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Noterella sull’incredibile viaggio del “tabbùto” dall’antico Egitto alla Bibbia, e dal Corano al dialetto siciliano
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2024 @ 01:03 In Cultura,Letture | No Comments
di Massimo Jevolella
Quando Giuseppe Laras – allora Rabbino Capo della Comunità ebraica di Milano, grande studioso del pensiero di Maimonide 1 – mi recitò lentamente il versetto 3 del secondo capitolo dell’Esodo, dove si narra del salvataggio di Mosè neonato nella cesta sulle acque del Nilo, io ebbi un sussulto. E lo pregai di interrompersi, perché volevo porgli una domanda. Quella parola ebraica, tēvāt, (tēvāt gōme: תבת גמא), ossia “cesta di papiro”, subito mi aveva ricordato che nel Corano (XX, 39) la cesta di Mosè si era curiosamente trasformata in una “cassa”, o “cassetta”, presumibilmente di legno, e che il suo nome era tābūt (تابوت). Che in arabo vuol dire anche e soprattutto “cassa da morto”, “bara”, come nel siciliano tabbutu, nel napoletano tavuto, nello spagnolo ataúd, che dall’arabo appunto derivano. Dunque, come poteva una cesta galleggiante, strumento di salvezza e quindi di vita, essere diventata una bara? E quale mistero doveva celarsi dietro a quelle coincidenze linguistiche? 2
Con grande pazienza, l’amabile Rav Laras mi spiegò che una delle prime regole grammaticali dell’ebraico è quella del cambio di desinenza del femminile, che nel caso costrutto (come appunto nell’espressione tēvāt gōme) da he (ה) si trasforma in tau (ת). Ed ecco infatti che nello stesso capitolo dell’Esodo, al versetto 5, la famosa cesta diventa una tēvāh (תבה), e non è più una tēvāt. Insomma, per dirla in modo un po’ scherzoso, non è più un vero tabbuto, ma una specie di tabù, con una leggerissima h aspirata finale. Tornando seri: la vera radice trilittera del nome ebraico non è dunque t-b-t, ma t-b-h, che nell’equivalente arabo assume invece la forma più decisa t-b-t.
E tuttavia, a dispetto di quelle precisazioni e distinzioni, il dottissimo Laras rimase anch’egli colpito dalla chiara, inequivocabile coincidenza dei termini che definiscono la navicella salvifica di Mosè nella Bibbia e nel Corano. Ma in più, per pareggiare i conti, mi rivelò anche un’altra cosa, che mi riempì di ancor più grande stupore. Sfogliò le pagine della Tōrāh fino a fermarsi sul versetto 14 del sesto capitolo della Genesi, laddove si narra del diluvio universale, e mi indicò tre parole: tēvāt ‘atsē-gōfer (תבת עצי גפר), ossia “un’arca di legno di cipresso”. L’arca di Noè! Proprio così: nella Bibbia, la parola tēvāt (in realtà tēvāh, come s’è visto), ricorre per designare sia la cesta di Mosè, sia l’arca di Noè. Due strumenti di salvezza, due imbarcazioni provvidenziali, poste sulle acque per dare inizio a una nuova era nella storia del popolo di Dio.
Così il mistero cominciava a chiarirsi, e a illuminarsi di imprevisti significati. Eppure, qualcosa mancava ancora per dare un senso perfettamente comprensibile a quella coincidenza lessicale, che da una cesta, un naviglio, un’arca, conduceva fino alla cassa e al “tabbuto”. Ma bastò poco per colmare anche quel vuoto. Per stabilire un ponte anche concettuale fra la tēvāt biblica e il tābūt coranico. E quel piccolo elemento chiarificatore mi giunse inaspettato, poco tempo dopo, quando lessi il commento ai versetti 14-16 della Genesi nell’edizione curata da Emanuele Testa per le Edizioni Paoline 3. Scrive dunque il commentatore nella nota a quei versetti:
Queste parole hanno qualcosa di stupefacente. Lasciano intuire, e immaginare, l’abisso temporale e culturale su cui s’affaccia e galleggia questa bizzarra parola siciliana, tabbuto, che sbrigativamente ci si limita a spiegare come un termine derivato dall’arabo: una cassa da morto, e nulla più. E invece… E invece ecco apparire, facendo luce in quell’abisso, non solo i racconti della Bibbia e del Corano, ma anche gli idiomi e i miti, ancora più antichi, dell’antico Egitto, della città di Tebe (t-b-h: la nostra tēbāh!) e delle civiltà mesopotamiche (del resto sappiamo bene come la vicenda biblica del diluvio, dell’arca e di Noè abbiano il loro antecedente nella storia archetipica di Utanapishtim narrata nell’epopea di Gilgamesh).
Ed ecco rivelarsi, come nel mito di Iside e di Osiride narrato da Plutarco, l’assoluta equivalenza di senso tra la cesta-navicella-arca di salvezza e la bara: è la barca di Osiride, che conduce verso l’Egitto il corpo del dio morto, e dove si consuma lo hieròs-gamos tra Iside e Osiride 4. La bara è dunque una barca: perché la morte è salvezza, dal momento che conduce il defunto verso una nuova vita. E basti pensare, appunto, all’ampia iconografia delle “barche funerarie” (oltre che delle barche dei campi elisi, delle barche lunari e solari, e di quelle processionali) presenti nelle raffigurazioni egiziane 5. Il simbolismo della navigazione è perfetto e universale: la stessa Chiesa cristiana lo accoglie come immagine chiara della sua missione salvifica ed escatologica. E il tempio cristiano tradizionale cos’è se non una nave (suddivisa in navate) che conduce le anime verso la vera vita?
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