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Quale filologia della Contemporaneità? In margine alle tesi di Lorenzo Tomasin
Posted By Comitato di Redazione On 1 maggio 2022 @ 00:57 In Cultura,Letture | No Comments
Risulta di sicuro interesse e utile base di discussione per ulteriori verifiche, un contributo di Lorenzo Tomasin che, «Riprendendo un genere argomentativo antico […]», presenta «nove tesi su caratteri e compiti della filologia nell’epoca presente»: Nove tesi e mezza per la filologia nell’era della liquidità digitale (in «Storie e linguaggi» 5/1, 2019: 19-33,19).
Tematica che, proprio negli ultimi anni, è stata trattata in termini più generali nell’ambito di una riflessione complessiva sullo statuto scientifico della Filologia romanza, per limitarsi solo a questi riferimenti, in occasione di un Convegno, articolato in due fasi, tenuto dalla Società Italiana di Filologia Romanza, il primo a Bologna, La filologia romanza e i saperi umanistici (2-3 ottobre 2017), il secondo a Roma (3-6 ottobre 2018) [1]. Ma che era stata già oggetto di attenzione nella pubblicazione di un fascicolo monografico di «Critica del testo» (XV, 3, 2012), Fra autore e lettore. La filologia romanza nel XXI secolo fra l’Europa e il mondo, a cura di R. Antonelli, P. Canettieri, A. Punzi, e che viene ripresa nel fascicolo della stessa rivista dedicato a Lo statuto metodologico di una filologia della contemporaneità (XXIII/3, 2020), a cura di P. Maninchedda, G. Murgia, P. Serra. Per quanto mi riguarda, in ambedue questi ultimi fascicoli ho avuto modo di esporre alcune riflessioni, nel primo, La filologia e l’ora della leggibilità (46-66), nel secondo, La “pienezza del tempo” nella filologia della contemporaneità. Sette tesi su ricerca e formazione oggi (35-42). Altri riferimenti a siffatto tema nel mio contributo La filologia romanza e l’idea di Europa, in «Le Forme e la Storia» (n.s. IX, 2016, 1: 9-30).
Nella Premessa del suo scritto Tomasin esplicita «una sorta di definizione non di che cosa sia la filologia, ma più concretamente di ciò in cui consista il lavoro del filologo» e, a partire dall’ “efficace formula” che Heinrich Lausberg propone nell’Introduzione all’edizione italiana della sua Linguistica romanza, ne ricava che
E si può certo pienamente considerare acquisita, non da oggi, siffatta definizione, detto che è ancora utile, se non necessario, ribadirla soprattutto oggi, in tempi di crisi dei saperi umanistici e di una comunicazione “sociale” che valutare “volatile” e non di rado fuorviante, risulta finanche riduttivo.
Ovviamente, va da sè, riconoscendo parte integrante dei compiti del filologo l’ambito dell’interpretazione sulla base appunto dell’acquisizione delle «chiavi della corretta interpretazione» della “lettera dei discorsi”: non possono infatti non far parte dello statuto disciplinare della filologia le ipotesi sulla ricerca del senso del testo in tutti i suoi livelli, dal contesto storico alla/e tradizione/i letteraria/e nelle quali si colloca, dalla “forma” che presenta allo studio della sua ricezione nel tempo-spazio suo proprio e nei successivi tempi-spazi che percorre in una vera e propria “rete cronotopica”.
Al fine di cogliere “concretamente”, come auspica Tomasin, in che cosa consista il lavoro del filologo, ritengo sia funzionale muovere da alcune premesse. Innanzitutto prendere atto che il filologo vive nel tempo, così come, ovviamente, i fondamenti scientifici della critica testuale. Come già rilevato nel mio contributo sopra citato, La filologia romanza e l’idea di Europa, Contini ebbe a rilevare:
Questa riflessione continiana e, in particolare, il riferimento al «problematismo esistenziale» che connota la filologia moderna, inducono a una riflessione su molteplici piani del lavoro filologico, da quello “strettamente” filologico testuale, ecdotico, a quello critico interpretativo che, come sopra indicato, è parte integrante, appunto, del lavoro filologico, il che, come di seguito si rileverà, non sempre è stato pienamente riconosciuto, scindendo filologia e critica letteraria, nei diversi stadi della storia della disciplina.
Tomasin, in termini del tutto convincenti, nella tesi I ben chiarisce che «La filologia si definisce primariamente in rapporto ai testi che studia e solo secondariamente in rapporto al metodo che impiega per studiarli». Nella tesi II (Il testo è sempre stato fluido: la deperibilità di quello digitale è compensata dall’ipertrofia della sua produzione), circa la “filologia dei testi digitali”, se ne indicano i limiti dati dal «generarsi di errori e corruzioni testuali spesso inavvertiti, ma talora gravissimi», nonché dalla «volatilità del testo “nativo digitale”». Sull’argomento altresì opportune sono le precisazioni che apporta Claudio Lagomarsini allorché, a proposito della relazione fra testo orale e testo scritto, nel «[…] tornare su questo nodo classico», si volge a
Concentra poi la sua attenzione soprattutto sul rapporto tra oralità e scrittura nel settore dei testi per musica [3]. Nella tesi III (L’autore ha spesso lineamenti incerti. Ma l’editore deve averne di ben definiti), si precisa che, seppur sia da valutare positivamente che «esiste già, e fiorisca, una filologia agilmente condivisa fra esperti», ben minore fiducia è da riporre nell’idea di «un’openness indiscriminata». Nella tesi IV (Quantitative is nothing but poor qualitative), si passa dalla critica del cosiddetto distant reading applicata da Franco Moretti a quella del «tentativo di rendere automatiche e assistite-dal-computer le procedure di definizione dei rapporti tra i testimoni di un’opera da editare». Nella V (La filologia non è data-driven (perché non lo è la buona scienza), si prendono le distanze dall’«idea che l’acquisizione digitale di “dati del passato” (segnatamente in forma automatica e massiva, cioè mediata-dal-computer) potrà portare a un loro trattamento in forme analoghe ai big data generati oggi dalla Rete).
Nella VI (Tra i compiti della filologia vi è di mostrare che molto di ciò che sembra nuovo è in realtà antico, e molto di ciò che sembra antico è in realtà recentissimo; nella VII (Tra i compiti della filologia vi è di mostrare che l’attualizzazione del passato è spesso abusiva); nella VIII (Nella filologia testuale, innovazione, miglioramento ed evoluzione sono concetti ben distinti e non sovrapponibili); nonché nella IX (Il presentismo è radicalmente incompatibile con la filologia), si dimostrano con dovizia di esemplificazioni i guasti che il cosiddetto “presentismo” nella filologia testuale apporta: ad esempio, le modifiche apportate alla traduzione italiana e francese del Padre nostro, la «sovrapposizione del concetto di storicità con quello di evoluzione».
Si richiama l’applicazione corretta degli studi di lessicografia storica allorché sa rilevare «le differenze cruciali che uso e significato dei termini hanno nel passato rispetto al presente» per dimostrare «come il momento computazionale del rinvenimento delle occorrenze è funzionale a una fase esegetico-interpretativa irriducibile a un semplice “trattamento dei dati”». Si rivendica un ruolo della filologia che sia «quello di un critico antagonismo, disposto a capire le ragioni delle storture del presente ma non legittimarle convalidando l’obiettivamente errato».
L’edizione critica dei testi permane di certo colonna portante del lavoro filologico e, appunto, alla filologia testuale «nell’era della liquidità digitale», segnalandone i rischi nei quali può incorrere, Tomasin rivolge in modo specifico e puntualmente la sua attenzione. Un ambito di studi, quest’ultimo, che non da ora, come ben noto, ha visto uno sviluppo crescente di meritevoli intraprese scientifiche di ampio respiro alle quali già nel 2016 la rivista «Le forme e la Storia» (n.s. IX, 2016: 1) ha dedicato un fascicolo monografico che, a partire da un’agile sintesi curata in apertura da Alberto Casadei, offre una scelta di esperienze in campo, dall’ecdotica alla biblioteca digitale delle fonti dantesche (Dante Sources), dal portale Aul@Medieval agli Archivi on line Pascoli e Pavese, da Griseldaonline al progetto Carte d’autore online. Solo una scelta, appunto, fra le tante in corso di grande utilità per gli studi filologici.
Nel rinviare, per la relativa bibliografia anche di carattere generale a suddetto fascicolo, oltre che al già citato contributo di Claudio Lagomarsini, ritengo che le riflessioni di Tomasin vadano altresì inserite, al fine di estenderne il campo, in più ampio quadro critico circa la collocazione dell’ecdotica nell’ambito complessivo dell’interpretazione del testo e, più in generale, della centralità del testo nella critica letteraria [4], sia detto anche in riferimento a certo comparatismo “volatile”.
Ho da tempo fatto riferimento alla categoria di comparatismo filologico [5]. La filologia infatti – si è già sopra rilevato – implica fra i suoi compiti primari quello dell’interpretazione del testo. Lo argomenta con la consueta profondità e chiarezza Alberto Varvaro nella sua Prima lezione di filologia:
Il filologo vive nella storia, rilevavamo sopra, e così gli statuti dei campi disciplinari. E il nesso fra passato e presente o fra presente e passato si manifesta terreno insidioso da attraversare, ma ineludibile. Così Michail Bachtin: «Il presente preso fuori del suo rapporto con passato e col futuro, perde la sua unità, si dissocia in singoli eventi e cose e ne diventa l’astratto conglomerato»[7].
Va da sé che nell’ottica soprattutto, ma non solo, della Filologia romanza e delle altre filologie, italiana, dantesca, slava, germanica, nonché classica, non può non porsi il livello critico non solo del senso dei testi ricostruiti, ma di quel che oggi continuano a “dire”. Si pensi alle culture e letterature medievali, a quello che hanno rappresentato come ponte di trasmissione di quelle antiche e tardo antiche e come grandi Laboratori di quelle moderne.
Non si tratta solo di una necessità “scientifica”, ma anche di un compito “sociale” legato alla formazione delle nuove generazioni, se non vogliamo che l’appannamento della funzione dell’insegnamento della Storia nella Scuola, della “memoria storica” in quanto «memoria collettiva scientificamente fondata e coscienza civile di prassi sociale» , già in corso, conduca alla barbarie dell’oblio e della menzogna [8]: come ha rilevato Adrienne Rich: «Chi non ha memoria vive nella menzogna». Si può anche in questo caso manifestare una tendenza a certo “presentismo”, a un soggettivismo critico e a interpretazioni anacronistiche che non tengano conto dei contesti storico-culturali diversi.
È dunque necessario precisare che «l’ingenua attualizzazione come dimensione dell’interpretazione delle letterature medievali è altra cosa che prendere le mosse da una “nuova consapevolezza della nostra modernità” che si accompagni a un “nuovo esame dell’alterità del Medioevo”»[9].
Si manifestano disgiunzioni e congiunzioni e il rinvio ad Alterità e modernità della letteratura medievale di Hans Robert Jauss (Bollati Boringhieri, Torino 1989) è d’obbligo. Così come al Walter Benjamin di una Nota alle Tesi sulla filosofia della storia a proposito dell’ora della leggibilità (Frammento N. 3, 1 che nell’edizione italiana viene inserito fra gli Appunti e materiali sotto il titolo Teoria della conoscenza, teoria del processo (cfr. W. Benjamin, I “passages” di Parigi, a cura di R. Tiedemann, 2 voll., Einaudi, Torino I: 517-18). Su questo argomento di primaria importanza, dopo il mio contributo già citato del 2012, è tornato più di recente Roberto Antonelli:
Non solo questo Frammento, ma «L’Angelus novus e le Tesi sulla filosofia della storia dello stesso Benjamin, mettono in discussione – giustamente rileva ancora Antonelli – tutto ciò, tutte le certezze, sia sul piano teorico che su quello pratico, del pensiero filologico e critico»[11]. Pensiero che Antonelli ripercorre, in puntuale sintesi, da Vico ad Auerbach.
E proprio all’ora della leggibilità era dedicato il mio saggio del 2012: a partire da Benjamin, porre le basi di una filologia come “critica del contemporaneo”, quindi come “filologia della Contemporaneità”, ho ulteriormente precisato nel saggio del 2016 sopra citato
La filologia della Contemporaneità, va da sé, non consiste di per sé nello studio critico di testi moderni e/o contemporanei scritti e orali di resa formale diversa, anche, come dimostrano fra l’altro le bibliografie di grandi Maestri della Filologia romanza. Ben più ampie e profonde sono le sue motivazioni e finalità. «L’immagine letta, vale a dire l’immagine nell’adesso della leggibilità» cui fa riferimento Benjamin [13], ho rilevato,
La Filologia romanza come ambito disciplinare – perché anche gli ambiti disciplinari vivono nel tempo, come sopra rilevato, ma è bene ripeterlo – presenta oggi una varietà di filoni critici che ne attestano una vitalità invero non sempre riconosciuta, a vantaggio di discipline “alla moda”, nel paradigma culturale oggi dominante di stampo marcatamente mercantesco.
Mi riferisco non solo ai suoi rinnovati fondamenti ecdotici, ma agli studi di linguistica romanza, antropologia del testo, filologia visuale, filologia digitale stessa, alla critica delle emozioni, ai reception studies, a un comparatismo fondato sulla centralità del testo, a un comparatismo filologico aperto, finalmente, allo studio delle relazioni interareali con letterature “altre” in una circolazione di testi strutturante per le nostre stesse letterature e per l’idea stessa che dovremmo avere di Europa: identità plurali in movimento.
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