il centro in periferia
di Nicoletta Malgeri
Ciascun luogo cela dietro di sé una storia che va riscoperta per fondare un nuovo presente: è questa la scommessa che muove l’azione e l’impegno di Giuseppe Curcio, per tutti Peppino. Peppino Curcio, storico e paesologo, da anni impegnato in attività di tutela dei diritti e di valorizzazione della cittadinanza attiva [1], si fa promotore di una innovativa missione sociale e culturale, che parte dalla riscoperta dei segni che la storia ha lasciato in un piccolo territorio dell’entroterra calabrese, posto a circa 900 m.s.l.m [2], nel cuore della montagna silana: Pratopiano (in dialetto calabrese “Prat ‘e Chianu”).
La storia di Pratopiano si inserisce in quella del territorio più vasto nel quale esso si trova, ovvero il comune di Casali del Manco. Comune di recente formazione, ma dalle radici storiche molto lontane nel tempo, Casali del Manco ha un territorio piuttosto esteso (168,96 Km²di superficie [3]), con zone ricomprese nell’area del Parco Nazionale della Sila, tra cui la cima più alta della Sila (il monte Botte Donato, 1928 m.s.l.m.), e aree confinanti con la vicina città di Cosenza. Con una popolazione che oggi è di 9.928 abitanti [4], Casali del Manco, nasce nel 2017 dalla fusione di 5 ex comuni cosentini, Pedace, Serra Pedace, Spezzano Piccolo, Trenta e Casole Bruzio, a seguito di un referendum consultivo tenutosi il 26 marzo 2017 [5]. La sua è la storia di una comunità calabrese, attiva e partecipe, che, pur cambiando profondamente al suo interno, riesce a mantenere forte i legami culturali e identitari col proprio territorio.
Al partire dal secondo dopoguerra l’area ricompresa nei Casali del Manco ha vissuto un andamento demografico diversificato nei 5 ex comuni [6], ed ha visto, nell’ultimo decennio, una progressiva riduzione della popolazione residente [7] (riduzione che non si arresta, anzi, sembra accentuarsi nel corso degli ultimi due anni, dopo l’avvenuta la fusione dei comuni). A questo cambiamento della struttura demografica si è accompagnato una profonda trasformazione dei principali tratti sociali della comunità del luogo. Al progressivo ridursi e invecchiamento della popolazione, per lo più contadina, ha fatto seguito, infatti, un crescente peso del settore terziario. Eppure, ancora ad oggi, gli abitanti dei Casali attraverso iniziative culturali, sociali ma anche politiche, tendono a rivendicare il proprio senso di appartenenza a un territorio che presenta specifici elementi identitari.
Questo forte senso di appartenenza alla comunità è dimostrato, ad esempio, dal tipo di scelta che i cittadini fanno riguardo allo stemma di cui deve dotarsi il nuovo comune [8]. Uno stemma che sembra ribadire, con forza, l’avvenuta fusione dei Casali nonché le forti relazioni paesaggistiche e storiche che in essi intercorrono [9]. Un secondo esempio, testimonianza del forte senso di identità della comunità, ci è offerto dal nome che i cittadini prescelgono per designare il nuovo comune: “Casali del Manco” [10]. Il nome, infatti, rimanda all’antico termine con cui veniva identificato tutto il territorio. “Casale” sta per un gruppo di poche case rurali, sparse nel territorio, e rimanda alle prime forme di abitazione presenti sul territorio tra il X e XI secolo [11]; “Manco”, letteralmente “A sinistra”, può essere interpretato in due modi diversi: secondo alcuni sta per “alla sinistra del fiume Crati” secondo altri “alla sinistra della via Consolare o via Popilia provenendo da Roma” [12].
Come si sarà potuto notare, da quanto sopra riportato, la nascita del comune di Casali del Manco si è accompagnato a significativi momenti di coinvolgimento dei cittadini. È questo uno dei tratti culturali tipici di questa comunità: la forte partecipazione popolare alle scelte del proprio territorio. Una caratteristica che la differenzia nettamente dal restante contesto calabrese [13]. Ne è la prova il referendum istitutivo del comune che ha visto una partecipazione al voto piuttosto alta (quasi la metà degli aventi diritto al voto, il 46,84%) [14]. Una partecipazione politica che affonda le proprie radici in usanze e istituti nati intorno al X secolo d.C., sotto il regno Normanno, e che si sono mantenuti in vita sino all’inizio dell’800, ovvero per quasi dieci secoli di storia. I suddetti istituti sono le baglive e le Universitas. Le baglive [15], infatti, oltre a ricoprire il ruolo di mere e proprie unità amministrative, esprimevano forme di partecipazione davvero significative, che permettevano ai cittadini di esprimere il proprio parere attraverso i propri rappresentanti oppure tramite le cosiddette Universitas [16]. Si trattava, insomma, di vere e proprie assemblee pubbliche in cui i cittadini potevano prendere la parola [17].
L’azione di Peppino, originario di Pedace, si inserisce proprio all’interno di questo contesto dai tratti del tutto singolari, in cui il senso di comunità è profondamente radicato. Pratopiano, a pochi chilometri da Pedace, è, riprendendo le parole di Peppino, «un luogo ricco di storia». Pratopiano è la storia dei briganti casalini; Pratopiano è la storia dell’antica civiltà contadina dei casali; Pratopiano è la storia di Pietro Ingrao, che ha trovato rifugio a Pratopiano nella casella di Peppino; Pratopiano è una storia tutta da scoprire.
Da luogo di ricordi a luogo dell’esplorazione
Pratopiano è, per Peppino, il luogo da cui partono tutti i ricordi legati alla sua infanzia. Gli alberi monumentali, il vocìo delle persone che si chiamavano da una vallata all’altra, le persone che si aggiungevano lungo il cammino che lo portava lì dove c’erano i castagni. Immagini che sono rimaste intatte nella sua memoria:
«La prima volta che sono andato a Pratopiano avevo all’incirca 7 anni. Mi ricordo di esserci andato accompagnato dalla mia mamma, un po’ a piedi, un po’ a dorso di un mulo. È stata un’emozione grandissima. Abbiamo percorso una strada, la Carrera, che per me è importantissima perché ha mille anni e collega un mulino del 1700, che sorge sullo stesso luogo di un ancor più antico mulino comprato dall’abate Gioacchino nel 1200 e arriva fino a Canale, che è il luogo dove è l’abate è morto. Questo sentiero è proprio un solco nella montagna. Ricordo che mentre salivamo non eravamo mai soli. Si aggiungevano sempre altre persone e ci si scambiava qualche battuta. Diventava un momento di dialogo, di scambi di battute. Ho ancora impressa nella memoria la prima volta che sono arrivato a Pratopiano. L’emozione di aver visto un nido di uccellini, costruito lì in un piccolo vuoto del muro di casa. Mi è rimasto nella testa. Gli alberi monumentali di castagno, i resti di un alveare, di certo opera di papà che era un appassionato di alveari… Ogni volta che dovevamo salire a Pratopiano ero preso dall’ansia, dall’emozione. La notte prima non riuscivo a dormire al pensiero delle cose da fare lì. E poi, c’era una cosa bellissima: il vocìo delle persone che si chiamavano fra una vallata e l’altra… Indimenticabile» [18].
È da questo luogo che, Peppino, intorno ai primi anni 2000, inizia «la sua grande esplorazione». Esplorazione è il termine che egli usa maggiormente perché definisce, in maniera più chiara e precisa, il viaggio di ricerca storica, ma anche, antropologica che compie all’interno dell’ampia montagna. L’accoglienza dei primi gruppi scout nella sua tenuta di Pratopiano ne chiarisce l’origine:
«Col tempo ho capito che l’accoglienza degli scout poteva diventare un modo per fare qualcosa per e nel territorio. Nei primi anni del 2000 è arrivato a Pratopiano un gruppo scout di Siracusa, guidato da un signore che faceva lo scout da molti anni. Lui mi ha spiegato quale è la filosofia alla base della loro missione e quella conversazione mi è stata utile per capire. Per capire loro, ma anche perché fossero venuti a Pratopiano e le potenzialità del posto. Loro esplorano. La loro è un’esplorazione, e c’è un valore profondo nell’esplorazione. L’esplorazione non vuol dire solo andare per boschi e scoprire, ma esplorare la storia, esplorare se stessi. Esplorazione di Dio, esplorazione dell’amico. Il valore dell’esplorazione aiuta, a mio avviso, anche a capire le forme e le ragioni della gerarchia degli scout. Cioè: io ho fatto questa esperienza e ti guido a fare questa esperienza. Questa storia dell’esplorazione mi ha aperto un mondo, soprattutto l’esplorazione della storia, perché loro venivano e volevano sapere da me cosa c’era lì, cosa c’era stato, cosa era successo in quei luoghi» [19].
Gli scout, sottolinea Peppino, “esplorano” il territorio, ovvero lo interrogano per conoscerlo più a fondo, per dare un senso a ciò che li circonda. Questo modo di guardare il paesaggio lo illumina e, ben presto, le loro domande diventeranno le sue. Come lui stesso afferma:
«L’esplorazione, che per loro è un valore, è diventata un valore anche per me: era diventata una sorta di impegno. Da allora l’esplorazione è stato pure il mio impegno principale tanto che, ad un certo punto, anziché viaggiare nello spazio, ho iniziato a viaggiare nel tempo. Ed ho viaggiato riscoprendo Pratopiano attraverso lo studio e la ricerca».
Le ricerche sui briganti
L’esplorazione parte dalle prime ricerche che Peppino fa sui briganti presenti nel territorio dei Casali. In questo viaggio di esplorazione gioca un ruolo importante una figura a lui molto cara, lo zio materno, Pietro D’Ambrosio [20], autore del libro, edito nel 2002, dal titolo Brigantaggio, Pietro Monaco e Maria Oliverio. Storia e Documenti di un mito della Presila [21]. Testo che si apre con le seguenti parole:
«Questa mia modesta ricerca non ha alcuna pretesa di originalità ma solo lo scopo di stimolare nei giovani presilani l’amore per lo studio e la conoscenza della nostra storia passata e recente. La ricerca ha come nucleo centrale la vicenda del famoso capobrigante Pietro Monaco, alias “brutta cera”, e della sua bella, giovane e crudele moglie Maria Oliverio, alias “Ciccilla”, documentata da atti dell’archivio di stato e da testimonianze attendibili» [22].
Peppino riparte dalle ricerche dello zio “Pietrino”, riguardanti la storia di due briganti dei Casali, Pietro Monaco e la brigantessa Maria Oliverio, alias Ciccilla, per poi ampliarle, approfondirle ed estenderle ad altre storie di briganti casalini. Una ricerca che avrà la durata di circa dieci anni: prima all’Archivio Centrale dello Stato, dove ritrova gli atti del processo a Ciccilla; poi all’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito Italiano, dove viene a conoscenza di alcune fonti che accennano a un interesse del grande scrittore francese, Alexandre Dumas, per la brigantessa Ciccilla. Fonti che Peppino verifica direttamente alla Biblioteca Lucchesi Palli, sezione della Biblioteca Nazionale di Napoli, dove, nello sfogliare i primi numeri del giornale l’Indipendente, si ritrova fra le mani un racconto storico, inedito, di sette capitoli, scritto dallo stesso Dumas. Un racconto dedicato proprio ai briganti Pietro Monaco e Maria Oliverio:
«Dumas fu colpito dell’audacia dell’azione brigantesca del Monaco, l’esistenza di una donna brigantessa, non una druda, ma un’amazzone che imbracciò il fucile, insieme alla storia personale di Monaco, stuzzicò la sua fantasia di scrittore»[23].
Questa, per Peppino, è una grande scoperta. La sua ricerca prosegue all’Archivio di Stato di Cosenza, dove ha modo di consultare i processi, di cui ben 38, legati alla banda di Pietro Monaco, sono quelli da lui stesso ricostruiti. Una ricerca puntigliosa e certosina durante la quale, con commozione, ritrova anche tra i fascicoli alcune carte sparse, appunti con la grafia dello zio Pietrino, al tempo, purtroppo, deceduto. Le lunghe ricerche di Peppino mettono in luce diversi aspetti che aiutano a comprendere il fenomeno del brigantaggio nella Sila. Egli, innanzitutto, ci consegna un’immagine dei briganti del tutto diversa da quella offertaci da gran parte della letteratura:
«La presenza del brigante buono c’è solo nella letteratura, io, però, non l’ho mai riscontrata nei processi. I briganti non sono buoni. Solo nel caso di un prete di Perito, che nel 1848 si veste da brigante e occupa le terre di Sila, ho riscontrato un profilo del genere. I fatti realizzati dai briganti sono, invece, terribili. Si parla di eroi, ma non mi spiego come si possa sostenere quest’immagine. Quando si aveva a che fare con un brigante si doveva avere paura. Ci si doveva guardare non solo dai briganti ma anche dalle forze dell’ordine. Bastava semplicemente il sospetto di una parentela e, automaticamente, si veniva messi in galera»[24].
Una storia che è stata incredibilmente rimossa dalla stessa comunità del luogo, quasi non fosse mai esistita:
«Il fenomeno del brigantaggio nei Casali è stato praticamente rimosso dalla comunità del posto. C’è stata una rimozione collettiva. Ne è scomparsa la memoria. Ho trovato che la storia di Ciccilla viene pubblicata in Francia nelle prime pagine dei giornali, in Inghilterra al Manchester Post (1864). Quando mai i Casali hanno avuto tanta visibilità? Addirittura Alexandre Dumas scrive la storia di Pietro Monaco. Di tutto questo si era persa traccia»[25].
Peppino porta nelle scuole le storie, crude e atroci, dei briganti dei casali, cercando di offrire un racconto quanto più fedele alle carte, ai processi da lui esaminati:
«A volte, anzi spesso, quando ne parlo in pubblico, sento che verso queste storie dei briganti c’è un’aspettativa diversa. Si cerca di dare un’interpretazione politica, filo-piemontese o filo-borbonica. Come se dovessimo andare alle elezioni. Pochi hanno trattato storie di briganti con mente libera da pregiudizi di questo tipo. Tra questi due grandi, immortali comici come Stan Laurel e Oliver Hardy ad averne fatto un racconto diverso con un film libero da questi schemi, serio, grande, importante: “Fra Diavolo” (un brigante di Itri, nel Lazio). I nostri briganti nessuno li conosce (niente di meno di Fra Diavolo) perché da noi c’è sempre nei loro confronti un retro pensiero secondo il quale per fare i briganti ci deve essere stato un motivo ideale. Un aspetto romantico. Tutto invece dovrebbe essere guardato con più oggettività»[26].
Le carte che Peppino studia fanno emergere un altro dato interessante, ossia il fatto che i briganti si ponevano al di fuori della comunità e vi rientravano soltanto in determinati momenti: quando venivano assoldati dai carbonai perché manodopera a basso prezzo, oppure, quando venivano accettati come portantini della statua del santo patrono della specifica comunità. Peppino, pertanto, preferisce chiamarli “fuoriusciti” [27]. Non solo. Le sue ricerche mettono in luce anche un altro interessante dato antropologico che ha a che fare col modo di vestirsi dei briganti. Quello che egli stesso definisce una sorta di “divisa”:
«La cosa che più colpisce è che si vestivano tutti allo stesso modo. Un tratto che è rimasto immutato nel tempo. Si vestivano di nero: il cappello era nero, il pantalone era nero, il mantello era nero, i calzari erano neri, fatti di pecora dalla lana nera. Ed ho scoperto che la pecora nera è la pecora prevalente tra i greggi dei pastori casalini. Fra l’altro la lana di queste pecore è particolarissima. Si infeltrisce molto facilmente, perché è sottilissima, ed è ottima per fare i tessuti. Poi ho scoperto che sotto i mantelli i briganti avevano l’“abitiellu”, una camicia molto leggera su cui attaccavano le medaglie del santo. In genere per i briganti era per devozione alla Madonna del Carmine. Per esempio, c’era un brigante che doveva essere ucciso. Il brigante che sta per ucciderlo gli scopre il petto e vede l’abitiellu. Questo si ferma e pensa “Non lo posso ammazzare”. Ecco, è una sorta di corazza. Poi ci sono delle caratteristiche comuni. Nella descrizione della “mutanda” di Pietro Monaco, ricordo che la mutanda era un vestito completo, ho scoperto dove veniva messo il loro coltello. I coltelli erano messi lungo la coscia. C’era una doppia cucitura nel pantalone. In questa doppia cucitura si infilava un affare di cuoio e nel fodero di cuoio si infilava il coltello e un’immagine del tutto simile l’ho ritrovata in un disegno della fine del 1700 che descriveva un brigante»[28].
La storia dei briganti segna nel profondo la comunità. È un «fenomeno endemico» del territorio, volendo riprendere un’espressione usata dallo stesso Dumas. Un fenomeno che trova il proprio fondamento nella collocazione geografica del luogo, ossia il fatto di avere un grande territorio vergine alle spalle, la Sila, in cui potersi facilmente nascondere e, nelle vicinanze, una città, Cosenza, nella quale abitavano persone ricche, facoltose, quindi, facilmente derubabili [29].
Peppino, tassello dopo tassello, restituisce al territorio quella memoria storica di cui si è perso il ricordo. Ma, le sue ricerche, non si limitano a questo. L’obiettivo di Peppino è, soprattutto, divulgativo. Questa è la grande originalità del suo impegno sociale, sia come storico sia come cittadino dei Casali. Sente quasi il “dovere” di raccontare le sue scoperte, perché fanno parte della storia della comunità. Questo è il motivo per cui scrive due testi sui briganti. Il primo, pubblicato nel 2010, è intitolato Ciccilla. La storia della brigantessa Maria Oliverio, del brigante Pietro Monaco e della sua comitiva [30]. Pubblicazione che gli permetterà di organizzare numerosi eventi culturali dedicati alla storia dei briganti casalini e di alimentare un vivace dibattito nella comunità. A tal proposito ricordiamo che, nel 2015, l’Associazione culturale, Prometeo88, ha realizzato il film “Ciccilla”. Film al quale Peppino partecipa nel ruolo di sceneggiatore e di attore. Il secondo libro, pubblicato nel 2019, si intitola Briganti casalini [31]. Narra due storie, l’omicidio di un attivo contadino di Macchia, Francesco De Cicco, e l’omicidio di un tuttofare del casale di Serra Pedace, Francesco Piluso, alias Pagacota. Due “vittime” delle condizioni del clima terribile che si respirava al margine dell’Unità d’Italia, quando la giustizia, come ribadisce Peppino, era solo un’illusione, nulla più [32].
La riscoperta del paesaggio
Il paesaggio di Pratopiano vede la presenza di alcuni elementi distintivi: monumentali alberi di castagno [33], 192 esemplari quelli censiti da Peppino; antichi essiccatoi, dette caselle [34], luoghi preposti alla trasformazione delle castagne in pistilli (castagne secche); una calcara, il luogo dove si produceva la calce utile alla costruzione delle caselle; ben quattro sorgenti d’acqua. Tutti elementi che riportano alla memoria un’altra storia importante: quella di una civiltà contadina che ha fatto di Pratopiano il luogo di un’importante produzione castanicola [35]. Peppino rilegge il territorio e attraverso l’approfondimento e lo studio di ognuno dei suoi elementi caratterizzanti ne ricostruisce la storia e la vita che vi si conduceva:
«Il paesaggio racconta la storia di un territorio. A Pratopiano ci sono alberi monumentali di castagno, ma se si guarda non il singolo albero, ma l’intero paesaggio, allora scopri che ci sono anche le caselle. Le caselle erano il luogo in cui si trasformavano le castagne in castagne secche, detti pistilli. La quantità di castagne raccolte doveva essere impressionante. Ho trovato, a proposito di castagne, un atto del principe di Bisignano che abitava a Luzzi e pagava i suoi sottoposti in pistilli. La quantità era di 10 mila tomoli di pistilli. Ogni tomolo sono 33 chili. Se Luzzi produceva questa enorme quantità di castagne, quanti pistilli ci dovevano essere qui? Ci doveva essere una produzione sicuramente tre volte maggiore [...] Quando esiste una casella vuol dire che tutto il territorio è in funzione di quella casella. Si tratta di un’archeologia preindustriale perché il paesaggio è condizionato dall’esistenza di queste costruzioni. Per fare i pistilli ci volevano 40 giorni. Visto che era un’economia di sussistenza come si faceva a costruire le caselle? C’era bisogno della calce. Ho trovato la calcara dove si produceva la calce. Il paesaggio è tutto questo insieme» [36].
I sentieri che si snodano lungo il territorio, anch’essi tracciati da Peppino insieme all’Associazione Prometeo88, sono delle vere e proprie rughe della montagna, in grado di riportare il visitatore indietro nel tempo. Un sentiero porta al Parco della Sila, nonché alle vette più alte dell’altopiano; un secondo sentiero porta alla montagna del Petrone o Greca, luogo in cui si conserva antichissime mura, lunghe un centinaio di metri, secondo alcuni risalente al II secolo a.C; un terzo sentiero arriva fino alle balze di Jumiciellu e passa accanto al castagno dove fu bruciata la testa del brigante Pietro Monaco. I sentieri incrociano il “Cammino di Pratopiano”, un sentiero storico religioso di 3,5 Km che intercetta i cammini che, dal Mille, attestano il passaggio dei monaci Greci, Cistercensi, Gioachimiti, Domenicani, Cappuccini, sino ai monaci Paolotti del vicino Convento di San Francesco di Paola [37].
All’interno di questo paesaggio Peppino realizza due strutture di accoglienza: i Rifugi Pratopiano. Il primo, il Rifugio base scout, è l’antica casella, ‘e Capucicala, di Peppino che, ristrutturata negli anni ‘50 e poi ampliata nel 2000, offre ospitalità agli scout. Il secondo, il Rifugio Alexandre Dumas, sorge nelle vicinanze della calcara. Due strutture che danno la possibilità ai visitatori di poter vivere appieno il territorio di Pratopiano.
Cesare Curcio: da storia personale a storia della comunità
La sua voglia di esplorare lo porta anche a scavare nella propria vita personale e familiare. Peppino è figlio di Cesare Curcio [38], uno dei più grandi leader popolari della comunità dei Casali. Militante antifascista, dirigente politico del Partito Comunista, eletto deputato e sindaco di Pedace nel secondo dopoguerra. Peppino sente il bisogno di recuperare e ricostruire la storia del padre. Anche qui, non solo per un bisogno personale (il padre morì quando Peppino aveva soli due anni), ma, soprattutto, per fare del suo esempio una ricchezza di cui tutta la comunità si possa appropriare. Lo scopo divulgativo, ancora una volta, in Peppino, è centrale. Una ricerca che lo porta a fargli rivivere anche gli aspetti più dolorosi della vita del padre. È il caso delle terribili torture da questi subìte e ricostruite da Peppino:
«Papà non riferisce delle torture, parla solo di privazione del sonno, privazione dell’acqua, scudisciate e del fatto che veniva svegliato in ogni momento. Io ho invece ricostruito tutte le torture subìte da papà, ovvero gli vennero strappate le unghie da mani e piedi; gli vennero messe patate bollenti sotto le ascelle e venne messo un braciere che gli bruciò i testicoli» [39].
Cesare Curcio ospita, nel marzo del 1943, con l’aiuto del padre, nella sua casella di Pratopiano, un grande leader politico, destinato a segnare in futuro la storia del Partito Comunista italiano: Pietro Ingrao. Ingrao, al tempo perseguitato dal regime fascista, ricorda così le lunghe giornate lì trascorse:
«Ho conosciuto Cesare Curcio nel mese di marzo del 1943. In quel tempo io ero clandestino […]. Un giorno mi misi in viaggio fino alle porte di Pedace, dove incontrai per la prima volta Cesarino Curcio e un altro gruppetto di compagni. Se ricordo bene, per una notte dormii in una casa alla periferia di Pedace, paese che mi salvò e verso cui sento sempre una grande gratitudine. La mattina seguente con il mio piccolo bagaglio, mossi verso un podere di campagna di proprietà di Curcio. Fra coloro che mi accompagnarono c’era, sulla schiena di un asinello, c’era il padre di Cesare Curcio: ‘Zu Peppino, se ricordo bene il nome. Poco dopo arrivammo in un pezzo di campagna solitaria che non dimenticherò mai. Al centro, o quasi, di quel podere c’era una capanna, fatta da una cintura di pietre e per copertura un cono di paglia. Di fianco ad essa era un gabbiotto, dove con ‘Zu Peppino, poco dopo mezzogiorno, consumavano un pasto fatto di pane, patate, frutta e qualche volta un uovo sodo. Spesso dai bordi alti di quel gabbiotto apparivano topi enormi che per qualche momento, si fermavano a fissare dall’alto noi due, curiosi essere umani – come per un’azione di vigilanza – e poi sparivano […]. I momenti più emozionanti per me furono alcuni incontri che Cesare organizzò con compagni contadini ed operai di quella fascia silana: fratelli di lotta, gente coraggiosa del mondo del lavoro, che partecipavano, nel loro modi, alla cospirazione contro il regime. Quegli incontri mi emozionavano, mi davano coraggio, mi aiutavano a conoscere il popolo che volevamo chiamare alla ribellione» [40].
Peppino cresce nel ricordo che gli altri hanno di suo padre. Persone, soprattutto del mondo contadino, con le quali Cesare Curcio intratteneva un legame profondo, mosso, soprattutto, da un forte senso di giustizia sociale. Peppino afferma: «Le coccole mi venivano dai contadini». Sono infatti i contadini a riservare a Peppino grandi forme di affetto. Contadini che si commuovevano quando lo vedevano e lo abbracciavano forte. Tutto ha origine in una lunga notte d’estate, sul finire degli anni ‘90. Peppino inizia a leggere i documenti lasciategli dal padre e a lungo conservati dalla madre. Questo è il suo racconto:
«Quando abitavo con mamma, a Cosenza, vedevo sempre dei pacchi, delle buste nere di spazzatura, che “giravano per casa”: una volta le vedevo da una parte, una volta dall’altra, perfino fuori sul balcone le ho viste appoggiate. Mamma non voleva che le aprissi. Così è stato fino all’incirca alla fine degli anni ‘90. Fu proprio allora che mamma decise di farmi vedere cosa contenessero, ma a quel punto, fui io a non volerle più guardare. Sapevo che si trattava di documenti di mio padre ma non avevo allora il tempo di leggerli. Fino a che, un giorno, trovai mia mamma nel bagno di casa mentre strappava alcuni documenti e li buttava nella vasca piena d’acqua. A quel punto non ci vidi più. La fermai. Presi tutti i documenti e le carte che riuscii a salvare e me li portai a casa mia. Ricordo che legai dei lunghi fili in casa e, come se fossero dei panni appesi, lascia le carte ad asciugare. Mi ricordo che era una notte di agosto. Si sarebbero asciugate col caldo che faceva. Mentre appendevo le carte, mi fermavo a leggerle e man mano che leggevo la mia emozione cresceva. È lì che ho scoperto le torture subìte da mio padre» [41].
Peppino, ancora una volta, decide di fare qualcosa che lasci il segno nella comunità. Dichiara alla Soprintendenza archivistica di Reggio Calabria tutto il materiale che ha trovato su Cesare Curcio e questo viene riconosciuto, per il suo alto valore e la sua forte rilevanza pubblica, quale “bene di interesse nazionale”. Da qui parte l’idea di fondare un museo, il Museo Pratopiano. L’intento è quello di raccontare le “mille” microstorie di questo territorio. Un museo “diffuso”, come lo stesso lo definirà, che ingloba al proprio interno gli alberi monumentali, la calcara, le caselle, le sorgenti, i sentieri nonché uno spazio chiuso, ricavato nel piano inferiore della seconda struttura di accoglienza, in cui è possibile osservare una mostra fotografica sulla vita di Cesare Curcio. Sono esposti inoltre, al proprio interno, oggetti, documenti (in parte ritrovati nella sua casa natale) che raccontano la cultura della vita contadina di cui è figlio. Si trovano lì anche oggetti che raccontano il lavoro del padre, quale meccanico e proprietario di un’officina per camion. Il museo raccoglie, inoltre, i coltelli pedacesi, di cui la produzione nei casali è antichissima, nonché le pagine del giornale francese dell’800 dove è apparsa la storia di Pietro Monaco e Ciccilla, così come le immagini più eloquenti degli atti, oggi conservati presso l’Archivio Centrale dello Stato a Roma, attraverso i quali il Tribunale Militare Straordinario di Catanzaro ha processato Maria Oliverio.
Pratopiano: una storia che continua…
Oggi la storia di Pratopiano non è più una storia negata o dimenticata, bensì viva. Libri, film, mostre, percorsi paesaggistici, strutture di accoglienza, e, in particolare, la continua attività divulgativa portata avanti, con passione, da Peppino, parlano di un territorio che ha saputo risvegliarsi da un sonno durato lunghi anni. Lo sguardo al passato, ovvero la riscoperta della storia di Pratopiano e delle sue radici, diviene il punto di partenza per costruire un presente e un futuro migliore per un territorio, altrimenti, ai più sconosciuto.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note
[1] Peppino Curcio, nato il 9/08/1959 a Pedace, è un cittadino che si è impegnato dall’inizio degli anni ‘90 in attività di tutela dei diritti e di valorizzazione della cittadinanza attiva. Ha fatto parte del Tribunale per i Diritti del malato, con responsabilità a livello regionale, e di diverse associazioni culturali e sociali in Calabria, a sostegno degli emarginati e degli ultimi.
[2] Cfr. http://www.tuttoscout.org/campiscout/posti-campo-4228-rifugi-pratopiano.html.
[3] Cfr.https://www.tuttitalia.it/calabria/59-casali-del-manco/
[4] Ibidem.
[5] Si è trattato di un referendum consultivo obbligatorio, promosso dal Movimento Presila Unita, tenutosi in base a quanto previsto dalla proposta di legge regionale n.96/10. In https://portale.regione.calabria.it/website/portaltemplates/view/view.cfm?3655&fbclid=IwAR3C1fMrC-3xeyRWviaeln_Cjtgdpvd9t6xHkDcnwIxdv5eVZORnaExhv64.
[6] Una storia demografica diversa da comune a comune che ha visto un decremento significativo della popolazione per i comuni dell’area montana (Pedace, Serra Pedace e, in misura più ridotta, Spezzano Piccolo), e, al tempo stesso, un significativo incremento della popolazione dei comuni collinari limitrofi alla città cosentina (Casole Bruzio e Trenta). Per Pedace guardare in https://www.tuttitalia.it/calabria/98-pedace/statistiche/censimenti-popolazione/. Per Serra Pedace guardare in https://www.tuttitalia.it/calabria/56-serra-pedace/statistiche/censimenti-popolazione/.Per Spezzano Piccolo vd. https://www.tuttitalia.it/calabria/62-spezzano-piccolo/statistiche/censimenti-popolazione/. Per Trenta guardare in https://www.tuttitalia.it/calabria/98-trenta/statistiche/censimenti-popolazione/. Per Casole Bruzio guardare in https://www.tuttitalia.it/calabria/56-casole-bruzio/statistiche/censimenti-popolazione/.
[7] Cfr. https://www.tuttitalia.it/calabria/59-casali-del-manco/statistiche/popolazione-andamento-demografico/.
[8] Un anno dopo la fusione, il 15 dicembre 2018, dalle ore 8 alle ore 20, presso la sala consiliare del municipio in località Casole Bruzio, i cittadini dell’entità istituzionale presilana sono stati chiamati a scegliere il nuovo gonfalone (e stemma araldico) rappresentativo del comune. La giunta, nelle scorse settimane, ha promosso un bando, rivolto alla cittadinanza, per la composizione dello stemma dell’unità territoriale. A questo “concorso” hanno partecipato 10 proposte, che sono state esaminate dall’apposita Commissione per lo statuto comunale. Di queste ne sono rimaste in gara 3, le quali sono state poste, appunto, a giudizio dell’opinione pubblica. La proposta che ha vinto è la proposta C. In https://www.paroladivita.org/Territorio/Casali-del-Manco-sceglie-il-nuovo-gonfalone.
[9] Lo stemma scelto è il seguente: un disegno stilizzato raffigura un albero fiorito con in alto un fiore rosso, a cinque petali, simbolo del processo di fusione delle cinque ex municipalità. Dal tronco si diramano dodici rami, terminanti in altrettanti fiori, ognuno rappresentante un casale, stretti da una corda, metafora delle relazioni paesaggistiche e dei rapporti morfologici che intercorrono tra i Casali. Sullo sfondo una montagna, ad evidenziare la caratteristica prettamente montana del territorio comunale; ed infine, sulla sommità dello stemma, una corona comunale, pensata e disegnata come corona turrita ad onorare la stessa fusione degli ex 5 comuni del territorio. In https://www.cosenzachannel.it/2018/12/20/casali-del-manco-ha-il-suo-stemma-araldico-vince-la-proposta-c/.
[10] La scelta è avvenuta sulla base del medesimo referendum consultivo obbligatorio sulla proposta di legge regionale n.96/10 e riguardava l’alternativa tra questi due nomi “Villa Bruzia” o “Casali del Manco”. In https://portale.regione.calabria.it/website/portaltemplates/view/view.cfm?3655&fbclid=IwAR3C1fMrC-3xeyRWviaeln_CJtgdpvd9t6xHkDcnwIxdv5eVZORnaExhv64.
[11] La popolazione indigena si sposta dalla città, Cosenza, lungo i monti e borghi sparsi del circondario per tre ragioni diverse: l’invasione dei saraceni (IX-X secolo); la malaria che affliggeva la zona di Cosenza; le migliori condizioni di vita che il territorio circostante offriva.
[12] P. Curcio – P. Rizzuti, Briganti casalini, volume primo, Doxa editrice, Cosenza, 2019, p.15.
[13] La Calabria è, infatti, la regione italiana nella quale si registrano i più bassi tassi di partecipazione politica e civica (tasso di partecipazione alle elezioni, referendum etc.).
[14] La più alta affluenza alle urne si è registrata a Casole Bruzio con il 55,27% degli aventi diritto, seguita da Pedace 50,27%, Spezzano Piccolo 46,58%, Serra Pedace 41,44% e Trenta 40,66%. In https://www.tuttitalia.it/variazioni-amministrative/nuovo-comune-di-casali-del-manco/?fbclid=IwAR2AS0BHp6l7G_QcC-GbNGupwGJaTuva7mzSo3uJbob6U3qBwO4_FjZTx8Q.
[15] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Bagliva.
[16] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Casali_del_Manco.
[17] Oggi, di queste assemblee, si conservano, in parte, negli atti dei notai su cui venivano registrati i verbali.
[18] Testimonianza da me raccolta in data 16 febbraio 2020.
[19] Testimonianza da me raccolta in data 16 febbraio 2020.
[20] Insegnante, per quasi quarant’anni, nella scuola elementare di Serra Pedace, suo paese d’origine, di cui diventa sindaco dal 1954 al 1970, Pietro D’Ambrosio, ad un certo punto della sua vita, decide di interessarsi al fenomeno del brigantaggio in Calabria e, in particolare, nella Sila.
[21] P. D’Ambrosio, Brigantaggio, Pietro Monaco e Maria Oliverio. Storia e Documenti di un mito della Presila, a cura di Mario Iazzolino, edizioni Brenner, Cosenza, 2002.
[22] Ivi:6.
[23] P. Curcio, Ciccilla. La Storia della brigantessa Maria Oliverio, del brigante Pietro Monaco e della sua comitiva. Introduzione di Giordano Bruno Guerri. In Appendice il racconto storico inedito: Pietro Monaco, sua moglie Maria Oliverio ed i loro complici di Alessandro Dumas, Luigi Pellegrini editore, Cosenza, 2010:171.
[24] Testimonianza da me raccolta in data 4 maggio 2020.
[25] Testimonianza da me raccolta in data 4 maggio 2020.
[26] Testimonianza da me raccolta in data 4 maggio 2020.
[27] Fuoriuscito è il termine col quale venivano indicati i banditi ancor prima dell’arrivo dei francesi e serviva a rimarcare la loro estraneità dalla comunità.
[28] Testimonianza da me raccolta in data 6 maggio 2020.
[29] Testimonianza da me raccolta in data 6 maggio 2020.
[30] P. Curcio, Ciccilla. La Storia della brigantessa Maria Oliverio, del brigante Pietro Monaco e della sua comitiva.
[31] P. Curcio-P. Rizzuti, Briganti casalini.
[32] Testimonianza da me raccolta in data 6 maggio 2020.
[33] Peppino ha aperto una pagina Facebook, piuttosto seguita, che si chiama Salviamo gli alberi monumentali di Pratopiano. In https://www.facebook.com/groups/743196199091442/.
[[34]] Un termine italiano e non dialettale, che sta a indicare una “torre di castagnai”, ovvero il luogo dove si trasformavano le castagne in castagne secche, dette “pistilli”. Vedi Vocabolario Tommaseo in www.dizionario.org.
[35] Tracce di una cultura popolare che ha saputo garantirsi un livello di autosufficienza attraverso il livello produttivo della castagna.
[3]] Testimonianza da me raccolta in data 10 maggio 2020.
[37] A tal proposito è utile ricordare che agli inizi del 1800 i terreni di Pratopiano furono confiscati da Gioacchino Murat per darli ai cittadini poveri di Pedace e Serra. Ad oggi, però, la proprietà delle terre in parte continua ad essere della Curia, della parrocchia e del Comune. Questo capovolgimento lo si spiega con un contenzioso giudiziario tra Chiesa, Comune e proprietari, durato sino agli inizi del ‘900 e conclusosi con l’acquisto di nuovo delle terre da parte di quest’ultimi.
[38] Cfr. https://it.wikipedia.org/wiki/Cesare_Curcio.
[39] Documentario Cesare Curcio.
[40] Cfr. http://www.ungra.it/Lungro/antifa/ingrao/Ingrao.htm.
[41] Testimonianza da me raccolta in data 9 maggio 2020.
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Nicoletta Malgeri, laureata in Storia e tutela dei beni artistici dell’Università degli Studi di Firenze. Appassionata di arte e disegno, coltiva interessi conoscitivi per i beni culturali ed etnoantropologici in particolare. Mantiene vivo il suo legame affettivo e intellettuale con la Calabria, sua terra d’origine.
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