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Sotto la luna
Posted By Comitato di Redazione On 1 novembre 2019 @ 00:39 In Cultura,Religioni | No Comments
di Arnaldo Nesti [*]
«Che fai tu luna, nel cielo. Dimmi, che fai, silenziosa luna?». Quante volte abbiamo parlato così alla Luna, richiamando i versi del Poeta. Il colloquio con la luna è un topos letterario di lunga tradizione poetica, ma la luna può anche essere considerata l’interlocutrice privilegiata di chi fatica ad abitare il tempo e i giorni nel loro scorrere.
In questa poesia leopardiana, un pastore interroga la luna sul perché delle cose e sul senso del destino umano. La figura esemplare del pastore errante afferma la costitutiva infelicità dell’intero genere umano e anzi di tutti gli esseri viventi. Nel paesaggio desolato dell’immensa steppa asiatica, sovrastato dalla misteriosa vastità del cielo stellato, le sue domande non trovano risposta. Il silenzio del cielo sconfinato gli conferma ciò che già sapeva, cioè che l’universo è un enigma indecifrabile nel quale l’unica cosa certa è il dolore degli uomini. Di tutti gli uomini. Leopardi vuole ricordare come tutti, ricchi o poveri, intellettuali o analfabeti, si pongono le stesse domande senza risposta sul significato della vita e sull’esistenza del male.
Il pastore non rinuncia all’idea che la luna possa svelare i misteri della vita e della morte, dell’infinito andar nel tempo e mutare delle stagioni e dell’inquietante vastità dell’universo. La bellezza della primavera e del cielo stellato devono giovare a qualcuno, non possono essere semplici apparenze di un universo indifferente. Ma lo sconforto emerge nell’ammissione finale, in cui i dubbi fiduciosi lasciano spazio a una certezza terribile: «la vita è male».
Che fare? Ben al di là della posizione leopardiana, la persona che viene al mondo è solo ospite per un breve periodo, a lei spetta costruire una vita significativa, arricchita da un responsabile rapporto con gli altri.
Purtroppo nel Novecento l’umanità ha vissuto tempi di grandi progressi, ma nello stesso tempo con gravi disparità sociali, degrado ambientale, conflitti fra i popoli. E le religioni? Le religioni come “agenzie di senso” hanno svolto, nel tempo, un ruolo fondamentale sia nel legittimare sistemi di dominio sia nel suscitare movimenti di liberazione; tanto nella benedizione di violenze e razzismi quanto nell’invitare ad aprirsi all’altro e a rispettare chiunque, soprattutto i più miserabili della società.
Il processo di secolarizzazione e, specialmente con la modernità, ha prodotto molteplici sfide alle credenze destinate a fungere da “polizze sulla vita”. Si è aperta così la via alla banalizzazione del male, ossia alla strumentalizzazione degli uomini e della natura senza turbamenti di coscienza da parte dei responsabili, perfino con il tacito consenso delle vittime. «Ciò di cui avremmo realmente bisogno – ha scritto radicalizzando le parole, Derk Rasmussen – sarebbe un movimento per l’ateismo economico, un’onda lunga di incredulità».
Questo è ciò che si propone il movimento della decrescita, come sostiene Serge Latouche? [1]. Il progetto di costruzione di società conviviali autonome ed econome, nel Nord e nel Sud del mondo, imporrebbe, rigorosamente parlando, più una “a-crescita” – così come si parla di a-teismo – che una de-crescita. Del resto, si tratta per l’appunto di abbandonare una fede e una religione, quella dell’economia.
Per raggiungere questo obiettivo è necessaria un’opera di decolonizzazione dell’immaginario, che può essere condotta in due direzioni principali e complementari: la decostruzione dell’universalismo economico e la demistificazione dello sviluppo e della crescita. Il relativo “incantamento” del mondo, prodotto dalla scienza, dal progresso e dallo sviluppo, è ormai rotto da un pezzo. Tuttavia, la fede nel progresso e nell’economia non è più un fatto di coscienza, ma una droga da cui siamo tutti dipendenti e a cui ci è impossibile rinunciare volontariamente. Il progressismo e l’economicismo sono incorporati nei nostri consumi quotidiani, li respiriamo con l’aria inquinata delle nostre città, li beviamo con l’acqua contaminata dai pesticidi, li mangiamo con i “cibi-spazzatura”, ce ne rivestiamo con i vestiti fabbricati nelle galere del Sud-Est asiatico e, infine, ci trasportano in giro nelle nostre “bagnarole” climatizzate…
Solo l’evidenza “pratica” del loro fallimento potrà forse aprire gli occhi dei suoi “adepti” affascinati: ma, trattandosi di un evento più che probabile, ci resta ancora qualche speranza. Dovremmo insomma augurarci un ritorno degli dèi? La costruzione di una società laica della decrescita non potrà fare a meno di un “nuovo incantamento” del mondo. Molti tendono già a questa o a quella forma di spiritualità [2].
Sulla scia anche di S. Latouche, spetterà ai poeti, agli artisti e agli esteti di tutte le razze, in breve, a tutti gli specialisti dell’inutile, del gratuito, del sogno, delle parti sacrificate di noi stessi, portare a termine questo incarico, senza sentire il bisogno di ricorrere né ai teologi né agli ayatollah?
Che ne è della morte di Dio? Sarà opportuno ricordarsi di Meister Eckart: «se io avessi un Dio che potesse essere compreso da me, non vorrei mai riconoscerlo come il mio Dio».
Qui si pone la domanda: come è possibile vivere sino in fondo l’esperienza del tramonto, per trovare l’accesso ad una nuova alba della storia umana [3]. Mi ricordo spesso del “quotidie moritura” [4]. Ma Dio è oltre, ed è altro!
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