto d’essere visti, guardati, rappresentati. E, nel rammemorare, il ricordo possiede molto dell’ombra e dei suoi abitatori tutt’altro che effimeri e inconsistenti.
Abbiamo piena consapevolezza, – per altro confortati sia dalla saggistica sul tema sia dall’intensità delle memorie famigliari testimoniate dalla consorte di Tomasi di Lampedusa, Alessandra (Licy), – che gli otto capitoli dei Luoghi della mia prima infanzia, del giugno 1955, siano stati, pur nel mantenimento di una loro autonomia alimentata dal forte impulso sentimentale, lo scrigno di una privata rammemorazione non destinata alla stampa. Siamo a conoscenza che la letteratura soffre (o si avvale) della prezzoliniana ‘imprevedibilità’, e, in questo caso essa, già inconsapevolmente destinata ad esser preludio, avvia un meccanismo di riassorbimento per un esercizio di scrittura che verrà fluidificato nell’alveo strutturale del Gattopardo (1957; pubblicato postumo nel 1958).
Pagine interessanti, avverte Bassani, proprio per quel loro mantenere l’impeto autonomo del racconto consegnato poi all’interezza del romanzo, ma anche per quel loro accogliere una sottile rete sonora in forma di «delicata, dimessa, incantevolmente esitante, quasi settecentesca musica da camera». Per alcuni aspetti essa è quella «musique retrouvée» nata, ora dalla «collisione tra il mondo dei numeri e la passione» – una possibile condizione, tra le tante, ricordataci da Peter Sloterdijk nel suo “Discorso al Festspiele” di Lucerna (11 agosto 2005), – oppure quella sbocciata dal groviglio dei “termini sentimentali” in quanto pervasi da “atmosfere” suggeriti da Antonio Somaini (2007), o ancora sollecitata dai versi ribollenti della Tempesta di Shakespeare (Atto III, Sc. 2°, trad. A. Lombardo): – «A volte sento | mille strumenti vibrare | e mormorarmi alle orecchie. | E a volte voci che, | pur se mi sono svegliato | dopo un lungo sonno, | mi fanno addormentare di nuovo» – rammentati da Francesco Orlando nel suo scheiwilleriano Ricordo di Lampedusa (1963; 1985) e, non ultimo, come accade per il nome del cane Bendicò, che «si rifà a due versi del libretto di Rigoletto (Ah! ah! rido ben di core – ché tai baie costan poco… ».
Un racconto, dunque, covato nell’intimo creativo di Tomasi il quale, nel momento della sua gemmazione, forse, sopra ogni altra cosa, vi serpeggia – ineluttabile sinfonia mortale d’esistenza dello scrittore, – una premonizione capace di restituire empaticamente (per quanto le ‘premonizioni’ possano a volte porsi quali stimolanti indicatori), l’urgenza di dover fissare la dimensione fisico-simbolica dell’oikos. Tale dimensione delle dimore contiene quel quanto di ‘vite’ e ‘cose’ e di ‘atmosfere’ che in essa si riproducono, si mischiano e si ricompongono per frammentarsi ancora nella foggia d’un ventaglio di scaglie adatte a ferire le parabole esistenziali (non dimenticando che ciò che sanguina vive), e in che maniera, da tale intrico, il poter essere delineata la complessa estensione di una essenza marchiata, in maniera indelebile – pur nella frammentarietà del vissuto e le difficoltà mostrate dal rigore formale della sua famiglia nei confronti della moglie – tutto il percorso biologico dello scrittore palermitano così amaramente toccato sin nel profondo dall’intricata pratica coniugale con Alexandra Wolff-Stomersee.
Il romanzo, pagine di vita e diorama di un tempo riposto sull’orlo dell’ineluttabilità del declino, proprio nella sua disposizione alla naturale veggenza, appare pronto a riconsegnare alla società futura le ripetute discrasie che abitano l’umana congerie e che hanno segnato il tempo trascorso, ripresentandosi vichianamente, se non nella forma, nella sostanza, in un quadro di rivoluzionaria metamorfosi trascinatrice d’un fuoco originario acceso fin dalla determinazione dell’Unità d’Italia. Una periodizzazione che, raccolta da Giuseppe Prezzolini, gli fa annotare, – egli autore sensibilissimo al valore ponderale dei mutamenti, – la «caratteristica del prodotto letterario, [cioè] la sua imprevedibilità»: temi icasticamente espressi nel capitoletto sui “Consigli di un autodidatta” del suo Tascabile della letteratura italiana, in cui Il Gattopardo vien posto a confine e suggello dell’esperienza narrativa novecentesca. «Il mondo dei tecnici letterari»”, sottolinea (cap. XI), «non accettò che a malincuore il siciliano Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), il quale, rimasto tutta la vita lontano da quello, ci lasciò un libro profondo, poetico, potente, che conquistò l’Italia e tutto il mondo: Il Gattopardo». D’altronde, avverte, sono «le epoche che aspettano gli scrittori e non gli scrittori che aspettano la loro epoca per essere riconosciuti».
Nei Racconti, pubblicati postumi nel 1961 (nella collana I Contemporanei, al n. 26), Giorgio Bassani in prefazione suggerisce di come Il mattino di un mezzadro – elemento della triade dei racconti di Lampedusa (La gioia e la legge; Lighea) – debba essere considerato, con molta probabilità, quello capace di offrire i collegamenti con il ductus narratologico gattopardiano. Non è, peraltro, un caso che per essi, egli sottolinea: «la principessa Alessandra di Lampedusa, consorte dello scrittore, ci informa che esso nacque non come cosa a sé stante, ma come primo capitolo di un romanzo che si sarebbe dovuto intitolare I gattini ciechi e che, in certo qual modo, avrebbe dovuto rappresentare il seguito e la conclusione del Gattopardo. Che sia stata proprio Alexandra a sollecitare il marito «a scrivere della vita che ha vissuto il palazzo, com’era, cosa succedeva», e a spronarlo con: «Scrivi e tutto vivrà come prima», è ormai noto. Pertanto, è assolutamente pertinente l’immagine coniata da Caterina Cardona, nel suo libro indagatore delle epistole intercorse tra Giuseppe e Alexandra, la definizione di “matrimonio epistolare” (Palermo 2023) collocata alla base della genesi del romanzo e, non ultimo, il rilievo di quel pungente scatto d’orgoglio che Giuseppe mostra nei confronti del cugino Lucio Piccolo, il quale aveva già dato alle stampe, – dopo il manipolo delle sue 9 liriche (una edizione locale a sue spese; 1954), – con l’autorevole avallo di Montale (lo «zio» scherzosamente indicato da Lucio), i suoi Canti barocchi e poi Gioco a nascondere.
Così leggiamo nell’epistolario, una lettera del 31 marzo 1955 indirizzata all’amico Guido Lajolo (via Butera, 28, Palermo):
Nella lettera che accompagnava i suoi Canti barocchi, Lucio Piccolo rivela a Montale le implicite spezie e tutta la fascinazione dei sentimenti rammemorativi e il gusto di una pratica intellettuale potremmo dire di anastilosi in cui da un frammento di ricordo – esperienza che coinvolge sia Lucio che Giuseppe – si va ricostruendo l’intero dei fatti, delle immagini, degli accadimenti a volte minimi, ma che sviluppano il loro fondante rilievo sui giudizi, sulle siciliane pieghe ludico-ironiche necessarie ad affrontare le ombre infide della quotidianità. In particolare, si consolidano, nel lieve precipitare d’una pioggia minuta fatta di cristallizzate sensazioni, le scompiglianti atmosfere nelle quali Lucio, Casimiro, Agata Giovanna e persino, nel loro inconscio alito dadaista, i fumi ectoplasmatici delle ‘trachettili’ e le resinotipie di Raniero Alliata (entomologo e fotografo d’arte, bizzarro cugino di Tomasi) contribuendo ad esporre a Montale, attraverso l’urto di tale ensemble parentale, i termini della poetica piccoliana.
Un racconto di anime vissute in quel singolare quanto seduttivo clima abitato dalle ombre, da voci impalpabili e di come, quindi, fosse sua precisa
Per Alexandra Wolff, così per Giuseppe Tomasi, la “casa”, il Palazzo, la dimora stricto sensu, i luoghi sono spazio di incubazione del loro miltoniano Paradise Lust: vapori, “atmòs” che per inconscio approccio archetipico si leggono nella qualità di sentimenti non soggettivi, ma disseminati all’esterno e capaci d’incidere sullo schema corporeo in virtù di evocazioni propriocettive, un attenersi a quella fenomenologia delle atmosfere provocata – osserva Antonino Griffero – da «risonanze proprio-corporee suscitate in noi dagli spazi (vissuti) in cui ci troviamo e, come tali, decisive per la qualità della nostra intera esistenza». Sono ‘spazi’ che rintracciamo in diverse pagine del Gattopardo in cui si rivelano anche i segnali architettonici degli ambienti di Villa Calanovella a Capo d’Orlando, luogo assoluto dei tre cugini di Giuseppe in cui aveva stanza, lui ospite amato: l’osservatore di oggetti cui rivolgeva il suo riflettere fino all’immersione nel turgore del parco o il conversare, con Lucio, nel grande sedile in pietra tra i refoli giunti dalle serre nebroidee. Ovviamente Palermo: le sue chiese barocche, gli oratori, come quello di Valverde a cui Lucio Piccolo dedica nei suoi Canti Barocchi (1956) una vibrante e policromatica poesia, “Oratorio di Valverde”, nella quale – scrive – «Traevi con te ne l’incanto | le migrabonde stagioni, | ognuna ora dona il suo vanto | e sono albicocche in festoni, | pesche, ciliegie, viticci attorti, | orgoglio fragrante degli orti». Su tale opulenza versata in stucchi, in dipinti, in tralicci botanici, in archivolti, vengono tracciati per sempre più insinuanti versi, per echi, per voci umbratili, per cigolii, i prepotenti ritorni di quelle “risonanze proprio-corporee” pronte a investire a pieno le anime che tra esse vivono o che son vissute «fra le volute, fra gli archi che vincono gli estri | più anelli delle tastiere, pavoni, uccelli del paradiso, fagiani | bevono in conche cilestri, | la fuggitiva dell’Arca porta l’oliva | fra i melograni».
Ma, in Lucio, emergono anche i luoghi “inesistenti” evocati in Gioco a nascondere, che stanno in parallelo ai luoghi svuotati dal tempo del gattopardesco palazzo di Donnafugata, in isolate parti sgombre e occupate da polvere compatta, premonitrice cumulo di quel «mucchietto di polvere livida» definitivo sigillo al suo romanzo, confinando così in esso i relitti della memoria, le scorie di esistenze in attesa che possa accendersi una passione amorosa, un’amarezza pungente, una svolta della storia e diventare, anche se per un attimo, visibili, vive per poi far ritorno alla loro oscurità, alla loro derelizione. Quel palazzo, si ribadisce in Un matrimonio epistolare, dai corridoi «lunghissimi, stretti e tortuosi, con finestrine grigliate che non si potevano percorrere senza angoscia», rievocati nel Gattopardo, è area di decantazione degli sguardi trascorsi, d’icone miscelate, nel rispecchio, per analogia, all’assetto del prosimetro di Gioco a nascondere dove son depositati fuochi notturni, apparizioni, il desueto degli oggetti, le metamorfosi delle dimore e con esse le angosce che agitano le anime:
Di certo il rapporto matrimoniale possiede suoi precisi lacci, tra questi, opportunamente segnalato da Caterina Cardona, i versi di Rilke del 1908 (Requiem per un’amica), scarificati nella loro natura dalla Mitobiografia di Ernst Bernhard e per i quali, lo psicoanalista junghiano di origine berlinese, scriveva: «Nel matrimonio ci sono due fasi che coincidono con la prima e la seconda metà della vita, ma che – come tutta la problematica delle fasi della vita in genere – coesistono sempre l’una accanto all’altra e si intersecano con problemi di tipo, di carattere e di destino» (Cardona, 2023: 31; Bernhard, 1969: 102); due fasi, dunque, mosse con l’esigenza del “tenersi” e quella del “lasciarsi” in cui possono associarsi anche le estreme conseguenze di un’idea coniugale espressa teratologicamente dall’immagine della coppia consegnata da Édith de la Héronnière, quella di un ‘mostro a due teste’ che leggiamo nella “Guerra dei sessi” (Guerre, 2006). Cardona ci avverte di come lo scrittore «nel proprio intimo avrà cercato di dissolvere i fantasmi con la luce analitica e terrestre della psicologia del profondo, che gli veniva invece dalla principessa; anche se usava scherzare sull’impossibilità o sul rischio di «farsi psicoanalizzare dalla propria moglie».
Alla visione freudiana dell’uomo, Lampedusa aveva sostanzialmente aderito (‘non senza rilevare che il «monoteismo», cioè la tendenza a postulare un principio di spiegazione unico, lo si ritrova nel pensiero religioso o ateo di grandi ebrei moderni, Spinoza, Marx e Freud’). Non si può dire, si rileva, come narratore, che egli abbia ‘messo in azione con particolare evidenza l’inconscio dei suoi personaggi’: ma vi sono, nondimeno nel Gattopardo i «mostri» che «si erano rintanati in zone non coscienti» da cui sale il «dolore nero» di Concetta, e che non è altro che l’inconscio (secondo Freud appunto atemporale) di lei». Quei mostri nutriti dalla prossimità con Lucio Piccolo (i due cugini si rivolgevano scambievolmente col termine di “mostro), dal loro amore per i cani, dai baluginamenti fotografici e visuali di Casimiro, dai punzecchiamenti e rivalità che hanno portato Giuseppe a seguire le sollecitazioni di Licy (trasposizione del suo attaccamento al castello di Stomersee) a scrivere delle dimore viste come organismi sicuri tra turrite scatole della memoria, fogli del tempo, dell’infanzia, del rapido dispiegarsi delle loro vite tra fragantie floreali, cromie di verdi e i grappoli gustosi delle pietanze naviganti per il mare quieto di Capo d’Orlando o i cieli tersi e affocati di Santa Margherita Belice.
I mostri, comunque ci son sempre; essi sono, come leggiamo nel Matrimonio epistolare,
oppure nel volgere attenzione ai poeti: sul chi sono, dunque, i poeti autentici, i ‘puri’, Sebastiano Vassalli – nello scrivere di Campana, l’autore dei Canti Orfici, – ne delinea con certezza la cripto-morfologia: «gli unicorni, i mostri».
Se il senso dell’oscurità disegna molto del podio esistenziale della Sicilia, bisogna ricordare che esso insiste su tale scrittura nella funzione non effimera della luce che contrassegna le varie tessere geologiche (geoculturali) agendo sulla estensione e varietà dei comportamenti degli abitatori dell’Isola: dal centro di essa, a separare la costa orientale dalla occidentale, proprio da Caltanissetta, – scrive Vitaliano Brancati il 15 marzo del 1938 (lettera pubblicata su “Omnibus” col titolo “Gli amici di Nissa” ) – «la vita diventa meno grossolana, ma la capacità di sorridere si estingue del tutto; il senso del ridicolo abbandona qui la littorina che da Catania vola a Palermo. Se il sorriso è una luce, la costa occidentale della Sicilia può dirsi perfettamente al buio. Abbandonati dal senso del comico, i siciliani si fanno gravi e metafisici».
La luce influenza, dunque, anche i comportamenti, la pigrizia occidentale ne è un esempio; e Giuseppe Tomasi di Lampedusa la coltiva come un’esigenza primaria, in essa vede l’unica possibilità di mantenere viva la capsula della memoria, assaporarne ogni segmento, condirla con la sua malinconia, con l’esercizio sull’umorismo pirandelliano che pone le sue radici nel sentimento d’angoscia in Kierkegaard, o forse il mantenere quelle «vestigia di molte epoche e passioni del cuore e del mondo» osservate da Henry Maximilian Beerbohm. Una luce solare siciliana la quale, – chiarisce Francesco Orlando nel suo perfetto saggio L’intimità e la storia, – ha necessario bisogno (per certe anime) della ‘schermatura’ alle finestre, di assopite penombre: unico possibile ambiente signorile, armonico, unico possibile cammino per non disperdere il tutto nel livore cinerino dell’oblio.
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