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Reati culturalmente motivati in ambito domestico e strategie difensive
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2024 @ 03:41 In Cultura,Migrazioni | No Comments
La figura del reato culturalmente motivato nella società multiculturale
L’arrivo in Italia di persone provenienti da Paesi spesso lontani, portatori di valori religiosi e culturali differenti dai nostri, pone l’esigenza di armonizzare e conciliare le diversità al fine di realizzare l’integrazione e arginare il rischio di una conflittualità che possa tradursi in disparità di trattamento sia culturali che sotto il profilo dell’esercizio della libertà religiosa [1]. Siffatta necessità involge fede, cultura e diritto, e impone che quest’ultimo sia elastico per venire incontro a quei comportamenti religiosi/culturali che possono avere anche rilevanza penale (c.d. cultural offences o culturally motivated crimes), per verificare la loro compatibilità con i principi giuridici assiologicamente fondanti e irrinunciabili che costituiscono il “cemento etico” della nostra compagine sociale.
All’apertura multiculturalista di un ordinamento conseguono sovente ampi spazi di scriminabilità dei comportamenti, sorretti da un fattore culturale e religioso, anche se ritenuti penalmente rilevanti, ovvero accade che a un’opzione multiculturalista si leghi un’ineliminabile dimensione conflittuale rispetto alla quale il ruolo del diritto, fuori dalla modalità repressiva, deve abdicare o è inefficace [2].
Invero, come si è osservato,
A tal proposito, è bene chiarire la definizione di “reato culturalmente motivato”. Parte della dottrina, nell’occuparsi della criminalità cd. culturale, ha accolto una nozione di reato culturalmente motivato fondata sul concetto di cultura riferibile a «gruppi socio-politici costituiti da un numero rilevante di individui, che condividono una lingua comune e che hanno un legame con un territorio geografico di regola di ampie dimensioni» [4]. Altra parte della dottrina si è invece concentrata sui problemi relativi alla collocazione sistematica e al trattamento sanzionatorio del fatto culturalmente motivato. Quest’ultimo indirizzo interpretativo identifica il reato culturalmente motivato in «un comportamento, realizzato da un soggetto appartenente a un gruppo etnico di minoranza, che è considerato reato dalle norme del sistema della cultura dominante; lo stesso comportamento, nella cultura del gruppi di appartenenza dell’agente, è invece condonato, accettato come normale, o è approvato o, in determinate situazioni, è addirittura imposto» [5]. Secondo questa impostazione, «l’istituto dell’ignoranza inevitabile si mostra capace di offrire un adeguato e corretto inquadramento per numerosi casi di reato ‘culturalmente motivato’» [6].
Questa opzione, in particolare, ha suscitato un ampio dibattito tra gli antropologi o i giuristi di impostazione antropologica, refrattari all’uso del concetto di “etnia”, compreso nel sintagma “gruppo etnico minoritario”. Il termine “etnico”, infatti, può rappresentare una qualificazione ingombrante, eccepibile dal punto di vista epistemologico, in quanto l’uso corrente dei termini afferenti all’area semantica “etnia” si riconduce alla relazione che la retorica statale relativa all’identità nazionale stabilisce più o meno impropriamente tra “etnìa” e “nazione”, tra “etnia” e “razza”, tra “etnia” e “cultura” [7]. Il concetto di “razza”, privo di rango scientifico ed evocativo di vicende di discriminazione e di esclusione, storicamente culminate nella negazione della diversità, fonda il suo utilizzo sull’implicita associazione all’idea di una nazionalità dominante prevalente all’interno di uno Stato o alla contrapposta idea di nazionalità minoritarie o di culture minoritarie [8].
È evidente che entrambe le opzioni interpretative pongono al centro una condotta che viene considerata reato nell’ordinamento della società di maggioranza, ma, al contempo rappresenta un comportamento approvato, condonato o prescritto nel sistema giuridico di provenienza del “soggetto agente”, consistendo, spesso, in una pratica di carattere culturale o religioso. Questa categoria di reato poggia pertanto sull’antinomia tra due norme aventi il medesimo destinatario: una norma di diritto penale, vigente in un determinato Stato, che incrimina una certa condotta, da un lato, e una norma propria del gruppo di appartenenza del soggetto, che nello Stato di provenienza di quest’ultimo può avere il rango di norma giuridica, dall’altro.
È bene evidenziare che l’associazione tra l’istanza multiculturalista e i reati culturalmente motivati sconta il riflesso del discorso “multicultifobico” che ha ribadito con forza, anche in relazione a Paesi estranei a multicultural policy choices, la necessità di superare gli effetti disgreganti e marginalizzanti del multiculturalismo verso un’era ‘postmulticulturalista’. Il multiculturalismo, allora, inteso secondo un approccio culturalizzante come ostinata salvaguardia di pratiche identitarie, diventerebbe una prerogativa del diritto penale [9].
I reati culturalmente motivati come categoria eterogenea e il principio di offensività
La categoria dei reati culturalmente motivati non può essere intesa in senso monolitico. Possono essere giudizialmente qualificati come reati culturalmente motivati i delitti contro la vita e la libertà sessuale, la riduzione in schiavitù a danno dei minori, le forme di escissione genitale femminile maggiormente invasive, le condotte consistenti nell’atto di indossare un simbolo religioso come il kirpan per i fedeli di religione sikh o il burqa – e, in certi casi, il “chador” e il “niqab” – per le donne musulmane. Dalla variegata casistica emerge come alla figura del “reato culturalmente motivato” siano riconducibili tanto fatti gravemente offensivi della vita, dell’incolumità o della dignità altrui, spesso commessi in ambito familiare, che comportamenti dall’offensività pressoché nulla o implicanti un “pericolo astratto”.
Un valido strumento interpretativo al fine di comprendere il motivo per cui in alcuni sistemi, alcune condotte vengano ritenute “diritti culturalmente o religiosamente fondati” e non fatti penalmente rilevanti mentre in altri non siano ricondotte all’esercizio di alcun diritto può rinvenirsi nel principio di offensività per cui nullum crimen sine iniuria. Detto principio subordina la sanzione penale all’offesa di un bene giuridico, sotto forma di lesione, intesa come danno effettivo o nocumento potenziale (esposizione a pericolo). La valutazione concreta dell’offensività consentirebbe dunque di circoscrivere i fatti penalmente rilevanti, vietando di incriminare le pratiche religiose o culturali oggettivamente inidonee ad arrecare offesa.
Va però ricordato come un’importante corrente di pensiero, facente capo a Marcello Gallo, ha constatato che il collegamento «tra fatto tipico ed offesa non costituisce (…) una costante riscontrabile in tutti i reati», ma vi sono «illeciti penali in cui la fattispecie è configurata in maniera tale che si può avere una condotta la quale, pur essendo conforme al modello normativo, non arrechi nel caso concreto alcun pregiudizio alla situazione oggetto di tutela» [10]. Secondo questa impostazione, l’art. 49 c.p. non rappresenterebbe un mero doppione negativo del delitto tentato: integrerebbe invece una norma-base dell’ordinamento, che legittimerebbe nel nostro sistema la concezione realistica dell’illecito, in base alla quale ogni comportamento, per essere considerato reato, deve sostanziarsi nella effettiva lesione del bene tutelato [11]. La rilevanza pratica del principio di offensività si manifesterebbe in tutte quelle ipotesi in cui non vi è coincidenza tra tipicità ed offesa dell’interesse tutelato. In altre parole, qualora vengano poste in essere delle condotte che da un punto di vista formale integrano la fattispecie incriminatrice, ma sotto il profilo sostanziale non sono in grado di scalfire il bene giuridico, la disposizione di cui all’art. 49 comma 2 c.p. darebbe cittadinanza alla concezione realistica, che conduce ad escludere la punibilità del fatto [12].
Questa teoria è stata sottoposta ad un fuoco di obiezioni, alcune delle quali particolarmente convincenti. In particolare, il dato che l’art. 49, 2 «non concorra in alcun modo ad erudirci sulla natura degli interessi tutelati» [13] rende indispensabile il ricorso agli elementi descrittivi del modello legale per individuare il bene protetto. A questa stregua, la contraddizione in cui tale teoria incappa diventa palese: «se l’interesse tutelato deve essere dedotto dall’intiera struttura della fattispecie», come dicono i suoi sostenitori, «riesce difficile immaginare un fatto conforme a quest’ultima e non lesivo del primo» [14].
La giurisprudenza ordinaria, di merito e di legittimità, ha infatti più volte ribadito come «la norma dell’art. 49, 2° comma, c.p., lungi dal porsi in funzione di limite negativo della fattispecie di delitto tentato, (…) affermi il principio dell’offensività del reato (che ne concretizza la concezione realistica), per cui non è punibile (…) il comportamento conforme alla fattispecie legale penale, che tuttavia non manifesta obiettivamente, nel caso concreto l’attitudine causale a ledere o porre in pericolo il bene giuridico protetto» [15]. Il principio di offensività non solo costituisce un vincolo insuperabile per il legislatore ma deve altresì rappresentare un canone ermeneutico per l’interprete, cui spetta l’accertamento in concreto dell’offensività specifica della singola condotta. Inoltre, uno sguardo interdisciplinare sul sistema giuridico di provenienza della persona “incriminata” condurrebbe più agevolmente a valutare quali situazioni soggettive potrebbero essere tutelate a mezzo di soluzioni accomodative. In questo approccio, l’interdisciplinarietà potrebbe consentire una protezione giuridica più efficace e contribuirebbe a disarticolare il monolitismo della categoria dei reati culturalmente motivati.
Decisivi sulla questione, sono stati però gli interventi della Corte Costituzionale, che con grande limpidezza ha affermato la necessità che il fatto storico presenti una dimensione concreta di offensività [16]. Ciononostante, nel nostro Paese mancano istituti di diritto penale ad hoc allo scopo di scriminare condotte culturalmente o religiosamente motivate o che prevedano un trattamento sanzionatorio attenuato; questo fattore accresce i margini della discrezionalità giudiziale rispetto ai fattori culturale o religioso. Accade, infatti, che laddove il fatto criminoso comporti la lesione di diritti fondamentali, gli organi giudiziari escludano la rilevanza del fattore culturale o la sussumano entro una circostanza aggravante o entro una diversa qualificazione dell’elemento soggettivo del reato. Per converso, laddove il reato non è tale da ledere o mettere in pericolo un bene giuridico, gli orientamenti giudiziali non sono costanti. In base alle indicazioni della Corte Costituzionale, sarà allora compito del giudice ordinario accertare l’offensività in concreto del comportamento del soggetto attivo, valutando se le modalità di realizzazione della sua condotta sono state di fatto inidonee a ledere l’interesse tutelato dalla norma incriminatrice, pur senza intaccare la conformità al modello legale tipizzato dalla fattispecie [17]. In questo contesto, l’accertamento in concreto dell’offensività della singola condotta, secondo un’istanza di giustizia, escluderebbe l’incriminazione di fatti materiali non offensivi, evitando in queste ipotesi lo svolgersi di condanne e gravose vicende giudiziarie [18].
Sulla nozione e collocazione sistematica della cultural defense
La cultural defense identifica una causa di esclusione o di diminuzione della responsabilità penale, che può essere invocata dal soggetto appartenente ad una minoranza etnica con cultura, costumi e usi diversi, o addirittura contrastanti con quelli della cultura del sistema ospitante [19]. Per far valere la defense, l’agente deve dimostrare che «il comportamento illecito è stato realizzato nel ragionevole convincimento di agire in buona fede, basata sulla sua eredità o tradizione culturale» [20]. La dottrina distingue tra cultural defense cd. cognitiva e cultural defense cd. Volitiva [21]. La prima emergerebbe quando il retroterra culturale dell’agente gli impedisce di capire che il suo comportamento integra un reato; la seconda invece quando il soggetto agisce pur nella consapevolezza del fatto che le sue azioni sono vietate dalla criminal law dominante, in quanto costretto dalla forza imperativa della sua cultura d’origine.
La teoria delle cultural defenses mira inequivocabilmente ad ampliare il novero delle excuses volte a scriminare quelle condotte, altrimenti criminose, che trovano spiegazione nelle pressioni dell’ambiente e che hanno origine nella “società malata” [22]. Per esemplificare, basti pensare a: la defense costruita sulla “sindrome della donna maltrattata” (battered woman syndrome), quella applicabile al soggetto con “retroterra sociale deteriorato” (rotten social background), quella che riguarda l’imputato in stato di dipendenza da stupefacenti (addiction) [23].
Le excuses «sono riconosciute [dall’ordinamento] perché vi è l’esigenza di rendere giustizia al soggetto che ha realizzato l’illecito, anche se ciò ha un costo per l’utilità sociale» [24]. Esiste, in particolare, una connessione forte tra le excuses e il sentimento della “compassion” tale per cui l’esistenza di un’excuse comporta l’esclusione della punibilità dell’agente «nonostante il pericolo che egli può rappresentare per noi e nonostante egli abbia realizzato un illecito» [25]. Si pensi all’istituto della coazione (duress): in questa situazione, evidenzia Dressler, «sentiamo un collegamento forte con l’agente costretto a commettere il reato. Egli è considerato come una persona normale in una situazione anormale. La sua debolezza è la nostra debolezza. Ci sembra impossibile scinderci da lui. (…)» [26]. La compassion è dunque intimamente correlata con la ratio delle excuses. «L’excuse dimostra che siamo umani, che possiamo sentirci uniti alla persona che ci ha fatto del male» [27].
Vi è comunque un altro motivo, secondo la letteratura, alla base della proliferazione di new excuses nel sistema: la constatazione che molti criminali hanno sperimentato vite eccezionalmente dure. «Gli abusatori spesso sono stati bambini abusati; donne che hanno ucciso i loro mariti sono state da loro maltrattate; altre persone hanno commesso reati dopo un trauma ‘psicologico ‘generalmente fuori dall’ambito della normale esperienza umana’» [28]. L’emersione di nuove excuses rappresenterebbe, dunque, secondo alcuni, una sorta di compensazione, che il sistema riconosce all’offender per non essere riuscito a disinnescare le fonti del conflitto. Non sono mancate le opinioni contrarie di chi, invece, attacca le new excuses identificandole come una volgare “licenza ad uccidere” [29], ovvero come una “moderna forma di giustizia privata” [30]; «il sintomo di un’abdicazione generale della responsabilità da parte di individui, famiglie, gruppi e anche dallo Stato» [31].
Sembra ragionevole ritenere che l’emersione di new excuses, lungi dal costituire il frutto di un’aberrazione dottrinale, sia il frutto di un felice incontro tra la teoria e le nuove scoperte della scienza, da cui risulta l’influenza delle condizioni sociali sul comportamento criminale dell’individuo [32].
Violenze e maltrattamenti nel contesto familiare
Un precetto di matrice religiosa può, talora, indurre il genitore a violare o trascurare i doveri inerenti alla potestà sui figli o ad abusare dei relativi poteri o, addirittura, a porre in essere atti pregiudizievoli sia verso l’altro coniuge che verso la prole [33]. Nel silenzio della legge, la Corte di Cassazione, in tema di maltrattamenti in famiglia, ha affermato il principio per cui «l’assunto difensivo, secondo cui l’elemento soggettivo del delitto de quo sarebbe escluso dal concetto che l’imputato, quale cittadino di religione musulmana, ha della convivenza familiare e delle potestà anche maritali a lui spettanti quale capo-famiglia, non è in alcun modo accoglibile, in quanto si pone in contrasto con le norme cardine che informano e stanno alla base dell’ordinamento giuridico italiano e della regolamentazione concreta dei rapporti interpersonali» [34]. È stato anche osservato che le «convinzioni religiose dei mariti sono ininfluenti quando si tratta di giudicare i loro comportamenti» [35]. Una violenza familiare che sfocia nella lesione dei diritti fondamentali della persona determina, quindi, la responsabilità dell’autore del delitto anche quando essa sia stata compiuta al fine di imporre il rispetto delle regole prescritte dalla religione di appartenenza [36].
Negli ultimi anni si è registrato un processo di accettazione delle diversità religiose e dei particolarismi culturali, nel quale troverebbe affermazione la c.d. “cultura della tolleranza” [37]. A tale riguardo, appare significativo l’art. 27 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, in base al quale «negli Stati in cui vi sono minoranze etniche, religiose o linguistiche, le persone appartenenti a queste minoranze non possono essere private del diritto di avere, in comune con gli altri membri del loro gruppo, la propria vita culturale, di professare e praticare la loro religione, di utilizzare la loro lingua» [38], sempre che il loro comportamento e le loro consuetudini non siano contrastanti con i diritti fondamentali della persona e con i principi cardine dell’ordinamento giuridico nazionale intriso di democrazia.
Restando in tema di violenze e comportamenti prevaricatori nel contesto familiare, oltre al reato di maltrattamenti, è stato riconosciuto anche il reato di abuso di correzione o di disciplina ex art. 571 c.p. a carico del padre che costringeva fisicamente il figlio a scontare per punizione una condotta «degradante, umiliante, contraria a qualsiasi cultura o religione»[39], compresa quella islamica a cui appartiene il genitore.
Nella giurisprudenza italiana, inoltre, non sono mancati casi concernenti i delitti contro la libertà sessuale delle vittime, in genere tutte adolescenti, donne [40] e mogli, nei quali l’imputato ha sempre invocato a giustificazione della propria condotta norme vigenti nel suo ordinamento d’origine circa i rapporti sessuali tra un uomo e una donna. La difesa del marito si basava, principalmente, su tre assunti: primo, violazione della legge che regola il sistema italiano di diritto internazionale privato (art. 29, l. n. 218/1995); secondo, ignoranza inevitabile della legge penale e mancanza del dolo generico; e terzo, mancato riconoscimento dell’attenuante della provocazione (art. 62, n. 2, c.p.). Ciononostante, la Corte, in linea con la posizione recentemente assunta dalle istituzioni europee [41], respinse tutti e tre i motivi, in primo luogo perché «le circostanze invocate con il ricorso […] non sono assolutamente idonee a dimostrare, da un lato, la mancanza di dolo generico e, dall’altro, la assoluta inevitabilità della ignoranza della legge penale italiana». L’imputato, infatti, non avrebbe adempiuto, con il criterio della ordinaria diligenza, al dovere di informazione, ossia all’obbligo di espletare ogni utile accertamento per conseguire la conoscenza della legislazione vigente. Secondariamente, «non può considerarsi fatto ingiusto, e quindi provocazione, il rifiuto del coniuge di intrattenere rapporti sessuali, ciò costituendo pur sempre espressione della libertà di autodeterminazione, che non può mai essere conculcata, anche se può costituire violazione degli obblighi assunti con il matrimonio» [42].
Cultural offences e asetticità del legislatore italiano: il delitto di mutilazione genitale femminile
Altro settore in cui si manifesta una conflittualità tra diritto oggettivo e imperativo religioso è rappresentato dall’osservanza di prescrizioni e pratiche di culto, che tendono a menomare l’integrità fisica o psichica del fedele. Per anni la monoculturalità del nostro tessuto sociale si è riflettuta sulla struttura del codice penale, in cui sono assenti norme aperte al riconoscimento di altre strutture etniche. Questa asetticità di fronte alle diversità etnico-culturali emerge chiaramente dalla Relazione del Re, presentata per l’approvazione del codice penale ove si sottolinea, nelle considerazioni generali «l’unità non solo sociale, ma altresì etnica, legata da vincoli di razza, di lingua, di costume, di tradizioni storiche, di moralità, di religione (…)» [43], che caratterizza lo Stato italiano. Solo recentemente l’omogeneità etnica del nostro sistema ha cominciato a mostrare serie incrinature [44]: da pochi anni, infatti, importiamo immigrati e ci imbattiamo – per dirla come Sartori – in contronazionalità soprattutto di origine musulmana [45].
L’ideologia multiculturalista ha cominciato a diffondersi già dagli anni settanta conducendo, nella sua versione più estrema e radicale, a manifestazioni di vera e propria celebrazione della diversità e di critica dell’etnocentrismo. L’attenzione dottrinale si concentra sempre di più sul particolarismo e sulla dimensione etnica, fino a giungere all’affermazione “we are all multiculturalists now” [46]. La letteratura sociologica indica in modo impeccabile i fattori di questa rivoluzione culturale, segnalando, innanzitutto l’impatto con le nuove ondate di immigrazioni. Ciononostante, la risposta del sistema giuridico italiano allo scontro di culture dovuto all’impatto dell’immigrazione è stata di chiusura secca, come emerge dall’introduzione, nel nostro Codice penale, del delitto di mutilazione genitale femminile [47].
Da quasi trent’anni i movimenti femministi e gli esponenti delle organizzazioni a tutela dei diritti umani si battono per l’eliminazione del rito dell’“ablazione dei genitali femminili”, una pratica antichissima realizzata non per necessità terapeutica, ma per motivi culturali o religiosi, sia in società islamiche che in comunità non musulmane [48]. La letteratura usa termini diversi per indicare questa usanza. Dal termine omnicomprensivo “ablazione genitale femminile”, neutro sul piano valutativo, si passa infatti al concetto più specifico di “circoncisione femminile”, per finire con il termine più crudo “mutilazione genitale femminile”. Ed è quest’ultima la definizione prescelta dall’OMS, che inserisce nella categoria delle MGF tutte le procedure che comportano la rimozione totale o parziale degli organi genitali femminili esterni, nonché ogni altra lesione prodotta a questi organi per motivi culturali, religiosi e comunque non terapeutici [49].
Leggi specifiche tese a bloccare o a contenere il fenomeno sono state introdotte in alcuni Paesi dell’Africa, in cui tradizionalmente le MGF sono eseguite [50]; analoghi provvedimenti sono stati adottati dai vari sistemi occidentali intra ed extraeuropei, in seguito all’intensificarsi dei flussi migratori [51]. Nel solco di questi provvedimenti è stata varata la legge italiana del 9 gennaio 2006 n. 7, che contiene le “Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile”, il cui art. 1, specificando le finalità della legge e definendo le pratiche di MFG come «violazioni dei diritti fondamentali all’integrità della persona e alla salute delle donne e delle bambine», non sembra considerare che la MGF possa essere il frutto di un’adesione libera e volontaria di una donna adulta alla cultura d’origine, né che il diritto alla cultura rientri nel novero dei diritti fondamentali. Notevoli le criticità della normativa anche sotto l’aspetto sanzionatorio. L’art. 6 introduce nel nostro Codice all’art. 583 bis il delitto di “pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili” che, al primo comma, punisce, con la reclusione da quattro a dodici anni la condotta di «chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili» e specifica i comportamenti con cui si può realizzare la MGF.
La norma tuttavia, è bene rilevare, è lungi dal colmare una lacuna legislativa; si consideri, infatti, che le condotte di MGF ben avrebbero potuto essere sussunte nella disposizione di cui all’art. 583 c.p., che disciplina il reato di lesioni gravi o gravissime. In particolare, suscita perplessità l’ipotesi prevista al secondo comma, che prevede la condotta meno grave di «chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle indicate dal primo comma, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente», punita con la reclusione da tre a sette anni nell’ipotesi base e con la diminuzione fino a due terzi se la lesione è di lieve entità. Questa disposizione rischia di rimanere lettera morta, essendo il dolo specifico che la qualifica molto difficile da provare. A complicare la situazione contribuisce anche il fatto che la giurisprudenza, pur a fronte di chiari casi di conflitto culturale, non abbia mai adoperato il concetto di reato culturalmente motivato, sicché la sua demarcazione non può dirsi giurisprudenzialmente delineata.
Il porto del Kirpan nella giurisprudenza italiana
La giurisprudenza italiana sul porto del kirpan rappresenta un ambito utile per scandagliare la categoria dei reati culturalmente orientati in prospettiva pluralistica, prendendo ad esame condotte che potrebbero considerarsi espressione della libertà religiosa ma, tuttavia, perseguite e sussunte entro fattispecie di reato. L’atto di portare un kirpan in Italia è stato colonizzato dal diritto penale ove l’uso del termine “porto” incorpora il concetto penalistico del “portare un’arma”, dell’avere con sé, in luogo pubblico o aperto al pubblico, un’arma immediatamente disponibile e pronta per essere usata in modo rapido e immediato per recare offesa alla persona e per difendersi. Dunque, quando il credente sikh porta il pugnale sacrale fuori dalla propria abitazione o dalle sue pertinenze è perseguibile per il reato di “Porto di armi od oggetti ad offendere” ai sensi dell’art. 4 della legge n. 110 del 1975 [52], ove il kirpan venga riconosciuto come arma impropria, oppure ai sensi dell’art. 699, secondo comma, c.p rubricato “Porto abusivo d’armi” [53], se ritenuto un’arma propria [54].
Nella religione Sikh, il kirpan è un simbolo religioso che consente a chi lo indossa di realizzare l’unione di sé con la divinità e di portare a compimento la propria individualità. Pertanto, la funzione del pugnale sacrale, non è ovviamente quella di offendere alcunché, ma di consentire al credente sikh di esprimere un’identità religiosa. La matrice religiosa del “porto” del kirpan è stata riconosciuta dalla giurisprudenza di merito [55] ma non dalla giurisprudenza di legittimità che, nel rilevare come «è essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale» sembra suggellare la chiusura dell’ordinamento giuridico italiano di fronte al sikhismo[56].
Il caso da cui muove la vicenda giudiziaria, sfociata nella pronuncia del 2017, riguardava Jatinder Singh, un ragazzo di confessione religiosa sikh che si era opposto alla richiesta della polizia locale di consegnare il kirpan portato alla cintura, spiegando, al momento dell’arresto, che l’atto di indossare il pugnale sacrale integrava l’esercizio di una pratica religiosa che, per il credente, non poteva considerarsi facoltativa. Con sentenza pronunciata il 5 febbraio 2015, il giudice di primo grado aveva condannato il giovane alla pena di 2.000,00 euro di ammenda per il reato di cui all’art. 4 della legge n. 110 del 1975, perché «portava fuori dalla propria abitazione senza un giustificato motivo, un coltello della lunghezza complessiva di 18,5 centimetri idoneo all’offesa per le sue caratteristiche». La questione giunse fino in Cassazione, orientata nel collocare la condotta nel quadro di una incontestata incriminabilità, traducendo l’atto di indossare il kirpan nel comportamento costituito dal “porto di un coltello”.
Uno dei profili di interesse della decisione di legittimità si riscontra nel fatto che alla ricostruzione della fattispecie concreta, non si accompagna nella parte in diritto nessuna precisazione relativa alla circostanza che la particolare modalità con cui Singh Jatinder portava su di sé il pugnale sacrale riflettesse una prima soluzione di “accomodation”, spontaneamente praticata dalla comunità sikh italiana, ovvero il porto del pugnale sacrale sotto la cintura al fine di impedirne l’estraibilità. La Corte invoca a sostegno della propria decisione il principio secondo cui «il giustificato motivo di cui all’art. 4 L. 110 del 1975 ricorre quando le esigenze dell’agente siano corrispondenti a regole relazionali lecite rapportate alla natura dell’oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi di accadimento del fatto e alla normale funzione dell’oggetto». Il collegio giudicante esclude la rilevanza e, prima ancora, il “valore” della motivazione religiosa.
Invero, sembrerebbe ragionevole ricondurre il caso di specie alla categoria dei “reati culturalmente motivati” che imporrebbe all’organo giudicante di riconsiderare gli indici giurisprudenziali ordinari alla luce del singolo agente. Nella commentata controversia la Cassazione escludeva la sussistenza di una “scriminante culturale” e richiamava l’articolo 2 della Carta costituzionale per ascrivere una pratica religiosa non offensiva a una fattispecie di reato ed escludere che la norma potesse fondare il riconoscimento dell’esercizio della libertà religiosa e fungere da piattaforma costituzionale di partenza nella tutela del pluralismo. Risulta, pertanto, inderogabile per l’immigrato conformarsi ai valori del mondo occidentale in cui ha deciso di integrarsi, verificando preliminarmente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che regolano l’ordinamento giuridico occidentale [57].
Cultural offences e giurisprudenza statunitense (cenni)
Un osservatorio privilegiato per lo studio dei reati culturalmente motivati è costituito dagli Stati Uniti, la cui composizione sociale multietnica ha avuto un impatto dirompente anche sul sistema penale. Gli Stati Uniti d’America rappresentano «la società multiculturale per eccellenza» [58], in virtù del fatto che, praticamente fin dall’origine di tale società, all’interno del medesimo territorio convivono etnie differenti, le quali costituiscono un eterogeneo corpus sociale.
In ambito penalistico il dibattito si è sviluppato mettendo a fuoco il fenomeno dei c.d. “reati culturali (cultural offences)” o “reati culturalmente motivati (culturally motivated crimes)”, cioè di quei comportamenti considerati reato dalla legge vigente di un Paese, ma commessi da soggetti, membri di gruppi etno-culturali di minoranza, nella convinzione della loro liceità o della loro minore illiceità, in quanto quei medesimi comportamenti, nel sistema etno-culturale d’origine, sono condonati, accettati come normali, approvati o addirittura incoraggiati [59].
È di matrice dottrinale e giurisprudenziale l’elaborazione della nozione di cultural defense, con cui si intende un «argomento che l’imputato può addurre a propria difesa per confutare l’accusa mossa a suo carico» [60]. Nello specifico, la cultural defense configura un “argomento” di difesa, fondato sulla diversità culturale dell’imputato e sul conseguente presupposto che la sua cultura abbia esercitato un’influenza, giuridicamente apprezzabile, sulla condotta realizzata, tale da poter attenuare, se non elidere, la responsabilità per il reato commesso. L’idea di fondo della cultural defense è, infatti, quella di valutare il reato culturalmente motivato anche alla luce della cultura dell’imputato, l’apprezzamento della quale può eventualmente condurre, in sede processuale, all’esclusione o all’attenuazione della sanzione penale [61].
Protagoniste dell’impatto tra culture diverse negli ultimi anni sono in particolar modo negli Stati Uniti le comunità asiatiche, che in seguito ai continui flussi migratori rappresentano la maggioranza della popolazione sul piano numerico [62]. Questi gruppi hanno usi, costumi e tradizioni particolari, per molti versi in contrasto con la criminal law americana. È così sorto il problema di come bilanciare gli interessi in conflitto tra l’ordinamento “ospitante” e quello “ospitato”. Di fronte a questo vero e proprio scontro ideologico, le Corti americane hanno optato per un modello intermedio di controllo della criminalità cd. culturale: ed è allora che si afferma nelle aule di giustizia la tattica della cultural evidence: una strategia processuale, che vuole tenere in considerazione la diversità culturale, senza però scardinare e stravolgere i principi su cui si fonda il diritto penale.
Attraverso questa tattica processuale il fattore culturale può, innanzitutto, essere fatto valere per far emergere l’esistenza di una defense tradizionale (insanity defense, diminished capacity, mistake of fact). Ad esempio, l’imputato può dimostrare che i suoi valori culturali sono talmente distanti da quelli della cultura del sistema di accoglienza da fargli mancare «la capacità sostanziale o di comprendere l’illiceità della sua condotta, o di conformare il suo comportamento alle disposizioni di legge» [63]. La cultural evidence può in concreto agire anche come una circostanza attenuante, perché ritenuta rilevante dal prosecutor nel momento dell’accusa o nella fase del plea-bargaining [64]. Infine, i fattori culturali possono incidere nel sentencing, condizionando in modo consistente, la determinazione della pena [65].
Mediazione culturale di matrice giurisprudenziale e causa di non punibilità “culturale”
Fin qui è emerso come anche in Italia, alla stessa stregua delle altre Nazioni, si avverte la necessità di garantire un’adeguata integrazione degli immigrati nel tessuto sociale ed economico del Paese [66]. Stando alle indagini criminologiche, infatti, l’emarginazione sociale ma soprattutto la diversità culturale dei cittadini extracomunitari, per la maggior parte proveniente dal Nordafrica, dal mondo arabo e dall’Albania [67], producono talvolta fenomeni di criminalizzazione basati su un conflitto tra valori della propria società e quelli imperanti in Italia [68].
La lentezza del legislatore nell’affrontare le rivendicazioni multiculturali ha tuttavia determinato una fuga dalla legislazione e la ricerca nelle aule giudiziarie di soluzioni immediatamente spendibili. Da questo punto di vista, «la giurisdizione è sembrata costituire un varco più accessibile per istanze nuove come quelle multiculturali, dimostrando di avere a disposizione mezzi più adeguati per intercettare e recepire domande sociali diversamente estromesse dai luoghi decisionali» [69]. In un simile scenario, il giudice riesce meglio di altri a svolgere, nel contempo, la funzione di mediatore culturale e di elemento di integrazione delle differenze [70]. Ciononostante, il futuro legislatore, non potendo rimanere insensibile al carattere multietnico e multiculturale della società odierna, non potrà che affrontare in modo ragionevole il problema dei conflitti culturali, trovando giustificazioni politico-criminali che concedano qualche spazio di apertura nei confronti delle culture “altre”. Al riguardo, si può ipotizzare una nozione molto ristretta di reato culturalmente motivato, centrata su una definizione circoscritta di cultura da intendersi nella sua accezione etnica [71]. Una costruzione del genere postula che il diritto alla cultura debba soccombere qualora entri in conflitto con le “immunità fondamentali”.
È di palmare evidenza come, nel settore dei reati culturalmente motivati – una peculiare tipologia di delitti, costruita sulla connessione specifica tra cultura del singolo e cultura del gruppo etnico di riferimento – la prevenzione nei suoi significati più tradizionali sia destinata irrimediabilmente a perdere funzionalità. Pertanto, si rivela necessario studiare nuove forme di prevenzione, che siano in grado sia di prevenire la recidiva, che di promuovere l’inserimento degli autori culturali nel contesto del sistema di accoglienza [72].
Il terreno più fertile per intervenire sul fattore culturale sembrerebbe essere costituito dalla categoria della punibilità, non sufficientemente valorizzata nel nostro sistema giuridico. L’utilizzo atecnico dell’espressione “non punibilità” ha costituito l’oggetto di un dibattito dottrinale che ha evidenziato come l’art. 59 del codice penale, quando parla di “circostanze di esclusione della pena”, colloca promiscuamente le ipotesi più disparate di cause di non punibilità: le scriminanti, le cause di esclusione della colpevolezza, le cause di non punibilità in senso stretto. Sarebbe auspicabile un intervento del Legislatore che attraverso l’introduzione di una causa di non punibilità ritagliata sull’autore culturalmente motivato manifestasse la tolleranza dell’ordinamento nei riguardi dei gruppi di minoranza.Una causa di non punibilità siffatta potrebbe sortire l’effetto di riassestare gli equilibri tra i vari gruppi etnici che compongono la società multiculturale e arginare i conflitti sociali [73]. Si consideri, inoltre, che una causa di non punibilità costruita sull’autore culturale, vista la sua natura giuridica di fattispecie eccezionale, non sarebbe estensibile analogicamente; inoltre non sarebbe comunicabile ai compartecipi e l’eventuale errore, cadendo su un fattore esterno al reato, non potrebbe essere valutato a favore dell’agente.
Concludendo, la causa di non punibilità “culturale” dovrebbe presentare le seguenti caratteristiche:
- dovrebbe trattarsi di una causa di esclusione della pena personale, costruita sulla figura dell’autore del reato culturalmente motivato;
- la nozione di reato culturalmente motivato deve essere modellata sull’elemento normativo extragiuridico “cultura”, da concepirsi in modo limitato;
- il comportamento posto in essere non deve violare le c.d. immunità fondamentali;
- il modello culturale del gruppo etnico di riferimento dell’autore deve essere ragionevole.
In questo modo si darebbe concreta attuazione al principio costituzionale di uguaglianza che, lungi dal fondarsi sulla negazione aprioristica delle differenze, si basa sul loro riconoscimento, trovandovi le sue articolazioni concrete. Se il principio di uguaglianza viene interpretato alla luce della necessaria protezione dei diritti fondamentali in generale e in particolare del diritto di ognuno alla propria identità etnico-culturale, non solo esso non impone la cancellazione delle differenze culturali, ma ne richiede il riconoscimento e la protezione. Pertanto, la considerazione di una causa di non punibilità a favore dell’autore culturale – nei limiti e alle condizioni prima precisate – risulta essere uno strumento possibile e opportuno per far conseguire visibilità al diritto di ciascuno alla propria identica etnico-culturale.
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