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Per una reciprocità degli sguardi
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2024 @ 00:13 In Immagini,Letture | No Comments
di Valeria Salanitro
Le meccaniche celesti in quei cieli tersi valdostani sono il collante del documentario girato all’Osservatorio Astronomico della Valle d’Aosta (OAVdA) e al villaggio di Lignan nel vallone di Saint-Barthélemy. Il racconto filmico “Segnali di vita” segue la storia dell’astrofisico Paolo Calcidese [1], che durante l’autunno si trasferisce nella struttura come unico custode e abitante, per portare avanti le proprie ricerche scientifiche e sperimentare nuove tecnologie. A causa di un incidente tecnico, però, è costretto a mettere da parte gli astri e la solitudine per dedicarsi ad altre forme di vita finora non considerate: gli esseri umani.
In questo tessuto narrativo, connotato da linguaggi specialistici e argomentazioni patemiche, il regista Leandro Picarella [2] presenta “mondi possibili” che oscillano tra l’umanizzazione del paradigma scientifico e la rilevanza della dimensione sociale nella ricerca. Gli attori di questo frame decostruttivo sono attori sociali che, lontani dai rotocalchi e dalle luci della ribalta, raccontano il sé quotidiano, in una logica dialettica intrisa di pratiche di ri-conoscimento. Il protagonista delle trame narrative, infatti, è esso stesso uno scienziato e non un attore professionista, che ha raccontato senza filtri la sfera dell’umano al di là delle certezze empiriche.
L’ incontro con l’Altro
Interrogarsi sul quel famigerato sguardo, quando si attuano pratiche di ricerca scientifica e decretarne l’essenza, decentrata o meno, è il topic di ogni disquisizione accademica, soprattutto all’interno della comunità scientifica, le cui logiche oscillano tra autoreferenzialità e divulgazione. Il processo di categorizzazione linguistica prima, e mentale dopo, del mondo scientifico passa, infatti, attraverso le trame di una narrazione autodiretta, ma mostra altresì segni di eteroreferenzialità.
Quali siano le certezze su cui si basa la Scienza, insieme con le metodologie più razionali e prevedibili sono da sempre oggetto di dibattito, soprattutto oggi, in cui i saperi scientifici vengono decostruiti e fluiscono nel mare magnum del dubbio. Che influenza hanno gli astri celesti nella vita quotidiana dell’essere umano? Quanti sono i movimenti della terra? Le fasi della luna influiscono sull’Uomo o sulle coltivazioni? Questi i quesiti che l’astrofisico Paolo Calcidese pone alla comunità valdostana, per coglierne quelle che, in prima istanza, vengono apostrofate come “mis-conoscenze”.
I ricercatori sanno bene che le “false credenze” dominano l’immaginario collettivo e attraverso un’indagine socio-antropologica rivolta alla comunità di Lignon, Paolo scruta le percezioni sociali di una popolazione isolata, la cui esistenza è allocata a metri di altitudine e corollata da pratiche pastorali, in una comunità chiaramente chiusa nel suo microcosmo, ma accomunata da una profonda sensibilità verso l’Altro. Ed è qui, che si compie l’indagine che il documentario presenta. Che relazione intercorre tra la Scienza delle stelle e gli uomini di una valle? Come si relazionano gli individui tra loro e il mondo dell’astrofisica?
La pratica dello sguardo scientifico viene rimessa in gioco continuamente in questa pellicola densa, in cui le interpretazioni degli astri, celano percezioni sociali e identitarie di una società dedita alla relazione. Analizzando ogni singolo frammento della pellicola si scorge, infatti, un continuum tra ricercatore e intervistato. Chi pratica questo mestiere lo sa bene: la negoziazione dell’identità “sociale”, prevale sul contenuto delle indagini. Motivo per il quale, Paolo, ponendo interrogativi sulle volte celesti, finirà per riscoprire se stesso. Le tappe fondamentali della ricerca sul campo, in cui il soggetto che compie l’indagine cede il posto alla dimensione relazionale, diviene il volano di tutta la trama filmica. Quel guasto al microscopio che impedisce all’astrofisico di condurre analisi empiriche sui corpi celesti, sarà l’espediente che permetterà allo stesso di toccare dimensioni altre, pur sempre correlate all’universo scientifico.
Analizzando ogni frame della pellicola, scorgiamo molte delle dimensioni che afferiscono alla sfera sociale, alla dimensione umana ed empatica dell’essere. Quello sguardo scientifico dell’uomo accademico cede il passo al ricercatore sociale e, conseguentemente, muta anch’esso, ponendo l’accento sulla natura relazionale e dialogica dell’essere sociale, prima che scienziato (nell’accezione più deterministica della dizione).
Molte scene del film permettono di decostruire quest’impasse in cui incorre il ricercatore, ma permette altrettanto, di cogliere gli aspetti più rigidi ed “evoluzionistici” delle scienze esatte. Rilevanti, a tal proposito, le scene in cui il robot mostra la dimensione umana della scienza e “l’errore” scientifico, quando, entrando in un loop infinito, ripete le medesime frasi. Emblematica, altresì, la scena in cui le donne intervistate pongono all’attenzione dello scienziato una piccola piramide riposta sul tavolo e, a loro dire, dotata di poteri “taumaturgici”. Immagine significativa, poiché Paolo, in quel frangente, rappresenta lo scienziato per antonomasia, quando dice: «il linguaggio scientifico è il nostro, quest’oggetto non ha nessun potere», ma l’oscillazione tra micro e macro, nella narrazione filmica è sempre presente.
Quest’apparente dominio si manifesta durante diverse interviste, significativa in tal senso, quella che somministra all’erborista il quale, stringendo a sé la piccola Agata (figlia di 3 anni), fornisce risposte ampie e dettagliate ai quesiti che pone Paolo. La negoziazione dell’io passa attraverso queste interviste e l’astrofisico non solo non guarderà le stelle al microscopio, ma istituirà relazioni sociali in una dimensione altra, che supererà quell’asimmetria iniziale che connota qualsivoglia pratica di ricerca.
Ed eccoci arrivati all’aspetto più significativo del documentario. Esserci come sostanza, il monito tanto caro agli esistenzialisti, che torna ad essere utile. Le molecole nucleari e le fasi lunari cedono il posto ad una ricerca sociale, in cui lo sguardo dialogico dell’osservante, si posa inesorabilmente sull’osservato e crea relazioni, abbattendo, di fatto, le zone di confine. La dialogicità tra la comunità rurale e quella scientifica si coglie reiteratamente in ogni frame. Ed è così, che l’affezione nutrita nei confronti di un bue (le pratiche agonistiche in cui questo veniva coinvolto) e il pianto correlato alla sua prematura morte, divengono il centro di questa indagine sociale, così come la relazione tra Severino e Agnese, insieme con le progettualità capovolte della coppia Silva e Josef, protagonisti indiscussi di questo racconto di vita.
Le mis-conoscenze, richieste dalla comunità accademica, diverranno per Paolo delle certezze esistenziali di una reciprocità dell’esser-ci. L’umanità dello scienziato, che non vuole chiudersi alla rigidità del Sapere, ma che apre le porte all’umanità dello stesso, si coglie in ogni quesito, in cui va oltre e instaura relazioni amicali con gli intervistati, raccontando di sé in prima persona. La reciprocità dello sguardo è compiuta. Del resto in ogni domanda, c’è lo sguardo relazionale, accompagnato da quello accademico e divulgatore. Avvicinare la comunità scientifica alla società civile e far conciliare realtà inconciliabili attraverso le trame narrative degli astri.
Ma nel film si racconta veramente la pratica della ricerca e quella dimensione meravigliosa nella quale ci si ritrova spesso. Non semplici numeri e deduzioni logiche, dati, numeri, statistiche o algoritmi, ma un viaggio introspettivo in cui ri-conoscersi al di là delle mis-conoscenze, che diverranno, per contro, ri-conoscenze empatiche, sociali e culturali. Uno scambio simmetrico e degno di nota, in cui l’alterità cede il posto all’essenzializzazione del Sapere. Perché:
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