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Perché mangiamo gli animali? Le risposte del pensiero greco a un problema contemporaneo
Posted By Comitato di Redazione On 1 marzo 2021 @ 02:03 In Cultura,Società | No Comments
Gli spillover e il dilemma dell’onnivoro occidentale
Hendra, Marburg, SARS-COV e SARS-COV2 sono tutti virus partiti dai pipistrelli. E si sa: a mangiare i pipistrelli (e non solo) sono i Cinesi, che, per effetto di un bias etnocentrico attivato dalle strategie comunicative dei media, sono stati individuati – in un immaginario collettivo largamente ‘colonizzato’ dalla semplificazione – come i principali responsabili dell’ultima, micidiale zoonosi che ha generato la pandemia da Coronavirus.
Se andiamo indietro nel tempo, però, potremmo anche ricordare che qualche anno or sono, prima ancora del pipistrello, a seminare il panico in tutto il mondo era stato un altro ‘animale ospite’ a noi ben più familiare, e presente (e per giunta in quantità industriali) nelle diete di tutti i carnivori occidentali. Sto parlando del pollo, che ha permesso il salto di specie di H5N1, i cui effetti per l’uomo – almeno così si temeva, ma poi così non è stato – sarebbero stati a dir poco apocalittici.
Il punto è che, come avvertono molti scienziati, e come denunciano molti attivisti dei diritti animali, mangiare i non-umani non è più soltanto una semplice questione ‘morale’ per filosofi ‘buoni di cuore’, ma sta soprattutto diventando, in ragione degli effetti devastanti degli allevamenti intensivi, una questione ambientale seria: trasformare in prodotto a buon mercato la carne di animali che sono stati vivi richiede grandi estensioni di terreni dedicati al pascolo e al foraggio, e per trasformare i terreni in pascoli è necessario disboscare e deforestare. Per commercializzare i prodotti animali in ogni angolo del mondo, poi, è necessario costruire o potenziare strade, trasporti, infrastrutture, cosa, questa, che ha un impatto drammatico sugli ecosistemi.
Più in particolare, la sottrazione di sempre ulteriori spazi a foreste e territori in cui l’uomo mai era penetrato prima ci mette a contatto con zone del pianeta in cui vivono milioni di specie in larga parte sconosciute e ancora non classificate. Tra queste specie ci sono, appunto, virus pronti a passare da animali che per millenni li hanno ospitati in altri animali ‘amplificatori’ che potranno permettere ulteriori salti di specie e malattie sempre più impattanti per il genere umano: è il fenomeno che nel gergo tecnico della virologia si chiama spillover [1].
E dunque – questo il dilemma che attanaglia sempre più onnivori (ed ex onnivori) occidentali – perché mangiamo gli animali?
La risposta del mito: non siamo dèi, non siamo immortali (e forse non siamo neanche ‘puri’)
I Greci antichi hanno dato, sostanzialmente, due ordini di risposte a questo dilemma. Il primo è di tipo mitologico o, se vogliamo ragionare in una prospettiva ‘emica’ più che ‘etica’, ‘religioso’. Secondo quanto ci dice Esiodo, che si era già posto questo interrogativo nella Teogonia, noi mangiamo gli animali sostanzialmente perché non siamo degli dèi. La spiegazione eziologica di questo comportamento che ci contraddistingue come specie andrebbe cercata, secondo il poeta di Ascra, nella notte dei tempi, quando ancora gli uomini e le divinità olimpie usavano banchettare insieme.
Questa consuetudine sarebbe stata interrotta da Prometeo. Durante una festa che si stava tenendo a Mecone, nel momento di spartire le carni di un enorme bue, il titano aveva teso un tranello agli dèi. Questi avrebbero dovuto scegliere per primi le porzioni dell’animale sacrificato, e allora Prometeo, per indurli a prendere le ossa – ovvero la parte peggiore e con meno carne –, le aveva avvolte in un lucido strato di grasso per renderle più appetibili, mentre i pezzi di carne migliore – riservati di fatto agli uomini – li aveva nascosti sotto la putrida e malconcia pelle dell’animale.
Zeus si lasciò ingannare, ma si vendicò imponendo una dura condizione: da quel momento in poi gli uomini avrebbero continuato a mangiare la carne degli animali sacrificati, riservando le parti non commestibili agli dèi, ma lo avrebbero fatto al prezzo di enormi fatiche e, soprattutto, diventando mortali. Unica consolazione: gli uomini si sarebbero comunque distinti dagli altri animali, perché, mentre questi ultimi mangiano cibi crudi, essi avrebbero mangiato cibi cotti, e in più si sarebbero avvalsi, fra loro, della dike (ovvero della ‘giustizia’), mentre i rapporti con (e fra) gli altri animali non sarebbero stati regolati da alcuna legge [2].
Il consumo carneo trova qui la sua fondazione teologica: se mangiamo gli animali è da un lato per effetto di una condanna, ma anche per segnare una sorta di residua convivialità con i celesti. Siamo davanti a un vero e proprio teorema antropopoietico: gli umani sono costruiti culturalmente per differentiam con l’alterità animale e l’alterità divina, collocandosi in una posizione intermedia fra le due [3]. Tale posizione intermedia marca da un lato una superiorità rispetto al versante degli alla zoa (‘gli altri esseri dotati di vita’), ma dall’altro riconosce il fatto che gli uomini non possono essere puri, che sono costretti a uccidere per sopravvivere, e che il consumo carneo è frutto di tribolazione e sofferenza, e – soprattutto – è indice di mortalità. Non è un caso, del resto, che, anche in seno al mondo greco, quegli asceti – come ad esempio Porfirio – che mirano al superamento dello satus limitato cui l’umanità sembra condannata, optano, come prima cosa, per l’astinenza dalle carni [4].
La risposta di Plutarco e Porfirio: siamo ‘degenerati’
Un secondo ordine di risposte si trova in seno alla tradizione filosofica antica. Se escludiamo le posizioni apparentemente estreme di pensatori pre-socratici come Empedocle e Pitagora, che avevano proposto forme di astinenza dalle carni più o meno estreme per ragioni più o meno ascetiche e religiose, la posizione egemone in seno alla cultura greca sembra essere non troppo dissimile da quella avallata dal mito esiodeo: mangiamo gli animali perché siamo radicalmente differenti da loro, e perché, visto che essi sono privi di logos – ovvero di facoltà logico-linguistiche –, non possiamo avere obblighi morali e giuridici nei loro confronti. Sono, dunque, a nostra completa disposizione [5].
Una voce fuori dal coro è però rappresentata da alcuni filosofi che danno risposte radicalmente diverse. Plutarco, ad esempio, sostituisce al racconto mitico di Esiodo una versione razionalizzata della storia umana. All’origine non ci sarebbero dèi e titani, ma solo la lotta per la sopravvivenza fra gli uomini e le belve feroci. Stando a quanto il moralista di Cheronea fa dire a uno dei personaggi del suo De sollertia animalium (‘L’intelligenza degli animali’), gli uomini avrebbero cominciato a uccidere animali solo per legittima difesa. Quell’uomo che per primo avrebbe ucciso un lupo o un orso ne avrebbe ricavato grande fama presso la sua comunità. A poco a poco, però, l’uccisione degli animali feroci avrebbe creato una sorta di assuefazione alla vista del sangue, e così, dopo i lupi e gli orsi, gli uomini avrebbero cominciato ad uccidere anche animali innocui: prima i cervi, le lepri e i caprioli, poi anche gli animali domestici (come gli ovini, i bovini e i suini), infine… gli altri uomini [6].
In altri termini, secondo Plutarco (e secondo Porfirio che riprenderà più tardi il medesimo argomento), se mangiamo le carni degli altri animali non è tanto per una decisione degli dèi, ma perché ad un certo punto della storia della nostra civilizzazione – in quella che viene descritta come una potente sequenza degenerativa – ci siamo abituati alla violenza. E la violenza, secondo Porfirio, ci avrebbe condotto anche – in alcune fasi della nostra storia – all’antropofagia, che avrebbe poi dato luogo ai sacrifici degli animali, divenuti ‘sostituti simbolici’ degli uomini che avevamo preso l’abitudine di offrire agli dèi.
Se poi ci sono stati momenti di penuria e di carestia che ci hanno spinto a mangiare carne sotto la spinta della necessità, oggi – che viviamo nell’abbondanza – non avremmo più bisogno di uccidere e fare soffrire esseri che – spesso – non hanno alcuna colpa nei nostri confronti, tanto più che la struttura dei nostri denti e della nostra mascella, la mancanza di zanne e artigli proverebbero il fatto – secondo Plutarco e Porfirio – che non siamo nati per essere predatori, bensì vegetariani e frugivori [7].
La risposta di Aristotele: siamo onnivori per natura e per cultura (ma c’è una misura!)
All’interno del dibattito filosofico antico, una posizione che merita di essere analizzata a parte è comunque quella di Aristotele. Questo pensatore non si è mai posto esplicitamente il problema del perché mangiamo gli animali, ma possiamo comunque ricostruire ipoteticamente le risposte che avrebbe dato alla domanda a partire dai testi che ci sono rimasti.
Per Aristotele noi mangiamo gli animali perché siamo pamphagoi, ovvero ‘onnivori’. Che questo sia un dato di fatto si evince, ad esempio, dalla lettura di una famosa sezione della Politica, in cui si parla della catena alimentare, e in cui si dice, appunto, che dobbiamo pensare che gli animali e le piante sono in vista degli uomini [8]. A ciò bisogna aggiungere che mentre filosofi come Plutarco e Porfirio insistono sul fatto che il nostro metabolismo non è fatto per mangiare cibi crudi, altrove Aristotele spiega che noi umani siamo, per natura, dotati della techne, che ci permette di sviluppare sistemi che permettono di superare i nostri limiti. La cottura dei cibi, dice Aristotele, avviene già all’interno del nostro stomaco, ed è un processo naturale che permette di portarli alla ‘maturazione’ garantendo il sostentamento di un organismo e la sua crescita. La cottura artificiale (bollitura, lessatura, arrostimento) è invece una imitazione di quanto già avviene in natura all’interno del nostro corpo, e di fatto è un modo di ‘esternalizzare’ processi che il nostro metabolismo, da solo, non riuscirebbe mai a portare a termine: essa prepara alimenti estranei e per noi innaturali per renderli digeribili e assimilabili, permettendoci, di fatto, di diventare pamphagoi, onnivori [9].
Il punto è però che il termine pamphagos, in Aristotele, ha una duplice accezione, perché se da un lato viene usato per indicare uno status che l’uomo acquisisce per mezzo della sua naturale predisposizione allo sviluppo delle tecniche, dall’altro lato, ad esempio nell’Etica Eudemia, è usato per indicare la ‘voracia’, che viene marcata come un atteggiamento morale estremo in relazione alle corrette abitudini alimentari umane [10].
In altri termini, Aristotele dice che sì, noi siamo anche – fra le altre cose – allevatori e mangiatori di animali, semplicemente perché una delle nostre specificità innate (uno dei nostri propria hominis) consiste nello sviluppare capacità, strumenti e metodi per allevarli, mangiarli e digerirli. Uno dei problemi che questo pensatore sembra porsi esplicitamente con grande preoccupazione, tuttavia, non è tanto cosa mangiamo, quanto piuttosto come mangiamo e come ci procuriamo le cose che mangiamo.
Per Aristotele, ad esempio, c’è un limite nel consumo delle risorse, e questo limite va individuato nel ‘giusto mezzo’: quando, infatti, si viola la misura corretta non solo si diventa ‘voraci’ (ovvero pamphagoi, nell’accezione negativa del termine), ma si va troppo al di là di quelli che sono le finalità naturali della nostra specie e il bene della comunità in cui viviamo.
In altri termini, mangiare ‘con misura’ non è soltanto una questione di ‘buona educazione a tavola’ (dove – come si dice nell’Etica Eudemia – non si deve essere né troppo voraci né schizzinosi); è anche soprattutto una questione di pleonexia, ovvero quell’atteggiamento immorale e politicamente scorretto che ci spinge a procacciarci ricchezze in maniera innaturale e al di là di quanto è necessario per gli scopi della vita. E il desiderio di pleonexia, secondo Aristotele, è una minaccia alla polis, o, come diremmo noi oggi, agli ‘ecosistemi’ in cui le nostre comunità politiche si trovano ad operare [11].
Aristotele, in altri termini, non sembra inseguire alcun desiderio di ‘purezza’ umana, come invece faranno più tardi Plutarco e Porfirio. Sa soltanto che non possiamo fare a meno delle risorse per vivere. E fra queste risorse ci sono, come dato di fatto, anche gli animali. Sa però anche che è importante stabilire quale sia il limite nel procacciarci queste risorse (animali compresi).
È chiaro che non è compito dell’antichista proporre ipotesi fantastoriche. Giusto per concludere con un gioco, mi piace però immaginare che, se Aristotele fosse vivo oggi, capirebbe senz’altro che il nostro consumo carneo si è forse spinto un po’ troppo in là. Ma probabilmente non si fermerebbe qui, perché, ad esempio, comincerebbe anche a chiedersi cosa comporta, in termini di impatto ambientale, la sostituzione della carne con la soia, la cui coltivazione intensiva sta causando problemi enormi – in termini di deforestazione e di erosione del suolo – alla foresta amazzonica e, per conseguenza, al pianeta intero [12].
Insomma, a voler continuare a giocare con gli anacronismi, forse Aristotele non avrebbe troppo in simpatia il radicalismo dei Vegani, ma magari sarebbe tentato di aderire al movimento Extinction Rebellion Day per tentare di tutelare le sorti del pianeta, limitare le zoonosi e salvaguardare la nostra specie (e le altre specie) ristabilendo un giusto mezzo.
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