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Serpenti a mensa tra le posate e le portate
Posted By Comitato di Redazione On 1 gennaio 2024 @ 03:43 In Cultura,Letture | No Comments
A Giuliana Adamo
Un passo del De vita solitaria di Petrarca offre uno squarcio sulle ore del pranzo di una persona che l’autore designa semplicemente come l’occupatus ovvero l’indaffarato. Si ricorderà – l’episodio è celebre e spesso antologizzato – che questo personaggio rappresenta la persona facoltosa che passa le proprie giornate amministrando i suoi affari tanto che non ha mai per sé un momento della giornata, ed è un personaggio che ha il suo opposto nell’uomo solitarius da intendere come una persona impegnata negli ozii letterari, quindi padrone del proprio tempo capace di vivere in armonia con il tempo, seguendone il ritmo e i doveri che questo impone in modo naturale.
La lunga descrizione del De vita solitaria protrae il paragone tra i due modi di vita considerandoli nell’arco di una giornata scandita dal ritmo di quelle che si chiamavano le “ore canoniche”. La sua importanza si deduce dal fatto che funga da introduzione alla scelta da parte dall’autore, il quale prevedibilmente vorrà essere libero per dedicarsi alla meditazione, alla lettura e alla scrittura e alla preghiera anziché a guadagnare ricchezze e onori. Il momento del pranzo dovrebbe essere anche per l’occupatus una pausa di riposo e di liberazione dai doveri imposti dagli affari, ma non è così. Per lui l’ora del pranzo produce nuovi impegni e fastidi dovuti alla compagnia e conversazione con uomini d’affari, alla congestione delle portate e all’andirivieni di inservienti premurosi e pressanti. E c’è di peggio: nel bel mezzo del tavolo troviamo dei serpenti, cioè proprio il simbolo dell’insidia e quindi un’esplicita allusione a un disagio che perpetua quel senso di inquietudine che domina la vita dell’occupatus. Dei serpenti sulla tavola tra le posate e le portate? Sembra incredibile, ma ecco testualmente il passo:
Il passo nella bella traduzione di Antonietta Bufano suona così:
Quindi non uno, ma vari serpenti sulla tavola dell’epulone, annunciati dalle loro corna ed evidenziati dai ramoscelli d’oro ai quali s’intrecciano. Un’immagine del genere non poteva non destare curiosità e incredulità, pertanto non sorprende che abbia lasciato perplessi gli annotatori del passo. Ricordiamone alcuni.
Il primo a tentare una spiegazione è stato Guido Martellotti il quale pensa che Petrarca alluda al “cerasta” [3]. La spiegazione fa leva sull’etimologia («“cerasta” significa, infatti, “cornuto”, quindi “serpente cornuto”»), e per questo la spiegazione appare ineccepibile, tanto che ha condizionato tutti gli altri commentatori, i quali non hanno notato che Petrarca in realtà parla di “corni di serpente” e non già di “un serpente cornuto”, anche se l’illazione è certamente plausibile.
Se ne libera in parte Enenkel [4], al quale si deve anche un’edizione critica del primo libro del De vita solitaria. Questi accetta l’idea che Petrarca intenda parlare del cerasta, ma specifica che l’allusione non si riferisce al serpente come animale ma si limita alle sue “corna” che sarebbero in realtà delle sporgenze ossee attorno agli occhi che prendono la forma degli arbusti e hanno un colore “livido”, come attestano vari naturalisti, quali Plinio e Solino, e vari poeti quali Orazio e Stazio. L’interpretazione di Enenkel è dotta e ingegnosa, ma ha il difetto tipico delle interpretazioni che vogliono essere tanto più convincenti quanto più voluminoso è il cumulo di dati probatori, e se poi nessuno di questi risulta convincente, la quantità dei dati ne sottolinea l’inutilità.
Un’altra proposta d’interpretazione viene da Marco Noce, il quale in realtà non avanza soluzione alcuna, ma pone delle domande che potrebbero guidare a trovarla:
Christophe Carraud, il più recente commentatore del De vita solitaria, ritiene ineccepibile l’allusione al cerasta, ma non azzarda ipotesi difficili da difendere, e si limita ad intuire nell’immagine petrarchesca un «usage apotropaïque de l’animal mort ‒ et l’un des plus dangereux de tous, le céraste de Pline» [5].
Siamo dunque ad un’impasse: un passo carico di mistero e di sapore magico che ci invita a desistere da ogni tentativo di spiegarlo perché potremmo renderlo ancora più misterioso. Tuttavia è difficile rassegnarsi a perdere qualcosa che sembra degno di attenzione, e non solo perché è di Petrarca ma perché sembra alludere ad un dato che suscita molta curiosità visto che non abbiamo mai visto né sentito dire che nelle mense dei signori si presentino dei rettili, vivi o morti che siano, e la spiegazione simbolica sembrerebbe forzata poiché non è corredata da alcun elemento che sembri autorizzarla. Quindi quasi per puntiglio insistiamo nella ricerca, spinti anche dal fatto mai osservato che il passo sembri parlare non di veleno ma di protezione contro il veleno, e questo rende l’allusione ancora più problematica e però indica anche un’altra possibile via di interpretazione.
Per trovarla e poi seguirla, abbandoniamo l’invalsa abitudine di ricorrere esclusivamente agli autori latini classici, convinti da una secolare tradizione di studi che Petrarca si rifaccia esclusivamente a loro, dimenticando i suoi contemporanei perché scrivevano un latino che a lui sembrava poco elegante e perché avevano quel carattere greve delle scritture accademiche e scolastiche. Il che non è affatto vero o lo è solo in misura parziale: Petrarca era aggiornatissimo anche sulla letteratura dei suoi contemporanei. In ogni modo, noi li leggiamo non per trovare le fonti alle quali Petrarca sarebbe ricorso per informarsi sul serpente cerasta, ma per avere possibili indicazioni circa il possibile uso di avere dei serpenti sulla mensa. Dopo tutto il pubblico cronologicamente più vicino al De vita solitaria doveva pur capire l’allusione che invece per noi è diventata misteriosa. La proposta rende subito dei buoni risultati. Leggiamo quanto dice Alberto Magno del cerasta:
È un passo illuminante perché apprendiamo che i corni del cerasta essudano quando si trovano in presenza di veleno o di materie velenose. E questo già esclude senza alcun dubbio la possibilità che Petrarca alluda all’animale, e apprendiamo che si parla della materia ossea che può apparire anche nel manico delle posate perché la loro presenza avverte dell’eventuale presenza di veleno nei cibi o nell’ambiente in cui è collocata la mensa. Cerchiamone una conferma in testi affini come lo Speculum di Vincenzo di Beauvais:
Sono dati simili a quelli presenti nel passo di Alberto Magno, e non è detto che siano in qualche modo collegati, benché riportino una nozione simile ma che potrebbe essere diffusa in varie altre sedi. E poiché se ne parla come di una sorta di antidoto, interroghiamo un medico, Pietro d’Abano, quasi un contemporaneo di Petrarca:
Davanti ai dati riferiti crediamo di aver trovato una pista che promette di risolvere il nostro problema. Ci pare di capire che gli autori ricordati parlino di un oggetto in cui figurano le “corna del serpente” e che vengano usate per verificare se il cibo servito a tavola contenga del veleno. Petrarca accenna senz’altro ad un fenomeno simile, e sembra che parli di un amuleto che veniva usato per la cosiddetta “credenza”, una specie di rito che si officiava prima di ingerire il cibo preparato dai cuochi per stabilire che non fossero avvelenati. A questo scopo si usavano anche i cani e nel mondo antico anche gli schiavi o gli “assaggiatori”. Una volta intravvista questa spiegazione, troviamo una ricca letteratura che la suffraga, ed è sorprendente che nessun commentatore se ne sia reso conto.
L’amuleto di cui parla Petrarca è identificabile con un oggetto “scopriveleno” che gli italiani chiamavano proba o assaz o più generalmente credenza; i francesi lo chiamavano languier, gli aragonesi e i catalani lingues de serp, i tedeschi del Cinquecento lo chiamarono Natternzungenbaum (“albero di lingue malefiche”). La pluralità delle denominazioni in lingue diverse testimonia la larga diffusione dell’oggetto in culture separate. E notiamo anche che in tutte le denominazioni spunta la nozione di “lingua di serpente” anziché di “corni”, come risulta dal passo petrarchesco. La sola eccezione è la forma italiana che sembra indicare la funzione e non l’oggetto che la compie ‒ proba o assaz sono termini che definiscono l’oggetto per sineddoche ‒ e non fa distinzione fra corno e lingua di serpente. Il dato però non costituisce un problema, anche se qualche distinzione sarebbe possibile: intanto il “corno di serpente” si usava generalmente per le posate, nel manico dei coltelli, mentre la “lingua di serpente” si usava come oggetto da posare sul tavolo e non da impugnare. Inoltre è probabile che nei primi tempi si parlasse più di “corno” che di “lingua”, ma poi prevalse l’immagine della “lingua” forse per influenza della lingua melitensis di cui parleremo, e forse perché con il tempo i corni di serpente dovettero competere con quelli “dell’unicorno” al quale si attribuirono poteri da antidoto. C’è da aggiungere che la nozione di “lingua” avrà una giustificazione ben chiara sulla quale torneremo. Comunque stiano le cose ‒ e sarebbe utile appurarle ‒ a noi interessa sapere che le probe avevano nomi alternativi di “corna” e di “lingue di serpente”.
Di questi oggetti possediamo una vasta documentazione, grazie al lavoro magistrale di Heinrich Pogatscher, apparso ormai più di un secolo fa, in cui vengono consultati molti inventari, molte cronache e molti altri documenti a stampa e manoscritti [9]. Per il nostro proposito non è necessario passare in rassegna tanti materiali; ci basta consultare un solo inventario che, oltre a descrivere varie probe, limita l’osservazione senza portarci lontano dal mondo di Petrarca. Consultiamo gli inventari degli archivi papali avignonesi curati da Hermann Hoberg [10], e ne preleviamo alcuni campioni risalenti grosso modo al periodo “avignonese” di Petrarca:
oppure:
Oppure tutta la seguente serie:
Da tali descrizioni e varie altre contenute in questo inventario deduciamo che la forma più comune della proba era quella di un ramo di corallo o d’argento montato su un piede o un treppiede, adornato con filamenti d’oro; nei suoi rametti si incastonavano o si appendevano delle pietre che erano ritenute corna o lingua di serpente pietrificate. Ma poteva anche essere una saliera o un portabottiglie montato su un serpente, e questi oggetti venivano adornati con lingue o corni ritenuti di serpenti. Alcune volte si allude a questi oggetti soltanto come “lingua”. Gli inventari come quello ricordato riportano spesso le dimensioni e il peso di questi oggetti, e sembra di capire che fossero pezzi di oreficeria piuttosto elaborati il cui valore era legato anche al numero e alla dimensione delle “lingue” o “corni” che presentavano.
Se poi si trattava di “corna”, vediamo che per lo più erano incastonate nei manici (manubria) delle posate. Fra i vari campioni ricordati nel ricchissimo saggio di Heinrich Pogatscher ne troviamo uno del 1331 che mostra tutta la cura che un orefice applicava per farne un oggetto prezioso:
Ma “corni” si trovavano anche in ciondoli e in braccialetti, o erano appesi ai ricordati ramoscelli di corallo o di argento.
Di queste probe conosciamo anche l’uso. Ne troviamo una descrizione fra gli Avvisamenta pro regimine et dispositione officiorum in palatio domini nostri pape, risalente al 1409, presso Pisa, in un documento trascritto da Ludovico Muratori (Rerum Italicarum Scriptores, [ed. 1734], III, pt. ii, coll. 810-821) e riprodotto da Heinrich Pogatscher:
Non tutte le mense signorili tenevano la proba sul tavolo: più normalmente la si portava in cucina quando i cibi erano cucinati, e si avvicinava alle pentole: se le lingue o i corni di serpente cambiavano colore o essudavano, era perché i cibi erano stati avvelenati. Dopo questo controllo, l’amuleto veniva posato sulla mensa.
La diffusione di queste probe nelle maggiori corti europee, da Napoli alla Scozia a quella papale, testimonia quanto fosse radicata la convinzione del loro potere, e la loro presenza dice anche quanto fosse comune la morte per avvelenamento. E siccome le eventualità di morti simili erano frequenti negli strati sociali più alti, si capisce che gli amuleti protettivi venissero curati come cose preziose e di lusso degne dello status dei proprietari. Le probe, insomma, dovevano essere uno status symbol, e se ne fecero di varie forme, come accade per gli oggetti di lusso. Fra le versioni più interessanti fu quella sviluppata nei Paesi tedeschi dove prese il nome di Natternzungenbaum: erano specie di alberelli di Natale in miniatura, con filamenti d’oro ai quali venivano appese molte “lingue” e “corni”, e potevano contenere anche croci e immagini di santi. Di questi amuleti si conservano vari esemplari in diversi musei [16].
Ma che cos’erano in realtà queste lingue dal potere magico, e che avevano forma di lingua di serpente? Presero questo nome che deriva da Plinio che le chiamava glossopetrae e che riteneva piovute dal cielo durante le eclissi lunari:
Questa nozione con il tempo si fuse con una leggenda secondo cui queste pietre fossero lingue o corna di serpente pietrificate. Questi fossili erano particolarmente abbondanti a Malta, l’isola in cui San Paolo, come narrano gli Atti degli Apostoli (XXVIII, 3-5), fu morso da una vipera ma non ne subì alcun danno. Il santo maledisse tutti i rettili col risultato che tutti quelli che popolavano l’isola rimasero pietrificati o privi di veleno. Per questo motivo nell’isola di Malta abbondavano queste “lingue” (dette per questo anche “lingue melitensi”) o “corni” pietrificati, e se ne fece un grande commercio, perché, oltre alle lingue e ai corni, si raccoglieva la terra che si trovava presso la grotta dove sarebbe avvenuto il miracolo, e i ciarlatani la vendevano chiamandola “la grazia di san Paolo”, ritenuta potentissima contro il veleno dei serpenti [18]. La leggenda ebbe una grande vitalità e diffusione nel Medioevo ed era ancora viva nel Seicento18 fino a quando il danese Nicholaus Steno (Steinen) pubblicò nel 1667 De solido intra solidum naturaliter contento dissertationis prodromus in cui dimostrava che le supposte lingue o corni di serpente erano denti di squalo fossilizzati. La dissertazione steiniana produsse molta letteratura[19] alla quale è addirittura legata l’origine della paleontologia. E fu un cambio epocale e faticoso, se si pensa che ancora nel Cinquecento medici della statura di Mattioli sostenevano le tesi presentate da Pietro d’Abano [20].
A lungo andare la tesi scientifica ebbe la meglio e relegò fra le superstizioni gli amuleti antiveleno. Si perse la memoria delle probe che Petrarca deve aver visto sulle mense dei signori che l’ebbero a commensale, e con essa si era persa anche la possibilità di cogliere l’allusione presente nel De vita solitaria. Ora, però, capiamo il senso della sua allusione, di quegli strani “corni di serpente” incastonati su “arbuscoli”, e apprezziamo ancora meglio quel concetto baroccheggiante della «morte che vigila sulla vita», concetto che sa di macabro e che Petrarca ricava da un’osservazione del mondo quotidiano e non dal serbatoio delle sue letture di autori antichi.
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