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Partanna: negli scritti e nel cuore di Benedetto Patera, storico dell’arte
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2024 @ 00:51 In Cultura,Società | No Comments
di Lina Novara
Benedetto Patera è stato uno “tra i più importanti ed acuti storici dell’arte del dopoguerra”, docente prima nei Licei classici e poi presso l’Università degli Studi di Palermo. Nel gennaio 2019, qualche giorno dopo la sua scomparsa, Totò Rizzo scrisse su una rivista on line un articolo dal titolo “Quel gran critico venuto da Partanna”, precisando che Benedetto Patera teneva molto a questa origine dalla provincia trapanese [1].
Infatti, ogniqualvolta se ne presentava l’occasione, nelle conversazioni e nei suoi scritti non mancava di ricordare con orgoglio la sua città natale, lu paisi, ora con il cuore del cittadino, ora con l’occhio dello storico dell’Arte.
Alla sua città nel 1970 ha dedicato una monografia iniziando così la trattazione:
In nota chiarisce poi come la maggior parte dei monumenti della zona terremotata siano stati scarsamente considerati o del tutto ignorati nelle diverse guide della Sicilia del Touring Club Italiano.
Di Partanna traccia quindi la storia, partendo dalle origini preistoriche con tanta passione di studioso e con tanto impegno civile dedicato alla urbanistica e ai monumenti, come precisa il direttore di Cronache Parlamentari, Francesco Crispi, nell’introduzione al Fascicolo “Partanna” [4].
Patera ricorda inoltre i «numerosi anche se casuali ritrovamenti di testimonianze preistoriche e classiche in diversi punti dell’agro partannese», il più cospicuo dei quali ritiene fosse quello di notevoli resti di una villa romana, affiorati in contrada Ruggero all’inizio del XX secolo e subito barbaramente distrutti dal proprietario del terreno per timore di un eventuale esproprio.
Studi e scoperte archeologiche hanno in seguito messo in evidenza l’importante presenza, in contrada Stretto, di fossati neolitici (5570-5400 a. C.), forse utilizzati per scopi irrigui o cultuali. Tali rinvenimenti hanno valso a Partanna la denominazione di città della civiltà dei fossati e allo Stretto la definizione di “Santuario delle acque” per la singolarità dei reperti [5].
Patera, sempre in Partanna affronta lo sviluppo della città nel suo divenire urbanistico attraverso i secoli, da casale arabo, protetto nel XI secolo da una torre di guardia, fino ai primi del ‘900. Mette in risalto l’originale bellezza del suo impianto urbano, «dovuta all’equilibrata integrazione» degli spazi interni, come le vie larghe e dritte e le numerose piazze, «con gli spazi esterni dei monumenti i quali, anche quando architettonicamente modesti, venivano in vario modo a ritmare il tessuto edilizio in cui erano inseriti».
A qualificare la singolarità della struttura urbana contribuiva il fatto che la città si era formata come una vera e propria “addizione barocca”, a monte di un preesistente nucleo medievale [6]. Era stata questa, a suo dire, la felice conclusione di un secolare processo, improntato ad una costante direttrice di sviluppo dell’abitato dalle pendici verso la sommità della collina dominante le vallate del Belìce e del Modione, sui cui crinali occidentali l’intera Partanna era dolcemente adagiata. Belìce e non Bélice, sosteneva Patera, basandosi su fonti documentarie. Si tratta infatti di una parola piana, trasformata dai media, durante il terremoto del ‘68, in una sdrucciola: Bélice.
L’originaria pronuncia, fu da lui con forza sostenuta nel marzo 1991, nel corso di un congresso, promosso dalla Società Siciliana di Storia Patria di Palermo, durante il quale illustrò, iniziando da fonti diplomatiche dell’XI e del XII secolo, e attraverso l’analisi di documenti, fino all’Ottocento, le fasi che portarono alla trasformazione dell’antico nome greco Hipsa al Bil’ch arabo, al Bilìchis o Bellìsi normanno, fino al siciliano Bilìci e all’italiano Belìce che già a metà del Settecento era stato definitivamente stabilizzato nella sua corretta forma piana.
Nel giugno successivo, a Salaparuta, in occasione di un convegno organizzato dal Comune e dall’Opera Universitaria, il nome Belìce, a scanso di equivoci, venne scritto nel manifesto con l’accento grave sulla ì e da quella data cominciò ad essere ribadito a livello scientifico. Sull’argomento tornò nel 1997 in un articolo pubblicato sul giornale “Il Belìce”, dal titolo Perché Belìce, – Una scelta coraggiosa nata da una chiara consapevolezza storica delle nostre radici.
Della sua città natale tiene a precisare che «l’aspetto più singolare … che la contraddistingue …da altri centri siciliani costruiti su alture e tuttavia dominati da un’alta fortezza, sta nella posizione del castello medievale… il quale si trova nella parte più bassa della moderna città, e che assieme alla Madrice vecchia dominava su tutto l’abitato medievale, sicuramente cinto di mura».
L’idea di come doveva essere la città alla fine del Medioevo, con l’abitato sovrastato dal castello e dalla Matrice Vecchia, al cui posto venne eretta nel Settecento la chiesa del Purgatorio, ce la propone in una foto pubblicata in Partanna trent’anni fa [7].
Sull’origine del castello, ritiene che possa riferirsi al barone Giovanni IV Graffeo, indicato dal Fazello come “signore del Castello di Partanna” nel 1353, e respinge fermamente «la non documentata affermazione dell’Adria… secondo cui il castello sarebbe stato costruito sul finire del XIV secolo da Andrea Chiaramonte, la cui famiglia, oltre tutto, non ebbe mai il possesso di Partanna» [8]. I Graffeo o Grifeo – la formula Graffeo è una variante prevalente nel XIV e XV secolo, del cognome Grifeo che ha un preciso riscontro nel grifo dello stemma – furono baroni di Partanna dal 1379 al 1627, anno in cui Guglielmo Graffeo Ventimiglia divenne primo principe di Partanna, tramite un privilegio di re Filippo IV.
Ai Graffeo Patera dedica molta attenzione nel narrare la storia della città, ma soprattutto non dimentica mai quel tal Onofrio II che «nel 1468 fu protagonista di una clamorosa controversia col grande scultore Francesco Laurana…» [9]. Il ritrovamento da parte sua, nel 1965, di un documento inedito del 13 maggio 1468, lo porta a ricostruire con certezza «la primissima attività isolana dell’artista», indicandone tra l’altro l’inizio a Sciacca e non a Partanna come si era fino ad allora creduto.
Infatti nell’esaminare il contenuto di un altro documento, datato 22 maggio 1468 e pubblicato dal Di Marzo, fa notare come altri illustri studiosi avevano asserito che «Francesco Laurana, dopo il suo primo soggiorno francese si era recato a Partanna per conto del signore di quella città e si era poi trasferito a Sciacca, dopo avere rotto i rapporti col primo committente che non lo aveva sufficientemente ricompensato per la sua opera». Sulla base di altre testimonianze inedite afferma pertanto che… «il primo committente isolano dell’artista che lo aveva inviato a lavorare a Partanna…era stato il nobile e potente signore saccense Carlo Luna, conte di Caltabellotta, discendente ed erede della fortuna dell’Infanta Eleonora d’Aragona di cui lo stesso Laurana avrebbe eseguito più tardi il celebre busto postumo…».
E per il prestigioso committente conte Luna, la cui famiglia teneva stretti rapporti con la corte aragonese di Napoli, lo scultore Laurana, forse conosciuto dal conte proprio nella città partenopea, durante la prima fase dei lavori dell’arco di Castelnuovo, eseguì nel 1648 una Madonna del Soccorso, per la chiesa di S. Agostino a Caltabellotta che reca sullo zoccolo lo stemma del conte.
Sicuramente era stata l’opportunità di lavorare a Partanna le pregiate pietre delle campagne locali, e soprattutto il marmo alabastrino di cui ancora oggi esistono tracce in contrada Baiata nell’ex feudo Cassaro, a circa tre chilometri a sud della città, ad indurre lo scultore ad impiantare a Partanna un’attrezzata bottega dove scolpire le «sue prime Madonne siciliane» per i signori delle città vicine come i Luna di Sciacca e i Tagliavia di Castelvetrano.
Ma a Partanna Laurana dovette rimanere poco, per via della nota controversia con Onofrio Graffeo, al quale aveva prestato, dietro regolare ricevuta, la somma di sei once che il barone non intendeva restituirgli, avendo lo scultore manifestato la volontà di lasciare Partanna. A ciò si aggiunse il fatto che durante un’assenza del Laurana per recarsi a Sciacca, il Graffeo fece sequestrare la bottega dello scultore con tutte le opere in lavorazione e gli attrezzi del mestiere, pretendendo che lo scultore rimanesse a Partanna per lavorare i marmi del territorio, avendo intravisto nello sfruttamento di tali marmi una possibilità di guadagno per rimpinguare le sue esauste finanze e per riparare ai numerosi debiti.
Ma Laurana si rivolse al vicerè Durrea il quale il 22 maggio 1468 ingiunse al barone di Partanna di restituire allo scultore il denaro prestatogli, le statue, gli attrezzi e il contenuto della bottega partannese che gli aveva fatto sequestrare. Appena undici giorni dopo quest’ultimo intervento, il 2 giugno 1648, Francesco Laurana si trovò a Palermo per sottoscrivere l’impegno per la cappella Mastrantonio nella chiesa di S. Francesco d’Assisi, assieme a Pietro de Bonitate e così finì l’avventura partannese dello scultore dalmata.
Benedetto Patera questo episodio lo riporta in tutti i suoi scritti che riguardano Laurana, facendo trasparire l’orgoglio del partannese perché «questo notevolissimo scultore», come lo definisce nell’introduzione del volume Francesco Laurana in Sicilia del 1992, avesse lavorato nella sua città natale ed il rammarico dello storico dell’arte perché l’artista fosse stato oggetto di vessazioni.
A Partanna Laurana lasciò delle opere incomplete come la Madonna col bambino, ora nel Museo Civico di Salemi e l’altra della chiesa dell’Annunziata di Castelvetrano, forse ultimate da Pietro di Bonitate. A Partanna oggi rimangono opere di bottega del Laurana: una Madonna dell’Udienza nella chiesa del Carmine, lo stemma dei Grifeo all’ingresso del castello ed una acquasantiera nella chiesa Madre.
Di questa chiesa, detta Madrice Nuova, iniziata intorno al 1579 e consacrata nel 1676 Patera esalta «il grandioso impianto basilicale a tre navate, senza transetto, con copertura a capriate, armoniosamente ritmato dal ricorrente motivo dei grandi archi a pieno centro… che sembra riproporre, con una sensibilità spaziale quasi barocca, i tradizionali temi gagineschi dell’architettura siciliana del Cinquecento».
Dei dipinti in essa contenuti segnala la Madonna del Rosario dipinta nel 1618 dal trapanese Michelangelo Carreca e due quadri settecenteschi: la Consegna delle chiavi nella cappella di San Pietro e la S. Anna nella cappella omonima. E si rammaricava molto Patera per l’arbitraria ricostruzione dell’interno avvenuta in seguito al crollo della navata centrale a causa del terremoto [10].
Della chiesa Madre segnalava «la ricca decorazione a stucco delle cappelle prevalentemente eseguita da Vincenzo Messina al quale si deve in particolare la complessa “Trasfigurazione” del cappellone absidale, l’episodio qualitativamente più rilevante è la cappella di San Vito».
Come si legge in Giacomo Serpotta a Partanna, pubblicato nel 1969 in Nuovi quaderni del Meridione, precise ragioni stilistiche e documentarie lo hanno indotto ad attribuire a Giacomo Serpotta e al fratello Giuseppe la realizzazione, nei primi mesi del 1693, della parte superiore degli stucchi della cappella di San Vito, poi continuati nello stesso anno da Vincenzo Messina [11]. Nelle quattro figure delle Virtù sedute sulla cornice dell’ordine superiore, ravvisa la mano di Giacomo sia per la presenza, in corrispondenza di esse, di una delle simboliche firme dell’artista, una “sirpuzza” tra gli artigli di un rapace, sia per le assonanze stilistiche che le legano a quelle dell’oratorio di Santa Cita e alle figure delle due cappelle della chiesa palermitana di S. Orsola eseguite tra il 1695 e il 1696.
Per i motivi ornamentali stretti collegamenti ravvisa con quelli della chiesa palermitana di S. Sebastiano alla Marina, e nella grande aquila col putto trombettiere vede un anticipo, anche formale, dell’identico motivo iconografico realizzato dal Serpotta, nel 1698, a Palermo nell’oratorio dei Sacerdoti, in cui lavorò insieme con altri artisti, tra i quali lo stesso Vincenzo Messina. In particolare attribuisce la decorazione della parte superiore della cappella di Partanna a Giuseppe che però pecca, a suo dire «di un certo soverchio barocchismo compositivo».
Nel Dizionario degli artisti siciliani di Luigi Sarullo, vol. III, Scultura, da lui curato, Patera è autore delle voci Francesco Lo Chiofalo, Antonino Mangiapane, Silvestre Ratto e Giacomo Serpotta, tutti legati a Partanna [12]. Il primo è uno scultore in legno del XVIII secolo, nato e operante a Partanna, autore della monumentale vara del Crocefisso, già nella chiesa del Purgatorio, poi distrutta dal terremoto. Silvestre Ratto fu uno scultore e intagliatore mazarese, trasferitosi a Partanna dove lavorò tra il 1665 e il 1686 per la realizzazione di diverse statue per le chiese della città e disegnò il monumentale coro ligneo della chiesa Madre, i cui lavori, iniziati nel 1668, furono interrotti in seguito ad una serie di contrasti sui prezzi e sulla qualità ed ultimati nel 1680 dall’intagliatore castelvetranese Antonino Mangiapane. E ancora della chiesa Madre ricorda il bellissimo organo disegnato nel 1679 da Paolo Amato.
In Partanna trent’anni fa la chiesa di San Carlo viene considerata una vera e propria pinacoteca cittadina ed elogiata per l’abbondanza e la qualità dei dipinti seicenteschi dell’interno, tra cui la Madonna degli agonizzanti di Giuseppe Faciporti, firmata e datata 1649, posta sull’abside maggiore. Dei dipinti custoditi in altre chiese in particolare si sofferma su: l’Ultima Cena una tempera su tavola del catalano Jaume Serra, conservata presso la Galleria Regionale del Palazzo Abatellis di Palermo; la Madonna della febbre di Bartolomeo Pompeiano, 1526, tuttora collocata nella chiesa del Carmine; la Madonna del Rosario, di Simone de Wobreck (1585), deturpata nel 1916, già nella chiesa di San Francesco, ora esposta presso il castello Grifeo.
Attraverso il rinvenimento di un documento inedito, fa emergere dall’ombra un dimenticato pittore settecentesco di Mazara, Vincenzo Blandina, 1712, autore di una pala d’altare raffigurante la Crocifissione con la Vergine e San Giovanni, già nell’Oratorio dei Bianchi e Monte di Pietà di Partanna, da lui poi acquistato, e nel 2005 donato al Museo Pepoli di Trapani, ed ora esposto nella sala 22.
Ad un altro pittore Fra Felice da Sambuca, autore di sei dipinti per il convento dei benedettini di Partanna, rende merito dedicandogli due saggi dallo stesso titolo Fra Felice ritrovato, nel 1981 e nel 1984 [13]. Cinque dei sei dipinti raffigurano altrettanti episodi della vita di san Benedetto, l’altro una Adorazione dei magi, ora custoditi tra la chiesa della Madonna del Carmelo e il Santuario della Madonna della Libera.
A seguito delle distruzioni seguite al terremoto soleva dire, «Partanna non l’ha distrutta il terremoto, l’hanno distrutta le ruspe». E a tal proposito scriveva che «l’unico concreto, radicale intervento, promosso senza risparmio di mezzi ed eseguito con estrema decisione… in pochissimi giorni …fu una totale demolizione, risolvendo così d’un tratto nella maniera più barbara e sbrigativa il civile problema della conservazione, e aggiungeva … su ogni altro sentimento prevale il rammarico per quella che fu per me, all’indomani del terremoto, una battaglia malamente perduta…» [14].
Nel riproporre trenta anni dopo il terremoto «… quelle vecchie foto che testimoniano alcuni aspetti della perduta bellezza …» specifica che esse «non saranno mai sufficienti a far pienamente comprendere ai giovani in quale piccolo capolavoro non hanno avuto la fortuna di vivere» [15].
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