- Dialoghi Mediterranei - https://www.istitutoeuroarabo.it/DM -
Oleg sulla tavola del vernissage. Nuove collezioni, mercato delle culture e sistemi esperti nella ri-progettazione culturale del MUCIV
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2022 @ 02:01 In Cultura,Società | No Comments
di Letizia Bindi
Annunci
Tra la fine di luglio e i primi giorni di agosto 2022, il Museo delle Civiltà, ha presentato, dando all’evento un considerevole riverbero mediatico, il nuovo programma di attività e la linea espositiva impressa dal Direttore, Andrea Viliani, alla presenza e con l’espressione di vivo apprezzamento del Direttore Generale Musei, Massimo Osanna. Nella cartella che il MUCIV ha fatto circolare per giornalisti e addetti ai lavori prima del 19 luglio, giorno in cui si è svolta presso la sala conferenze del Palazzo delle Scienze, si legge, tra le molte altre cose:
Quella che viene pertanto annunciata e che è stata a più riprese ripetuta durante la conferenza stampa è una profonda e radicale rivisitazione delle collezioni, una rilettura non solo degli allestimenti, ma delle chiavi di lettura, delle traiettorie ispiratrici delle raccolte, come forma di ripensamento complessivo delle esposizioni, occasione per tessere nuove relazioni tra istituzioni museali e gruppi di ricerca e creativi internazionali, per proporre un nuovo approccio agli spazi museali sin qui pensati essenzialmente come dispositivi per la visione, ma ora riletti in una chiave «di ripensamento critico e autocritico e di riposizionamento complessivo del Museo delle Civiltà, sulla scena contemporanea nazionale e internazionale». Questo si legge in una ulteriore nota del 1° agosto in cui viene presentato dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea, il PAC – Piano per l’Arte Contemporanea –, che ha attribuito al Museo delle civiltà 199 mila euro per l’acquisizione, produzione e valorizzazione di opere d’arte contemporanee destinate al patrimonio pubblico italiano e che saranno, per l’appunto, collocate all’interno degli spazi e ambienti ripensati del Museo delle civiltà, dunque – si lascia intendere – definitivamente acquisite.
Un’azione congiunta, dunque, che associa una profonda rivisitazione degli ambienti e degli accessi espositivi – gli ingressi, come vengono definiti nella ricca cartella stampa –, ad altrettante fotografie e raccolte di immagini atti ad illustrarli: icone rappresentative, ci immaginiamo, di criteri e modalità di sguardi sulle collezioni preesistenti e i modi che sin qui ne hanno determinato la presentazione e collocazione storicamente avuta all’interno delle diverse e storiche istituzioni museali recentemente ricomprese nell’insieme variegato del MUCIV.
Volendo andare per ordine si deve probabilmente ricondurre anche questa azione alle trasformazioni e modifiche già piuttosto profonde avvenute nel MiC nel corso degli anni sia nell’assetto delle collezioni che nel sistema di selezione degli esperti adottato negli ultimi anni: trasformazioni improntate a una crescente spettacolarizzazione dei contenuti, alla scelta di temi per certi versi ‘forti’, provocatori, a tratti controversi, atti a richiamare l’attenzione. Sul piano delle professionalità una tendenza a un forte accentramento di competenze – se possibile ancora maggiore che in passato – nelle mani di storici dell’arte, esperti della comunicazione e dell’ingegneria della cultura, creativi, assai più che di studiosi specificamente versati, di volta in volta, sugli ambiti specifici richiesti dai vari ambiti espositivi ( diversi periodi storico-artistici, le forme espressive e tipologie di arte, i saperi demo-etno-antropologici per quanto riguarda i patrimoni cosiddetti immateriali).
L’azione di MUCIV – come già quella di altri siti e musei ripensati alla luce dell’imprinting del Ministro Franceschini da un lato e del Direttore Generale Osanna – sembra così orientarsi energicamente verso la disseminazione e una maggiore visibilità delle esposizioni previste nei prossimi mesi e anni, verso una loro crescente spettacolarizzazione. Si legge ancora nella presentazione della nuova proposta di collezioni ed esposizioni:
L’orientamento più forte che emerge dalla proposta di integrazione e rinnovo della struttura espositiva precedente nelle varie sezioni / aree / palazzi che compongono il MUCIV è quello di un nuovo, forte investimento su alcune collezioni di arte contemporanea [3].
L’accento, sin dalla conferenza stampa e dal comunicato, pare concentrarsi volutamente sui concetti e i dibattiti de/post-coloniali, sull’intreccio tra dimensioni di genere e di razza all’opera nelle rappresentazioni, i temi delle politiche e dei processi di riconoscimento e restituzione, una certa preoccupazione per la political correctness e i temi ‘caldi’ del dibattito culturale e politico. La scelta ricade non a caso su artiste, in molti casi, e sulla dialettica centri/margini, urbano/rurale. Il Museo – lo si ripete – deve non solo contenere, ma animare, sollevare dibattiti, svolgere funzioni ‘pedagogiche’ e di stimolo alle nuove creatività, costituirsi come spazio di incontro e dialogo tra culture: tutte cose ‘buone da pensare’ – sia chiaro –, ma che si tingono di quel sapore a tratti ideologico, di radicale ripensamento che rischia di ridurre in macerie anche quanto di buono, utile e scientificamente interessante è contenuto nella sedimentazione storica delle collezioni, nella loro genesi e acquisizione, nelle storie dense dei diversi allestimenti museali che sono esse stesse abito interpretativo e di ricerca.
L’intento del ‘MUCIV-tutto-nuovo’ è quello di smontare il «ricorrente fondamento ideologico nella cultura positivista, classificatoria, eurocentrica e coloniale del XIX e XX secolo» che starebbe, e per molti versi di certo sta, alla base delle opere e dei documenti contenuti nelle diverse sezioni di questo unico complesso museale che tiene insieme la paletnologia e la preistoria, le arti e culture extraeuropee e le testimonianze della storia coloniale italiana, fino alle arti e tradizioni popolari italiane. Smontare, dunque: una volontà destruens che viene proposta come atto ‘eversivo’ culturale, politico e di giustizia globale.
Sul lato construens, per rimanere alla metafora, alcune mostre ad effetto di artiste/i contemporanee/i sembrano indirizzarsi verso questa nuova centralità de/post/anti-coloniale in cui l’intreccio tra diversità di genere, di razza e conflitto/tensione sociale sembrano dettare le nuove linee narrativo-estetico del “grande progetto del nuovo Museo delle Civiltà”, preannunciando una più complessiva revisione delle linee espositive, lo smontaggio delle precedenti sale espositive perché troppo legate alle vecchie logiche interpretative, la struttura degli inventari come sedimento di altrettanti processi storici e intellettuali. Tale processo dovrebbe giungere, al suo termine, alla riconnessione dei diversi contenitori museografici precedenti, secondo traiettorie e intersezioni trasversali, tematiche maggiormente in linea con priorità e urgenze della contemporaneità:
I musei antropologici, in particolar modo, sembrano essere l’obiettivo di questa radicale riformulazione e ripensamento: se ne criticano, nel ripensarne le collezioni, i concetti di ‘primitivo’ e di ‘alterità’, se ne mettono in discussione i criteri di catalogazione e inventariazione come portatori di valori eurocentrici, se ne smontano gli sguardi verso gli oggetti ispirati da canoni troppo ancorati alle estetiche occidentali otto-novecentesche come atto di ripensamento al tempo stesso artistico e politico.
Sin qui il programma di un Museo «attuatore critico di civiltà» [5] – lo si diceva – annunciato con grande entusiasmo dal Direttore Viliani e dalla sua squadra di esperti e comunicatori. Un museo di civiltà «plurali, policentriche e intersezionali, non solo storiche ma anche potenziali, in divenire o ancora da realizzare» che sappia far dialogare collezioni, materiali, archivi, anche molto distanti tra di loro ritessendone i legami attraverso specifiche e tematizzate narrazioni trasversali, un museo in cui lo storytelling, la capacità suasiva di articolare oggetti, persone, storie, luoghi finisce per prevalere sulla ricostruzione storiografica e filologica delle collezioni, delle storie di acquisizioni, delle logiche che hanno animato certe raccolte, privando, però così i fruitori di prendere coscienza critica di quelle genesi, facendone dei fruitori forse meno attivi, seppur più fascinati di storie confezionate da altri.
Perplessità
Questa presentazione non ha mancato di sollevare un certo dibattito soprattutto tra gli antropologi che hanno iniziato a porre alcune interrogazioni in merito alle modalità di questa annunciata rivoluzione metodologica del nuovo allestimento museale. Si nota con un certo dispiacere, infatti, l’assenza di antropologi dal gruppo di lavoro che dovrebbe affiancare il Direttore in questo radicale ripensamento delle collezioni – ivi compresi anche i primi interventi già previsti su quelli dell’ex museo della Arti e tradizioni popolari. Uno dei nuovi ‘Ingressi’ al MUCIV infatti – INGR2 – sarà rappresentato dalla riproposizione della collezione fotografica di Annabella Rossi, di cui non si sa molto per il momento, ma rispetto alla quale sarebbe interessante sapere se e quali delle competenze espressamente demo-etno-antropologiche siano state coinvolte. Al tempo stesso né nella elaborazione stessa della nuova proposta sia per il Palazzo delle Arti e Tradizioni Popolari che per quello de ‘il Pigorini’, né nella strutturazione dei percorsi artistici contemporanei dal forte accento de/post/anti-coloniale sembra essere stato interpellato alcun antropologo o etnologo, laddove i concetti impiegati – la critica radicale alle nozioni di identità, di colonialismo, di relazioni etniche, ecc. – avrebbero sicuramente beneficiato e beneficerebbero di una specifica lettura critica da parte delle discipline deputate da sempre all’osservazione etnografica e all’articolazione critica dei rapporti tra culture e civiltà.
Il progetto “eversivo” delle tradizioni espositive che hanno dato origine alle diverse collezioni, d’altronde, appare chiaro dalle dichiarazioni del Direttore. Intorno ad alcune delle questioni che qui si sollevano già si era mossa una interrogazione parlamentare di qualche settimana precedente presentata dalla Sen. Margherita Corrado[6]. Sembra d’altronde emergere a più riprese dalle dichiarazioni rilasciate dal Direttore a Giorgia Basili in un articolo apparso il 21 luglio scorso per ArtTribune che l’intento sia quello di:
Ovviamente queste dichiarazioni hanno se possibile accentuato i dubbi tra gli specialisti. Continua, infatti, il Direttore, rispondendo a una domanda esplicita di Giorgia Basili sul team:
Non si fa alcun riferimento, pertanto, al rafforzamento di professionalità inerenti le specifiche discipline interessate dalle collezioni, ma al contrario alla ‘paziente ricerca’ delle/gli attuali “funzionarie e funzionari” già presenti in organico che sembrano, però, piuttosto relegati a ruolo di riordinatori e schedatori del patrimonio alla cui ‘animazione’ altre figure e competenze sembrerebbe deputate. Per il prossimo quadriennio vengono annunciate assunzioni di studiosi impegnati nella preparazione delle ‘restituzioni’ – in linea con il processo de-coloniale – e sulla progettazione di ricerche di lungo termine affidate “ad artisti, operanti in varie discipline, e curatori” con un “forte rafforzamento del team di comunicazione”. Sembra dunque confermarsi quella tendenza alla progressiva dismissione e invisibilizzazione delle specificità disciplinari che era stata sollevata negli ultimi anni dalle associazioni e società di studi demoetnoantropologici in merito alla necessità di riposizionare le mansioni di cura e progettazione/ricerca nelle mani di esperti specificamente formati, ivi compresi, in questo caso gli specializzati nelle scuole di perfezionamento demo-etno-antropologiche come luoghi deputati alla formazione di figure di esperti in ricerca, inventariazione e allestimento di mostre, collezioni e interi musei DEA.
Persino nell’ammiccare suasivo alla contemporaneità della transizione ecologica – fine dell’Antropocene, sostenibilità e gestione controversa delle risorse naturali, cambio climatico e trasformazioni socio-culturali delle comunità – l’apporto di competenze antropologiche potrebbe indicare aspetti di assoluto rilievo. I temi e le metodologie specificamente antropologiche nella progettazione internazionale dialogano, infatti, da tempo ed efficacemente con le scienze della vita, lo sviluppo o il post-sviluppo sostenibile superando facili, quanto ormai a tratti consolatorie retoriche ecologiste sull’Antropocene che già evolvono, spesso ancor più retoricamente, verso nuove coesistenze interspecifiche e narrazioni del post-umano. Ci si sarebbe dunque attesi che da un progetto così innovativo la rilevanza creativa e la consistenza critica dell’antropologia culturale e sociale fossero tenute in considerazione come punta avanzata del pensiero e della progettazione culturale più avanzata, dialogica, innovativa, come accade sempre più spesso in altri contesti nazionali.
Circa i temi della transizione ecologica e le frizioni dell’Antropocene – per riprendere sinteticamente formule ormai forse persino abusate per fare riferimento allo spettro ampio delle tematiche post-sviluppiste, bio-culturali e di ecologia umana – nell’intervista e anche nella conferenza stampa si auspica la costituzione di un “museo multispecie”, tema molto suasivo che pare andare incontro a tendenze crescenti, specie nell’arte contemporanea, alla costruzione di percorsi e proposte espositive de-coloniali, post-binarie e post-umane:
Ancora una volta il tema viene sottratto alle competenze, pur centrali storicamente, degli antropologi e riportato da un lato nelle mani della ricerca ambientale (ISPRA) e delle scienze della vita o in quelle degli artisti – lo si evince da certe scelte di artisti contemporanei beneficiari del Piano per l’arte contemporanea –, senza fare alcuna menzione della pertinenza antropologica di tematiche quali le “multispecies ethnographies” (Helmreich e Kirkskey 2010), gli “entanglements” (Tsing 2005, 2013, 2015), le rappresentazioni post-umane dei mondi di vita (Kohn 2013), solo per citare alcuni degli autori al centro del dibattito globale su questi temi.
Delle competenze demo-etno-antropologiche, insomma, non sembra rilevarsi la centralità nel processo di ripensamento delle collezioni e nella realizzazione delle nuove esposizioni artistiche realizzate col finanziamento PAC, riproponendo, con ciò, un tema già appuntato, ad esempio, in merito all’accesso dei profili DEA alla Dirigenza dei servizi del Ministero di Cultura che solo di recente sembra essere stato recepito e parzialmente è stato compensato nella recente immissione di nuovo personale di esperti antropologi nelle diverse SABAP (Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio) regionali, di cui comunque non si può che apprezzare l’ingresso, naturalmente.
Tuttavia, qui la questione, oltre che di rivendicazione professionale e di accreditamento, pur esiziale, dei giovani formati nelle Lauree Magistrali in Beni e Saperi Demoetnoantropologici, si spinge anche a osservare l’assenza di una consultazione sistematica degli esperti di queste discipline e di queste collezioni – alcuni dei quali hanno scritto in modo rilevante, critico e continuativo proprio su quelle collezioni ed esposizioni – per progettare con loro e sulla scia delle loro riflessioni e suggerimenti le narrazioni che animeranno i nuovi percorsi espositivi del MUCIV. Un maggiore coinvolgimento nell’elaborazione del concept della nuova formula museale sarebbe stato forse opportuno, assicurando, tra l’altro, il necessario background per l’approccio alle collezioni.
Prodotti
Quali logiche sembrano emergere, pertanto, dal lancio del nuovo progetto MUCIV? La linea culturale che anima il Ministero di Cultura negli ultimi anni e con esso, in perfetta coerenza, la Direzione Generale Musei, si caratterizza per una forte disseminazione e mediatizzazione oltre a una grande attenzione al ticketage dei siti e delle strutture museali, una certa ‘evenementizzazione’ del sistema museale e dei siti, punteggiata dalla sovraesposizione mediatica dei ritrovamenti eccellenti, la costruzione di grandi eventi: mostre, temi divisivi prescelti destinati a sollevare dibattiti anche di larga diffusione, crescente popolarizzazione dei temi e delle linee espositive (Settis 2002; Zamagni 2008).
Si è cercato in questi anni di portare arte e patrimoni culturali alla portata del grande pubblico, di creare attenzione verso l’arte e le collezioni etnografiche in visitatori/spettatori potenziali con un crescente impiego di tecniche espositive ad alto impatto grazie all’uso degli strumenti digitali e della realtà aumentata, volti a esperienze sempre più immersive. Tutto questo non è in sé un obiettivo negativo cui tendere, ma deve essere letto in una chiave critica, necessaria a coglierne le intrinseche e potenziali contraddizioni. Si deve, ad esempio, rilevare la progressiva opacizzazione di un ambito specifico di competenze, ritenute implicitamente ‘superate’ o, peggio ancora, ricomprese nelle competenze allargate di altri ambiti disciplinari: quelli dell’arte, della critica d’arte avvertita di cose e nozioni antropologiche, della comunicazione di moderna concezione, di una certa politically correctness che ha preso le forme in questi ultimi decenni di un vero e proprio modello di cultura prescrittiva, del giusto e dello sbagliato, che detta le nuove linee della cancel culture, determinando i temi caldi e “cool” dell’agenda politica e al tempo stesso dei mercati dell’arte e dello stile.
Tendo ad essere attenta, ad esempio, verso l’uso che rischia di divenire strumentale in taluni casi dei temi de-coloniali e della radicalizzazione multi-specie e post-umana delle collezioni. Sono questioni che intercettano il gradimento di movimenti molto polemici e assertivi negli ultimi anni e mostrano di avere, in certi ambiti, la capacità di influire e spostare opinione pubblica in un senso o nell’altro secondo linee non sempre trasparenti. Non intendo dire con ciò che tale uso strumentale e suasivo appartenga alla nuova direzione museale. Penso però che la tendenza a mettere in rilievo e sovraesporre mediaticamente aspetti ‘eccellenti’, punte espressive di minoranze come forma di compensazione e restituzione di diritti mancati per i più, a esaltare l’arte e il valore di rappresentanti delle comunità fragili, marginali e persino delle specie animali storicamente ‘domesticate’, come temi catalizzatori di consensi, non necessariamente riesce ad agire in profondità e in modo radicalmente critico sulle macchine concettuali generatrici di differenze e subalternità. Alcuni studiosi hanno voluto definire questa come “identità competitiva” (Anholt 2007), ragionando proprio del branding crescente delle identità che guadagna il marketing delle destinazioni turistiche e il nuovo design dei luoghi di cultura, come in questo caso di un grande complesso museale. È un tema delicato che merita tutte le cautele che proprio la riflessione demoetnoantropologica in questi decenni ha contribuito a elaborare.
La canoa ‘Sopakarina’ dell’Isola di Kitawa , Papua Nuova Guinea presso il Museo Nazionale Preistorico Etnografico ‘Luigi Pigorini’
Proposte
Dunque quali suggerimenti per questo ambizioso programma del nuovo MUCIV? Quali azioni la comunità scientifica demo-etno-antropologica può proporre per riequilibrare quella percezione di invisibilizzazione delle sue competenze specifiche? Quali strategie di compensazione a fronte di una sovraesposizione comunicativa di temi e delle metodologie evidentemente prese dalla riflessione e dal dibattito dell’antropologia e dell’etnografia che però vengono fatte proprie dagli artisti, dagli architetti e storici dell’arte, dai museologi, dai comunicatori?
A) Su un fronte specificamente istituzionale potrebbe essere utile per il Ministero di Cultura rafforzare ulteriormente la dotazione dei suoi uffici centrali e periferici con competenze specificamente demo-etno-antropologiche e aprire con sistematicità l’accesso alle selezioni per la dirigenza a queste competenze. Questa attenzione specifica ai profili DEA da parte delle strutture museali di competenza è stata già sollecitata in passato, con specifici documenti e appelli, con l’azione specifica di colleghi che hanno ricoperto posizioni apicali anche negli spazi politici e accademici. Lo si è tornati a fare, poi, forse non con la dovuta e necessaria incisività, negli ultimi anni a fronte di processi di logoramento degli spazi di rappresentanza disciplinare nelle classi di concorso, negli ambiti accademici, nelle aree disciplinari ecc. Sarà importante in tal senso il lavoro congiunto delle associazioni e società di studi demoetnoantropologici – AM, ANPIA, SIAA, SIAC, SIMBDEA – perché con forza e spirito unitario presentino un documento organico al Ministro e ai Direttori interessati, ma anche prèmano, perché qualche parlamentare si faccia latore di proposte concrete a livello legislativo in tal senso.
B) Sul fronte più legato alla comunicazione sarà importante lavorare perché la percezione delle competenze demo-etno-antropologiche formate nelle Lauree in Beni Culturali e dalle Lauree Magistrali in Beni DEA così come dalle Scuole di Specializzazione e dai Corsi di Dottorato inerenti esca dalla rappresentazione a volte paludata e poco incline alla agilità comunicativa che caratterizza la comunicazione e il ‘lavoro culturale’ di oggi. Se ne è parlato in modo molto costruttivo anche nel recente incontro di tutte le associazioni di studiosi e professionisti dell’antropologia in Italia che si è svolto a Salerno [10]. Non si tratta di rinnegare la necessaria sedimentazione e accuratezza dei processi di ricerca, né di adeguarsi supinamente al ricatto sempre più stringente del ‘publish or perish’ o rassegnarsi alla invisibilità della ricerca quando non ‘produce’ deliverables ad alto impatto in termini di sistemi di valutazione, audience o public engagement. C’è la necessità per la demo-etno-antropologia italiana di pensare congiuntamente – tra accademici e professionisti del settore nelle istituzioni, freelance, lavoratori autonomi, cooperanti – di concordare e sviluppare una strategia di comunicazione del valore e anche dell’interesse delle proprie acquisizioni e risultati di ricerca per i fruitori di collezioni, di musei e per i turisti, i visitatori, i curiosi, lavorando sull’accuratezza dei dati restituiti, la loro condivisione con le comunità, la loro conformità alle regole deontologiche e all’etica della ricerca, ma anche la loro indubbia capacità di catturare e attirare l’interesse, la loro intrinseca ancorché sempre dinamica, non essenzialista capacità di sollevare attenzione (Palumbo 2018; Clemente e Rossi 2022).
C) C’è, infine, una questione politica culturale che si pone sullo sfondo. Le competenze e le nozioni dell’antropologia hanno finito per entrare nelle politiche culturali e nelle istituzioni del nostro Paese con il loro carico di analisi critica, di metodologia partecipativa, di rispetto delle pluralità e delle differenze salvo poi esserne a tratti espunte o divorate in un processo di crescente appropriazione e trivializzazione delle terminologie e metodologie maturate nel tempo dal dibattito scientifico e oggi fatte proprie dalla comunicazione di massa. Assistiamo a una crescente trasformazione e plasmazione della cultura in merce e prodotto di consumo, un processo noto da tempo (Lombardi Satriani, 1973; Handler 1988; Kirshemblatt-Gimblett 1988; Urry 1995; Strasser 2003; Faeta 2009; Dei 2013; Bindi 2013), ma che oggi prende contorni e dimensioni sicuramente più rilevanti nella crescente terziarizzazione delle economie dei Paesi occidentali e nella attribuzione di un valore aggiunto patrimoniale a tutto ciò che attiene con le identità e le culture nei territori. Su questo le discipline demo-etno-antropologiche hanno la necessità di posizionarsi con forza e smascherare le appropriazioni indebite, gli usi impropri, le plasmazioni convenienti recuperando con forza e anche con un pizzico di orgoglio una diversità teorico-metodologica che le ha contraddistinte nella storia dei loro studi e che ne ha forse determinato a lungo, specie in un Paese sostanzialmente moderato come il nostro, la marginalizzazione accademica e pubblica. Quella diversità oggi rischia di divenire, nello specchio distorto della comunicazione di ampio spettro, solo una proficua caratterizzazione di mercato, un valore aggiunto identitario buono da giocare nell’agone competitivo del ‘product-placement’ culturale e della value chain dei beni culturali immateriali e materiali.
La capacità del tutto originale e per certi versi esplosiva delle antropologie si gioca esattamente nella capacità di far risaltare le inversioni e le manipolazioni dei vuoti significanti identitari, nel far parlare i gesti, gli oggetti, le icone, i semi, gli animali, i tessuti, ma soprattutto quei “muti della storia” di demartiniana memoria che si vorrebbe fossero sempre meno ‘parlati’, ma parlanti. É un progetto di ‘lavoro culturale’ etnografico inteso come incontro di soggettività multiple – umane, animali, vegetali – dialoganti: non tanto ‘spettacolo’, ma caleidoscopica complessità del guardarsi e ri-guardarsi.
In una delle scene iconiche di The Square di Robert Östlund – film vincitore della Palma d’Oro al Festival di Cannes 2017 –, Oleg, uomo-gorilla, invade la scena, aggirandosi tra i tavoli della patinata cena di vernissage al limite tra il ludico, il tragico e il surreale. Il film nell’ironia che travalica le provocazioni più ‘modaiole’ di certe performances di arte contemporanea, certe sovversioni manierate quasi delle relazioni tra norma e avanguardia, tra regola e superamento, propone una sorta di parodia estrema del processo di istituzionalizzazione della diversità e della sua trasformazione in prodotto di consumo e fruizione. L’arte – sembra suggerire il regista – contribuisce così radicalmente alla plasmazione e al controllo biopolitico della diversità e del vitalismo, non si interroga criticamente sulla natura e la cultura, esplicita e compie un progetto di packaging, ancorché sorprendente e suasivo, ad alto impatto, perturbante quanto basta, ma non destinato a cambiare i rapporti di forza delle relazioni tra alto e basso, umano e animale, colto e ‘selvaggio’, ammantandolo di apparente poesia e di performance. Il risultato è di successo mediatico, ma non incide in alcun modo nelle profondità delle relazioni, non cambia, conferma; non scardina, solo evoca. È da questo che vorrei potesse distinguersi il nuovo progetto del MUCIV e perché questo accada ritengo che il ruolo vigile ed esperto degli antropologi non sia rinunciabile, nato, com’è, per esercitarsi perennemente nella comprensione dei limiti e degli interstizi.
______________________________________________________________
______________________________________________________________
Article printed from Dialoghi Mediterranei: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM
URL to article: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/oleg-sulla-tavola-del-vernissage-nuove-collezioni-mercato-delle-culture-e-sistemi-esperti-nella-ri-progettazione-culturale-del-muciv/
Click here to print.
Copyright © 2013-2020 Dialoghi Mediterranei. All rights reserved.