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Para todos los hombres del mundo…
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2024 @ 03:03 In Cultura,Migrazioni | No Comments
CIP
di Letizia Bindi
Durante l’ultimo soggiorno di ricerca e docenza che ho trascorso in Argentina, ho avuto la possibilità di visitare a Buenos Aires, tra le altre cose, il Museo nazionale dell’immigrazione [1], collocato nei pressi del Puerto Madero, nel cosiddetto Barrio del Retiro, nella struttura dell’Ex Hotel dei Migranti che dal 1911 al 1953 ha ospitato, curato e sfamato i migranti che sbarcavano dalle navi per lo più europee e stazionavano temporaneamente per le verifiche sanitarie e l’accertamento documentale.
Il rapporto che l’Argentina intrattiene con la migrazione e le memorie di origine dei migranti è, in certo modo, strutturale come la nostalgia (Herzfeld 1997; Teti 2022) che attraversa tanta parte delle espressioni culturali e artistiche che caratterizzano questo estesissimo e complesso Paese nel quale la grande migrazione comportò l’arrivo di milioni di persone da varie parti del mondo. Si calcola che tra il 1881 e il 1914 giunsero in Argentina più di quattro milioni di immigrati (Devoto 2009). Questo finì per impattare in modo profondo sulla composizione della popolazione, ma anche sull’immaginario e la cultura diffusa di questa terra.
Il “Museo dell’Immigrazione” (MUNTREF) a Buenos Aires rappresenta uno dei primi spazi museali di visibilizzazione della presenza migrante nella storia del Paese che nonostante questa gigantesca presenza migratoria ha così tardato (2001) nel riconoscere uno spazio narrativo e rappresentativo nazionale a questo importante fenomeno storico-culturale (Devoto 2011).
Lo spazio fisico in cui è ospitato, in primis, è già di per sé significativo: inserito in un complesso sottoposto a controllo militare e con il cortile antistante pieno di macchine dell’ufficio immigrazione oggi in servizio. A lato dell’ingresso, un gigantesco manifesto pubblicitario della scuola per gli allievi della Marina Militare che si trova nell’immobile accanto. Questo edificio si presenta come luogo di memoria, ma al tempo stesso anche di meta-riflessione sulle politiche e sulle estetiche del migrare, mescolando, tra l’altro, in maniera molto interessante altre due componenti: alcune sale dedicate a opere di arte contemporanea – una collezione ricca di istallazioni, videoarte di autori di diverse nazionalità – e una sala all’ingresso che svolge che funzioni di biglietteria ma anche un servizio di consultazione dell’archivio degli arrivi in Argentina: una fonte che già di per sé offre uno spaccato rilevante della composizione e delle traiettorie di migrazione che hanno popolato tra metà Ottocento e metà Novecento quel Paese e che rappresenta una prima tappa obbligata dei visitatori impegnati a cercare nel computer messo a disposizione i nomi di loro antenati molto spesso o comunque di persone delle quali hanno interesse a ripercorrere il destino di migrazione.
Gli interni sono rimasti per lo più quelli originali: le strutture di sanificazione, i letti a castello in ferro battuto dipinto di bianco, gli arredi essenziali, di servizio. La collezione di documenti e di oggetti in questo senso incontra il desiderio dei discendenti dei migranti dalle diverse aree di provenienza di riconnettersi al proprio passato rafforzando quella idea, profondamente radicata nel sentimento nazionale, che gli argentini arrivino dalle barche: un tema di volta in volta utilizzato con connotazione negativa, per quella sorta di ibridazione strutturale di identità che sarebbe connessa a questa origine radicalmente multietnica e multiculturale, ma che oggi, per questa stessa ragione, è possibile rileggere come valore in una cultura sempre più interconnessa, fluida e globale quale quella che ci troviamo a sperimentare.
Tuttavia è nelle narrative dell’allestimento e nella contaminazione implicita con la collezione di arte contemporanea che questo museo apporta il suo maggiore elemento di interesse ‘para todos los hombres del mundo que quieran habitar en el suelo argentino’ – come dichiara all’entrata della struttura.
Torna, anche qui, come già in altri musei dell’immigrazione in giro per il mondo, il tema del catalogare e inventariare, documentare le entrate come forma di archivio tecnocratico, ma anche di memoria stratificata e condivisa (Fabietti, Matera 1999): i grandi registri, le raccolte di documenti di identità. Tornano le multivisioni con una serie di testimonianze di discendenti che raccontano le memorie dei loro antenati – nonni, padri e madri – del loro ingresso nel Paese, del loro arrivo in quella struttura [2]. Tornano le raccolte di fotografie, alcune emblematiche gigantografie – quella intensissima all’entrata di uomini e donne con valigie sdrucite e sacche esattamente davanti alla struttura che si sta visitando, quella del lavatoio collettivo all’interno che doppia e risignifica il salone in cui ci si trova e che ora accoglie una parte dell’esposizione. Completano alcune teche con oggetti, una linea del tempo su pannello in plexiglas, alcune installazioni audiovisuali, in particolare una parte del film ‘The Immigrant’ di Charlie Chaplin realizzato nel 1917.
È un museo pensato per celebrare memorie e accogliere principalmente discendenti. Sembra chiedere al fruitore uno speciale patto, una postura desiderante di riconnettersi al passaggio delle generazioni passate, alle loro sofferenze e alla loro nostalgia, tanto per tornare a questo sentimento così radicalmente incardinato nelle memorie e nelle pratiche dei suoi cittadini con le loro diaspore e le loro storie scisse, i pezzi di mondo e di relazioni abbandonati, quelli ricostruiti non senza fatica nel recupero minuzioso delle proprie storie di famiglia e di origine (le memorie paesane).
I musei argentini si sono sviluppati – come accaduto già nei Paesi europei – nel quadro di percorsi culturali innescati dal processo di costruzione della identità nazionale. In questo senso il MUNTREF si affianca, da un lato, a quelli di storia nazionale centrati sul processo tardo-positivista di costruzione dello Stato-Nazione argentino e, dall’altra parte, ai musei di interesse antropologico che contribuiscono, investigando le forme di vita e di insediamento autoctono presenti nel Paese, alla comprensione delle dinamiche socio-culturali profonde del passato e probabilmente anche di tanti aspetti del presente.
Al tempo stesso, le narrazioni che lo abitano sono per molti versi come sterilizzate, forse anche dal biancore delle pareti e delle suppellettili quasi mediche conservate. È un museo da cui sembra non potersi evincere alcuna speciale conflittualità né tensione, come se il processo di ingresso, inclusione e permanenza di così tanti immigrati nel territorio nazionale non avesse comportato alcuna frizione o criticità né in ingresso né nel procedere delle convivenze.
Se si ripercorre la riflessione densa che negli ultimi decenni si è accumulata sugli spazi museali e le collezioni dedicate al tema dell’immigrazione nei diversi continenti, si incontrano forme di restituzione e discussione dell’esperienza e della storia migrante piuttosto differenziate. Al netto di un certo “methodological nationalism” di cui hanno parlato alcuni autori come Baur (2017), si noterà come l’American Museum of Immigration (1972) fosse stato accompagnato da un forte e controverso dibattito e venne chiuso nel 1991 subito dopo l’apertura del vicino Ellis Island Immigration Museum, probabilmente il più grande e celebre delle strutture museali dedicate all’immigrazione accanto al Lower East Side Tenement Museum centrato sul vecchio immobile di Manhattan occupato storicamente da migranti e sorto nel 1992. Blur ripercorre, nella sua interessante rassegna, la nascita dei musei di Adelaide e di Melbourne nel 1998 in Australia, o quella del Memorial do Imigrante/Museu da Imigração di San Paolo del Brasile, anch’esso del 1998 e il Canadian Immigration Museum Pier 21 sorto ad Halifax nel 1999 fino a giungere, appunto, al Museo Nacional de La Inmigración de Buenos Aires del 2001.
In tutti questi casi quello che emerge dalla narrazione organizzata attraverso gli oggetti e le immagini è quella che Tunbridge e Ashworth hanno definito una “heritage dissonance”, una definizione dell’identità nazionale che passerebbe attraverso luoghi come questi musei in cui la storia condivisa e il patrimonio di memorie ed esperienze delle diverse componenti migranti avrebbero contribuito a ridisegnare l’autorappresentazione delle società post-coloniali, specialmente nella controversa relazione tra coloni e popolazioni native e della quale storia gli immigrati rappresentano una terza colonna, per certi versi, giunta in un secondo momento e al tempo stesso così evidentemente determinante e caratterizzante (Simpson 1996).
In tal senso molti di questi musei risponderebbero alla volontà delle comunità migranti di costruire una narrazione giustificatoria ed epica della propria migrazione, delle fatiche affrontate nel processo di inclusione, della loro storia di nobilitazione e riscatto che si legge nelle tante testimonianze presenti – come anche nel Museo di Buenos Aires – dei discendenti che ricordano e punteggiano esattamente questi aspetti.
La narrazione attraverso le immagini mira a definire in modo immediato esperienze e sentimenti della condizione migratoria oppure a doppiare, come in questo caso, le sale ospitanti nelle gigantografie: quasi in un gioco di specchi o di scatole cinesi, in una continua ridefinizione dell’immaginario comunitario e nazionale.
L’uso metonimico di cumuli di oggetti – ampiamente utilizzato anche in altri allestimenti museali che ugualmente narrano esperienze di sofferenza e/o di trauma – sta anche qui a significare i numeri iperbolici della migrazione, la perdita, l’abbandono delle proprie identità passate nel passaggio cruciale dell’ingresso nel nuovo Paese di immigrazione.
In questo come in altri musei si nota il peso di alcune speciali e particolari filiere di provenienza degli oggetti, delle immagini e delle storie, come un nucleo di biografie sotterranee che ha dato origine alla macchina museale che successivamente si erge a rappresentanza di una esperienza corale.
Da queste biografie particolari e dall’uso degli oggetti e delle immagini come pars pro toto, scaturisce questa sensazione di una storia condivisa di perdita e sofferenza che dal museo, anche in questo caso, soprattutto in questo caso, sembra allargarsi alla città intera, alla sua autorappresentazione nostalgica, quasi sempre in attesa: di un ritorno o di un nuovo arrivo di ricongiungimento, di una condizione migliore auspicata nella migrazione e spesso non raggiunta nella realtà, di una appartenenza piena al mondo nuovo raggiunto che in realtà si permea e resta per sempre attraversata dagli oggetti e dalle sonorità del Paese di origine. Cliché, forse, anche questo, eppure potente e diffuso nella sensazione di stare in un mondo di migranti, aperto su un verso poetico di attesa e di rimpianto come la valigia con cui si chiude il percorso del MUNTREF, sdrucito bagaglio di ricordi e di speranze che proietta scritture digitali nel riflesso azzurro e mobile a richiamare l’attraversamento del mare [3] Esperienza comune che fonda probabilmente il vero senso di questa nuova cittadinanza migrante.
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