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Ossimori immaginari
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2018 @ 01:19 In Migrazioni,Società | No Comments
I concetti astratti nascono sempre per definire qualcosa che esiste già concretamente nella realtà. È avvenuto così per i principali teoremi matematici o le leggi della fisica, per le correnti filosofiche o le ideologie politiche. Le menti più illustri della storia, da Pitagora a Kant, da Marx a Foucault, hanno avuto “solo” il merito di rivelarsi i primi scopritori o interpreti delle leggi naturali, sociali, storiche o politiche, del mondo del loro tempo. Le parole hanno dunque il dirompente potere di far esistere le cose, o meglio, di far riconoscere a tutti quello che vedono accadere intorno a loro. Questo processo può però essere piuttosto lento e arduo e può anche accadere che alcune parole, che un tempo avevano un particolare significato, non rispecchino più la realtà che nominavano e descrivevano in precedenza. Occorre dunque, di tanto in tanto, guardarsi intorno per capire se le parole, e di conseguenza i concetti e le idee che esse trasmettono, non siano forse rimaste indietro rispetto ad una realtà che galoppa senza mai guardarsi indietro. Chiedersi se quello che fino a qualche tempo fa chiamavamo in un modo possa ancora essere chiamato così o se forse una parola a cui attribuivamo un significato non debba piuttosto acquisire nuove sfumature e valori semantici.
Per quanto banale, dovremmo sempre tenere presente questa considerazione quando parliamo di teorie, ideologie, movimenti, leggi, status giuridici. Possiamo ancora usare le parole Nazione o Patria, come venivano usate nel XIX secolo? Quando usiamo il termine Femminismo intendiamo lo stesso movimento per l’affermazione dei diritti delle donne che nacque negli anni Sessanta, o questa parola acquisisce oggi nuove sfumature?
Sebbene questo tipo di riflessioni possano sembrare lontane dalla quotidianità delle persone comuni, e appaiano dibattiti relegati al mondo accademico, la definizione di alcuni concetti teorici è una cosa che ci riguarda molto da vicino. Molti dei concetti che stanno alla base della nostra idea di umanità, e che diamo per scontati, sono stati coniati o si sono evoluti nel corso della storia; per questo stesso motivo è bene ricordarsi che possono sempre essere messi in discussione. Il significato stesso dell’idea di vita e morte non è univoco e astorico (ad essi sono legate le spinose questioni di aborto, testamento biologico, eutanasia, etc.), per non parlare di termini come famiglia, genere, diritto.
Un altro concetto su cui è urgente oggi interrogarsi è quello di cittadinanza, e dunque nel caso particolare del nostro Paese quello di “italianità”. Il dibattito sullo ius soli, ovvero sulla possibilità di concedere la cittadinanza italiana a chiunque sia nato sul suolo italiano, a prescindere dall’origine geografica dei propri genitori, è infatti da tempo uno dei temi più discussi all’interno del nostro Parlamento. Come è noto la normativa italiana prevede che possano essere considerati italiani di diritto solo coloro che sono figli di italiani. La discussione parlamentare sulla possibilità di cambiare questa norma è in realtà aperta da diversi anni e rimane un tema caldo sul quale i rappresentanti politici non riescono a trovare un accordo chiaro e definitivo [1].
Questo tema ci mette però davanti ad una questione aperta, che riguarda non solo i giovani di seconda generazione, figli di immigrati nati in Italia, ma tutti gli italiani già cittadini di diritto. Il fatto che i componenti del nostro Parlamento mettano in dubbio la possibilità (o la necessità) di conferire la cittadinanza a migliaia di bambine e bambini nati in Italia ci costringe a chiederci cosa vuol dire essere cittadini di un Paese. La cittadinanza è qualcosa che si ha o che si è? [2]. E in definitiva cosa significa essere italiani?
Essere italiani nel 2018 non significa certamente ciò che significava essere italiani nel 1861 [3]. È necessario probabilmente, allora, “risignificare” questa espressione. Per quanto la storia dell’unità d’Italia sia stata sempre caratterizzata da frammentarietà e grande divergenza linguistica, culturale ed economica tra le diverse aree del Paese, in senso generale “essere italiani” fino a pochi decenni fa equivaleva a condividere una serie di valori, primo fra tutti la cristianità, l’appartenenza ad una famiglia patriarcale allargata, parlare italiano, essere bianchi.
Uno sguardo, neppure troppo approfondito, alla realtà che ci circonda basterà certamente a riconoscere nei tratti somatici dei nostri concittadini e nelle loro espressioni linguistiche o comportamentali delle peculiarità lontane da quelle dell’italiano d.o.p, a cui siamo stati per lungo tempo abituati. Fino a poco tempo fa (e per buona parte dell’opinione pubblica e del panorama politico ancora oggi) il binomio italiano/musulmano, italiano/nero, italiano/francofono era percepito come un vero e proprio ossimoro. Pensare un italiano con la pelle nera, o che si chiama Abdul, è spesso ancora oggi considerata una contraddizione in termini. Questo non avviene in altri Paesi d’Europa, come la Francia o il Regno Unito, dove una storia migratoria più antica e, nel caso francese, delle forti relazioni coloniali di lunga durata hanno abituato la popolazione ad entrare in confidenza con l’idea che tra di loro potessero esistere, per esempio, diverse sfumature della carnagione [4].
Questo ossimoro è ciò che rimane fisso nella mente di molti dei parlamentari, non solo di destra, del nostro Paese, e in buona parte dell’opinione pubblica, quanto pensano al cittadino italiano. Tutte persone che, evidentemente, non frequentano e non hanno confidenza con le scuole italiane di oggi.
Negli ultimi mesi ho avuto occasione, per questioni lavorative, di frequentare alcuni istituti principalmente di educazione secondaria di primo grado, ma anche di educazione primaria ed asili nido, in diversi quartieri di Palermo. Le scuole sono da sempre le avanguardie dei Paesi: ciò che avviene nelle classi è la rappresentazione microcosmica del futuro prossimo di un Paese. Con i suoi esiti positivi e negativi questo è già avvenuto in passato in Italia: dopo l’unità d’Italia, durante il ventennio fascista, o dopo la guerra di mafia in Sicilia, per esempio, quando le scuole hanno insegnato l’italiano a bambini la cui lingua madre era il dialetto regionale, hanno educato piccoli balilla o hanno intrapreso percorsi di educazione alla legalità, che hanno formato generazioni. Le scuole sono i laboratori dove i bambini plasmano il proprio essere nei primi anni di vita.
Le classi che ho visitato a Palermo, di diversi quartieri con differenti connotazioni socio-economiche, sono luoghi di un fortissimo impatto sociale. I bambini e i ragazzi che ho incontrato vestono tutti più o meno alla moda, hanno capelli biondi, neri, rossi, lisci o ricci crespi, hanno quasi sempre uno smartphone in mano, si annoiano e si distraggono durante le lezioni, hanno gli occhi mandorla, la carnagione bianca, olivastra o nera, parlano italiano, spesso con una certa cadenza palermitana. Seduti uno a fianco all’altro leggono le lezioni sui libri, risolvono problemi, chiacchierano, litigano o giocano. Questi bambini e ragazzi, tra le altre cose, sono italiani, non perché la legge lo preveda o perché io abbia una precisa opinione in merito, ma perché non potrebbe essere altrimenti. Quello che nella nostra mente è incancrenito in un’idea immobile come quella di italianità, non esiste già più da decenni. Coloro che ci ostiniamo a definire stranieri sono italiani di fatto già da molto tempo, e migliaia di giovani italiani sulla carta hanno invece vissuto o vivono all’estero per anni, parlano due o tre lingue europee bene come l’italiano e probabilmente non torneranno.
Uno dei posti che ho frequentato, ma che conosco già da molti anni, è il Giardino di Madre Teresa: una ludoteca creata e gestita dall’associazione Kalaonlus [5], situata nel cuore del quartiere Albergheria, che dal 2009 offre alle famiglie del quartiere un servizio altrimenti inesistente. La struttura accoglie tutti i giorni bambini da 1 a 5 anni, aiutando le famiglie con disagi economici e in cui, per problemi lavorativi, i genitori non possono occuparsi dei figli; la maggior parte delle famiglie che usufruiscono della ludoteca sono migranti, considerando anche il fatto che la quota mensile richiesta dall’associazione è veramente irrisoria. La struttura si trova oggi ospitata all’interno della scuola elementare Nuccio, dopo che per alcuni anni ha dovuto chiudere i battenti per problemi burocratici.
Quando lo scorso marzo, con una grande festa, si è celebrata la riapertura della ludoteca la partecipazione delle famiglie del quartiere, non solo migranti, è stata fortemente significativa. Mentre entravo nella scuola incontrai una coppia di signore, italiane, che in un palermitano stretto si incitavano vicendevolmente a far presto, perché era un giorno importante e dovevano assolutamente partecipare alla festa di Rosita, la presidente dell’associazione che tutti i genitori del quartiere conoscono e interpellano in caso di necessità. I bambini ospitati nella ludoteca sono molto piccoli e, a differenza di quelli che ho incontrato nelle scuole, non hanno ancora una personalità o dei comportamenti già definiti e non parlano fluidamente l’italiano, proprio come qualsiasi bambino italiano. Non c’è nulla che possa contrassegnarli come stranieri. Il melting pot è totale ed è sorprendente, ma forse neanche troppo, scoprire che ci sono bambini neri che si chiamano Abdul, Wendy, Mami, Luigi o Agnese.
Il processo di integrazione in Italia è già avviato da anni, bambini di famiglie italiane e migranti giocano, studiano, parlano e crescono insieme da tempo. Non si tratta ormai di una scelta politica dall’alto, ma del riconoscimento di un fenomeno che dal basso si è già consolidato. In centinaia di quartieri italiani, principalmente quelli inter- culturali come Ballarò a Palermo, sono tantissime le esperienze di bottom up, che hanno avviato percorsi di accoglienza e riqualificazione delle città in cui migranti e autoctoni vivono. Le scuole in questo senso sono tra le eespressioni più esemplificative di questi processi [6]. Tutte queste persone sono cittadini poiché vivono nelle nostre città e da cosa è fatto uno Stato se non dalle persone che in esso vivono?
In Italia c’è ancora una forte resistenza nel pensare che esistano afro-italiani, arabo-italiani o cinesi italiani, eppure, per quanto ci ostiniamo ad osteggiare quest’idea, esistono già.
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