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Realtà e finzione sillabati in un enigmatico alfabeto notturno
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2024 @ 02:07 In Cultura,Letture | No Comments
«La discrasia tra visibile e invisibile nelle mani di Savina Dolores Massa diventa duttilità generativa tra pensare e sentire, nel solco che da Cristina Campo fa sponda con Maria Zambrano. Lo dice bene Izta, protagonista di queste pagine, che, al pari di molte delle donne al centro dei romanzi di Massa – da Maddalenina di “Mia figlia follia” (2010) a Elsa di A un garofano fuggito fu dato il mio nome (2019) – ci interroga su quanto ignavi e stolti siano gli umani che non conoscono la forza di raccogliere e rilasciare il tempo. Perché in fondo è questo ciò che dà la stoffa nascosta della sua scrittura, conduce la parola al limite di un realismo magico ammonendoci si tratti dell’altra parte di un’esperienza diretta del mondo, fatto di spettri con cui fare amicizia, presagi poco indulgenti e ossessioni che ne slaccino la dittatura terrestre per aprirsi a una vista di presenze anarchiche sottilissime».
Così Alessandra Pigliaru sul quotidiano il manifesto nella recensione dedicata a Lampadari a gocce (2020). «Discrasia tra visibile e invisibile», «duttilità generativa tra pensare e sentire», la pratica della letteratura come «l’altra parte di un’esperienza diretta del mondo»: tutti tratti essenziali della scrittura di Savina Dolores Massa confermati dall’ultimo dei romanzi della scrittrice di Oristano, Perché il vento era nero, appena pubblicato dalla casa editrice nuorese Il Maestrale. Tratti che compongono la trama di una sensibilità di cui Pigliaru individuava antecedenti letterari molteplici:
Savina Dolores Massa è al suo ottavo romanzo. Il primo, Undici, fu pubblicato nel 2008 ed entrò nella rosa del Premio Calvino. Tutti portano il marchio de Il Maestrale, che ha in catalogo tanti tesori, di scrittori sardi (Salvatore Mannuzzu, Giulio Angioni, Alberto Capitta, Giorgio Todde, Maria Giacobbe, Marcello Fois, Milena Agus, Salvatore Niffoi tra gli altri), ma anche di autori non isolani: Patrick Chamoiseau, Heman Zed, Matayoshi Eiki, Hibert Hadad, Luca Ciarabelli, Giulio Neri.
In Perché il vento era nero la storia è quella di un gruppo di bambini senza famiglia che cercano di fuggire da un orfanotrofio – istituzione totale separata dal mondo come un incubo dalla veglia – gestito dalle suore nelle campagne di Aristànis (il nome vecchio di Oristano). Il tentativo avrà un esito infausto. Soltanto un ragazzino e una ragazzina, Tommaso e Lisabè, riusciranno a farcela. Agli altri toccherà una sorte terribile. Conquistata la libertà, i destini di Tommaso e di Lisabè resteranno divisi per anni, sino al compimento, per entrambi, della maggiore età. Quando le loro vite finalmente si riallacceranno, accadrà ancora nell’orfanotrofio in cui domina, dispotica e tragica, Suor Dolores degli Angeli. E sarà per una nuova fuga, un viaggio allucinato negli antichi sotterranei (la “città di sotto”), che correvano sotto Aristànis e che ancora segnano di cavità la moderna Oristano. Il vento nero che batte queste viscere oscure alza il velo sull’irrimediabile assenza di senso che, ieri come oggi, inaridisce la vita degli abitanti della “città di sopra”.
È dunque un romanzo onirico, Perché il vento era nero. L’immaginazione è sovrana e viene messa al servizio di uno sguardo sulla realtà privo di qualsiasi intento consolatorio, fermo nella sua lucida capacità di analisi anche quando prende la via dell’ironia e a volte del sarcasmo, con un narratore, in aggiunta, che arriva a discutere delle scelte narrative con i suoi ipotetici lettori e spesso con essi polemizza. Lo sguardo che esplora l’oscurità dei sotterranei del mondo – orfano della luce ingannevole della comune ragione cui sono asserviti gli abitanti della “città di sopra”, ciechi perché dimentichi di ogni memoria – è il solo che può forse aspirare a una qualche parziale verità:
La cieca smemoratezza degli abitanti della “città di sopra”; la chiaroveggenza nutrita di memoria degli esploratori, giovani e folli, dei meandri oscuri della “città di sotto”. Il confine tra reale e irreale si fa allora, nel racconto, progressivamente indistinguibile, in un crescendo in cui tutto, alla fine, ha la consistenza niente di più che di un fuoco fatuo. Una fiammella che torna dal passato per illuminare, ma appena di una luce debole ed evanescente, il presente. E se nel buio dei sotterranei lo sguardo diventa allucinazione, è perché soltanto l’immaginazione può accogliere in sè, com-prendere, il mondo e riscattarlo (chissà se poi davvero e in quale misura) dall’inautenticità e dal dolore.
Svelando, con un colpo di scena finale, la sua vera identità, il narratore confida ai i lettori:
Realtà e finzione indistinguibili; vivi e morti, presente e passato, memoria e oblio tenuti insieme da un enigmatico alfabeto notturno.
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