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Schegge di mondi
Posted By Comitato di Redazione On 1 luglio 2024 @ 02:49 In Cultura,Letture | No Comments
CIP
di Nicola Martellozzo
Introduzione
Anche io non sono più al posto giusto.
Quale è il posto giusto?
Dove si è a casa.
(de Martino 1977: 197).
Lessi Pietre di pane nei primi anni dell’università e lo trovai un libro ben strano. Decisamente diverso dai classici dell’etnografia che iniziavo ad apprezzare, distante dallo stile dei saggi scientifici, non era nemmeno classificabile come romanzo d’invenzione. Anni dopo, leggendo Tristi Tropici, avrei trovato qualcosa cui paragonarlo, ma in quegli anni passati a Bologna, lontano da casa, rimase una lettura episodica. Ho incontrato nuovamente il libro di Vito Teti – nella nuova edizione cui è dedicata questa recensione – solo undici anni dopo, in una piccola libreria del mio paese natale. Ci ero tornato per questioni di famiglia, e passai la mattinata a camminare per le vie di un paese dove non ero cresciuto e che, ciononostante, è pieno di ricordi. Ricordi della mia infanzia, fatta di visite ai parenti che erano rimasti lì e di passeggiate domenicali con i miei genitori. Ma anche ricordi di altri, fissati nei luoghi che visitavo e nelle storie che mi venivano raccontate su quel paese. Forse sono state proprio queste memorie che mi hanno spinto a riprendere Pietre di pane; di certo, hanno cambiato totalmente questa seconda lettura, avvicinandomi ai temi e alle riflessioni che Teti ha infuso nel suo libro.
Dopotutto ogni testo, afferma Salvatore Inglese «contiene, seppure allo stato latente, particolari percorsi di lettura che si rivelano solo quando un lettore incomincia a cimentarsi su di esso» (Inglese 1996: 245). Quei percorsi erano già lì, tredici anni fa, e nel periodo trascorso tra la prima e l’attuale edizione Vito Teti li ha sviluppati con coerenza e originalità nel suo lavoro e con la sua biografia. Originario del paese calabrese di San Nicola da Crissa (VV), Teti ha fondato il Centro di iniziative e ricerche Antropologie e Letterature del Mediterraneo; per conto della RAI ha realizzato diversi documentari etnografici e reportage nel Sud Italia – in particolare nella sua regione d’origine – e in Canada, sulle tracce delle comunità di emigranti meridionali. Già professore di antropologia presso l’Università della Calabria, nel corso della sua lunga carriera si è dedicato allo studio dei processi di costruzione identitaria, ai rapporti tra etnografia e letteratura, al senso dei luoghi e in particolare ai fenomeni di spopolamento e abbandono dei paesi. Le sue ricerche intrecciano costantemente la dimensione biografica con quella della memoria locale e della storia del Meridione. Nel suo paese natale ha fondato il Centro ricerche iniziative spopolamento spostamenti ambiente (CRISSA); il Comune di San Nicola da Crissa, infatti, dal secondo dopoguerra ha subìto un costante calo demografico, passando dai circa 4300 abitanti degli anni Cinquanta agli appena 1200 di oggi, con una flessione particolarmente dura fino agli anni Ottanta. Questo lungo processo di svuotamento, legato all’emigrazione in altre zone d’Italia (ma soprattutto oltreoceano) è uno dei temi più ricorrenti nel lavoro di Teti.
Più in generale, l’antropologo calabrese si interroga su che cosa significhi abitare le aree interne degli Appennini meridionali, dove «si chiudono scuole, uffici postali, ospedali, presidi delle forze dell’ordine. [...] I paesi in abbandono sono spesso senza più centro, senza piazza, senza bar, senza più rapporti, con paesaggi stravolti» (Teti 2014). Ritorni, resistenze, paesi, memoria, sono tutti termini ricorrenti nel lavoro di Teti e che, non a caso, si ritrovano nel recente Vocabolario delle Aree Interne (2024). Rispetto ad altri volumi altrettanto conosciuti, come Terra inquieta (2015) o Nostalgia (2020), Pietre di pane traccia “un’antropologia del restare” peculiare nello stile e nei contenuti. Non si tratta di un libro che raccoglie “solo” storie di emigrati e dei loro andirivieni, del loro attaccamento al campanile e dei loro tentativi di ricostruire un doppio del paese in un altrove; le storie raccontate da Teti prendono senso nel rapporto con coloro che restano e che aspettano. Senza costoro, l’intera esperienza della migrazione sarebbe stata diversa: non ci sarebbe stato nessuno ad attendere i loro ritorni, alcun lontano parente da visitare, niente doni da ricevere e scambiare.
Come pietre sul bordo della strada
Penso che questo sia uno dei passaggi più rappresentativi delle 219 pagine che compongono Pietre di pane. La forma dialogica, il confronto tra le prospettive di chi è partito e di chi è restato, l’intreccio tra ricordi, emozioni e riflessioni, sono tutti elementi che ricorrono costantemente nel volume di Teti, definendone lo stile. In un contributo di qualche anno fa, Salvatore Inglese si soffermava proprio sulle forme di scrittura di antropologi come Geertz, Michaux, Lévi-Strauss, de Martino e Piero Coppo (Inglese 1996). Lo stile che dà forma – “ritesse”, usando la bella espressione di Inglese – la memoria del viaggio nella scrittura di Teti è resa tale proprio dalla specificità del viaggio stesso: più di un semplice andirivieni, è una tensione continua tra ricordi disattesi, nostalgie, partenze differite, ritorni improvvisati. Lo stesso può dirsi dei capitoli all’interno del volume: i dieci racconti e i quattro interludi sono riprese e rielaborazioni sia di scritti precedenti dell’antropologo calabrese, sia di trascrizioni di poesie orali, «frammenti di grandi alberi di canti, fiabe, proverbi» (Teti 2024: 218) appartenenti a quello che Teti chiama il suo “paesaggio d’appartenenza”. La forma mista dei capitoli, tra il saggio storico-scientifico e il romanzo, offre al lettore dieci diverse fotografie di quel paesaggio, schegge di un mondo e di una comunità descritta attraverso le storie di vita di decine di personaggi diversi. Non mi soffermerò su quelle storie, né intendo descrivere il contenuto di quei capitoli: ogni tentativo di sintesi avrebbe lo stesso effetto e la stessa inutilità di riassumere una poesia.
Non è a torto che richiamo questo genere letterario: nel modo in cui Teti racconta, ritessendola, una parte della propria gioventù in Calabria – descrivendone i luoghi, le persone, le emozioni – trovo una certa somiglianza con l’Infanzia berlinese (Benjamin 2003); in quest’opera, Walter Benjamin offre un montaggio dei ricordi, poeticamente e letterariamente trasformati, della sua infanzia. C’è anche un altro aspetto che accomuna i due testi, vale a dire l’attenzione per i fatti marginali e le vite “normali”, in queste «storie minute dove non succede niente, perché tutto è accaduto, o perché accade senza clamori. […] Nulla è più drammatico della vita ordinaria, quotidiana, abituale» (Teti 2024: 217).
In Pietre di pane Teti offre un primo piano di queste vite, filtrandole attraverso il proprio sguardo e i propri ricordi. È un materiale “umile”, che prende forma ai margini della Storia come sassolini ai bordi delle strade, e in questo sta la comunanza d’intenti con Benjamin, quando il filosofo tedesco afferma che si occuperà di «stracci e rifiuti, invece, ma non per farne l’inventario, bensì per rendere loro giustizia nell’unico modo possibile: usandoli» (Benjamin 2000: 514). Questo ribaltamento della storia, costruita dai bordi e dagli scarti, ritorna anche nel lavoro di altri antropologi, da Eric Wolf a Claude Lévi-Strauss (Remotti 1998: 57), che non a caso viene evocato da Teti nel prologo del volume. Ho deciso di soffermarmi proprio a questo prologo e all’introduzione a questa nuova edizione, sia perché contengono le riflessioni più recenti dell’autore, sia perché si prestano effettivamente ad essere riassunti.
I “nuovi spaesamenti” al centro dell’introduzione sono l’occasione per Teti di tracciare un bilancio rispetto ai tredici anni intercorsi dalla prima edizione del volume, specie in riferimento ad alcuni concetti cardine come quello di “restanza”. Più in generale, vale quello che Remotti scriveva a proposito di Benjamin, cioè che esiste una «tensione, o opposizione, tra l’aspetto del “vagare”, dell’“andare errando” […], e quello dell’“abitare”, del “radicarsi”: due aspetti tra loro complementari” (Remotti 1998: 58). Questa tensione è talmente forte che produce uno sdoppiamento: dei luoghi, delle famiglie, dei ricordi, e dei viaggi. Il tema del doppio percorre come un filo rosso tutta la riflessione dell’antropologo calabrese sui processi di emigrazione, costruzione identitaria e spaesamento tra Calabria e Canada, il cui fulcro rimane la condizione della restanza. Il senso di questo termine emerge dalla relazione con altre due coppie di concetti, una doppia triangolazione che permette anche di definirne l’uso contemporaneo.
Dal 2011 ad oggi si sono accumulati tutta una serie di nuovi significati, un processo di cui Teti è ben consapevole, come ricorda nell’introduzione e come afferma in una recente intervista: «in qualche modo la parola, che certo va sottoposta a una revisione critica, non va banalizzata, non deve diventare uno slogan, un modo di dire, era come se desse voce a sentimenti, ad emozioni, ad aspirazioni, a rimpianti, a nostalgie, sia dei partiti, sia dei rimasti» (De Ritis 2024). Attraverso la restanza si parla di spaesamento, anzi, di una forma specifica di spaesamento; è la prima terna di concetti in cui si trova inserito il neologismo di Teti, quella che descrive diversi modi di essere spaesato: c’è la nostalgia (Teti 2020), che nasce quando ci si allontana dai propri luoghi; c’è la solastalgia (Breda 2020), dove invece le persone rimangono, ma sono i luoghi che si “allontanano”, cambiando drasticamente come dopo un terremoto; e infine c’è la restanza, una maniera spaesata di restare nei propri luoghi (Teti 2024: 21). Ma questo spaesamento non è disperato: in “ciò che resta” o in “coloro che restano” permane la possibilità di pensare il presente e immaginare nuovi futuri.
La restanza costituisce un’alternativa a fenomeni fin troppo conosciuti: lo svuotamento delle aree interne, l’abbandono dei paesi del Meridione, la perdita delle memorie famigliari e comunitarie. Offre anche un antidoto allo spaesamento provato da chi, tornando nei luoghi della propria gioventù, non ritrova più i suoi paesaggi d’appartenenza, ma solo qualche scheggia di mondi quasi estranei; su questo, di nuovo Benjamin:
’è il timore di incontrare il proprio doppio, una controparte che racconta un’altra storia, un’altra vita, ciò che sarebbe potuto essere se non si fosse partiti. E qui c’è la seconda terna di concetti, in cui alla restanza si affiancano l’erranza e, soprattutto, la resistenza. Resistere come volontà di continuare a esistere nei luoghi dell’abbandono e dei vuoti, che nel contesto delle aree interne ha assunto nel tempo una fortissima valenza politica. È lo stesso Teti a immaginare per il futuro una mappatura di tutte le diverse pratiche della restanza, specie di quelle che possiedono questo valore di resistenza, creando nuovi sensi dei luoghi in alternativa a quelle scelte politiche «economicistiche, classiste e urbanocentriche» (Teti 2024: 17). Per fare questo è imprescindibile coltivare i legami tra coloro che restano e coloro che partono, riannodare per così dire questo doppio filo per crearne uno più resistente; e poco importa che i capi di quei fili si trovino sulle sponde opposte dell’oceano: ciò che conta è il luogo dove essi si intrecciano.
Nel complesso, penso che Pietre di pane costituisca un’ottima risposta alla domanda posta da de Martino sul senso di spaesamento e di crisi delle “patrie culturali”: «ma è poi […] un fenomeno che riguarda soltanto i non occidentali o i non sufficientemente occidentalizzati, i primitivi, gli emigranti provenienti da zone sottosviluppate, insomma sempre gli altri e mai noi?» (de Martino 1977: 478-479). Vito Teti mostra – attraverso i suoi racconti e i suoi ricordi – come questi fenomeni ci riguardino da vicino, e come un’antropologia del restare si dia solo nella dialettica tra “qui” e “altrove”, tra restanti e tornanti, tra ricordi che scompaiono e luoghi da reimmaginare.
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