- Dialoghi Mediterranei - https://www.istitutoeuroarabo.it/DM -
“Sparse mi ritorna sequenze”: la testimonianza poetica di Lucio Zinna
Posted By Comitato di Redazione On 1 settembre 2024 @ 01:49 In Cultura,Letture | No Comments
Come un pomeriggio al mare, sotto il sole che fa crescere e nutre, un pomeriggio solare come leggiamo in Camus, una estate mediterranea sempre alla ricerca di una misura delle cose, acque e terra, coste, movimento delle onde; come uno sguardo lungo all’altipiano poco prima del tramonto, un mare di terre sterminato, orizzonte lontano, ore che sembrano perdersi, conti che non possono tornare.
Avventurarsi sulla strada delle similitudini può sortire effetti appaganti per lo spirito, però se volessimo scrivere di cosa sia oggi (e forse anche ieri) la poesia, basterebbe osservare attentamente questo nostro evo: ne vediamo così l’individualismo spietato, le smagliature nei rapporti tra gli esseri umani e tra questi e il Mondo, casa comune in rovina. La poesia è laddove qualcosa si perde, laddove restare e partire coinvolgono e intrecciano le storie degli esseri umani, laddove un bambino parla con una pietra inventando avventure e incredibili storie. La poesia è l’esattezza del dire, la verità senza infingimenti, lo sguardo soprattutto, anche lo sguardo ironico e disincantato sulle dinamiche del Mondo.
Poeta dell’ironia e della esattezza della scrittura è stato Lucio Zinna, morto lo scorso 11 luglio, «forse davvero l’ultimo protagonista di una stagione culturale vivace e irripetibile, e proprio per questo ormai consegnata all’oblio e alla memoria di quei pochi testimoni che l’hanno attraversata», come ha scritto Francesco Vinci [1]. Lucio Zinna è stato poeta, romanziere, raffinato saggista, scrittore appartato nella odierna “societas” letteraria italiana sempre più autoreferenziale, uomo sensibile e premuroso. Tre anni fa Bonifacio Vincenzi ha curato per i tipi “Italia insulare: i poeti” della sua casa editrice Macabor un volume prezioso che ripercorre tutta la poesia di Zinna con importanti interventi critici e una aggiornata bibliografia dell’autore e sull’autore: Lucio Zinna: ritratto di un poeta [2]. Precedentemente, nel 1994, era uscita la prima antologia delle poesie di Lucio Zinna intitolata Il verso di vivere (1994), libro curato da Francesco De Nicola per i tipi dell’editore Caramanica.
Tra gli autorevoli interventi critici raccolti nel volume di Macabor, citiamo qui le parole di Elio Giunta sulla vita e sulla poesia di Zinna:
“Prendere il giorno come viene” qui vale non come abbandonarsi allo scorrere della vita senza scorgerne attriti, inciampi, sconvolgimenti veri e propri talvolta: è piuttosto una consapevolezza operosa dell’essere umani e sentirne responsabilità nelle azioni quotidiane, anche le più apparentemente insignificanti. Questa la “linea” della poesia di Zinna, e diremmo la traccia che i grandi poeti sempre seguono, mai disancorati dalla responsabilità della scrittura come testimonianza di vita.
Lucio Zinna nasce a Mazara del Vallo e muore a Bagheria; in mezzo a questi due estremi della sua vita è Palermo, città nella quale anima il gruppo di poeti di avanguardia “Gruppo Beta” (1964) insieme a Miki Scuderi, Nick Di Maio e Castenze Civello: ha scritto Salvatore Ferlita «Cavallo di battaglia del gruppo, l’esigenza di un nuovo umanesimo, da opporre allo sviluppo tecnologico indiscriminato, all’uso spersonalizzante della macchina» [4]. Sono gli anni ’60 e ’70 per l’Isola un fiorire continuo di gruppi e antigruppi, dibattiti culturali, neoavanguardie vere o presunte. Crescenzio Cane, Gaetano Testa, Roberto Di Marco e Pietro Terminelli sono gli autori del libro Quattro poeti (1961), mentre Edoardo Cacciatore, Antonio Pizzuto e Stefano D’Arrigo (misconosciuti ancora oggi a molti della colta società letteraria italiana) hanno pubblicato rispettivamente La restituzione, Si riparano bambole e I giorni della fera. Il fermento poetico siciliano ha nel Codice siciliano di Stefano D’Arrigo un punto luminoso fondamentale, a nostro avviso.
Lucio Zinna si muove dentro a queste congreghe con distacco, osservando con precisione, ad esempio, le dinamiche del cosiddetto Antigruppo. Scrive Carmelo Aliberti a proposito del rapporto di Zinna con l’Antigruppo e in generale con la neoavanguardia poetica:
Se è vero che, come scrive Gesualdo Bufalino, è «impossibile per uno scrittore siciliano non scrivere della Sicilia», Zinna scriverà tantissimi interventi sui poeti siciliani, con grande generosità e attenzione; oltre ai poeti noti nel panorama delle lettere italiane, egli si è occupato di autori quali Giuseppe Ganci Battaglia, Calogero Bonavia, Orazio Napoli, Lino Angiuli, Pietro Mignosi, Achille Serrao, Mario Gori, Rolando Certa, Giuseppina Turrisi Colonna, Petru Fudduni. Dedicherà un libro, Lettere siciliane, ad alcuni autori che hanno informato il suo pensiero e la sua scrittura, ovvero Antonio Pizzuto, Ignazio Buttitta, Orazio Napoli, Virgilio Titone e Santino Caramella. Del suo concittadino, il grande poeta mediterraneo Orazio Napoli, ha scritto: «Orazio Napoli non è poeta che meriti di essere liquidato sulla scia di mutevoli umori della “piazza” letteraria, con i suoi “borsini” dalla volatilità analoga a quella delle “piazze” finanziarie, mentre il nostro Novecento letterario, nelle sue sistematizzazioni, appare soggetto all’urto di spinte e controspinte, spesso interessate» [6]. Queste sue parole potremmo usare per definire il suo percorso culturale e poetico, che è fondamentalmente un percorso di vita ricco di incontri, relazioni, impegno civile nel segno di una vocazione letteraria che Carmen De Stasio ha definito, a partire dalle «cadenze intramontabili nel tracciato umano» come, «coronata attraverso un pulsante pensiero che spinge all’indagine delle contingenze in un ritmo pienamente circadiano (…) una scelta e, insieme, una svolta che porta a coincidere poesia e testimonianza del verso di vivere (dal titolo di una sua raccolta) nell’interlocuzione con la realtà complessa di gesti e rimandi continui» [7].
Nessuna concessione alla posa letteraria cogliamo nelle poesie di Zinna: come ha scritto Raffaele Pellecchia, quello di Lucio è uno «stile di vita come stile di scrittura: l’uno e l’altra perseguiti con rigore e sobrietà, senza clamori ma senza reticenze, con pudore e insieme con coraggio e coerenza, senza velleitarie corse in avanti ma anche senza indietreggiamenti e chiusure in rassicuranti nicchie difensive e, di fatto, conservatrici» [8].
Appartiene alla raccolta poetica Il filobus dei giorni (1964), la poesia “Sparse mi ritorna sequenze”, che mi ricorda tanti racconti sulla Seconda guerra mondiale che ho ascoltato da mia madre e da mia nonna: è il racconto questo della fila per ricevere il poco cibo razionato, la paura dei bombardamenti e i rifugi antiaerei, gli americani che distribuivano chewingum, sigarette, barrette di cioccolato:
Lucio Zinna “vede” con gli occhi di chi gli ha raccontato, la memoria si nutre infatti di reminiscenze, anche sbiadite e lontane; tuttavia, corroborate dalle storie che nella nostra vita abbiamo avuto la ventura di ascoltare e che diventano così anche la nostra storia personale. La più convincente ricerca letteraria è quella di chi si occupa delle persone, della loro storia; la ricerca di chi dà voce a persone che altrimenti resterebbero mute per la storia ufficiale: pensiamo a Nino De Vita, a Vincenzo Consolo, a Danilo Dolci, a Maria Attanasio. Zinna si colloca proprio su questo versante letterario “impegnato”, dove con la parola tante volte equivocata, “impegno” appunto, si intenda non solo la presenza personale del poeta a festival, raduni, antologie collettanee, ma soprattutto la cura che chi scrive usa nella relazione con gli altri. Questo è l’impegno per eccellenza degli intellettuali, a mio avviso, e leggendo Zinna si ha proprio la certezza di un filo rosso etico che percorre l’intera sua produzione letteraria, non a svantaggio della forma però, che è sempre curata e cantabile, come in questi versi che traiamo sempre dalla poesia “Sparse mi ritorna sequenze”:
Ancora da Il filobus dei giorni leggiamo questi versi tratti dalla poesia “Processione”:
nella quale spicca ancora una volta lo sguardo di Lucio sul mondo, sulle persone, sui momenti della vita quotidiana come in uno scatto fotografico.
Riporto integralmente qui la poesia “Mio padre”, che tanto ricorda “In memoria” di Ungaretti con quel Moammed Sceab che visita in ogni tempo e in ogni luogo la memoria di chi parte, dei diseredati, degli sradicati, di chi ha sacrificato per qualcuno anche la vita:
Si sente un’eco ungarettiana a mio avviso chiarissima: E forse io solo / so ancora / che visse, ma anche l’eco più remota e “archetipica” del rapporto Odisseo-Telemaco, come ha efficacemente notato Rinaldo Caddeo [9].
Il gusto del racconto, la pietas per una umanità derelitta e sola, ai margini della vita è nella poesia “Funerale all’Albergheria” contenuta nella raccolta Da un rapido celiare (1974). È la storia di una donna che subisce violenza da parte del marito, una donna che sulle braccia e sul volto porta scritta l’offesa della storia.
La poesia “Terra d’esordio” fa parte della raccolta Sàgana (1976) ed è a mio avviso emblematica e centrale nella produzione di Zinna per svariate ragioni. Qui il Nostro usa un linguaggio ancora diverso rispetto a quello usato nelle precedenti raccolte, qui Zinna ci mostra il proprio heimat, la radice profonda del suo canto, che è canto profondamente mediterraneo:
Un luogo che potrebbe somigliare a una qualunque città sulle rive del Mare Nostrum, un luogo tagliato da un fiume, il Mazaro, e posto di fronte al Canale di Sicilia (o di Tunisi): Mazara del Vallo centro del Mediterraneo, porto franco, terra di mare dove restare e partire si compendiano nei volti, nei gesti delle persone, nella luce d’opale e ocra. Ne scrisse Consolo:
Mazara del Vallo è il luogo della formazione di Zinna, una città che è anche “dentro” il corpo del poeta come sangue: «appresi ad amare e a patire – io – sorto / a grave vigilia d’armi nella costellazione / dei pesci – azzurro prediligo e di salmastro / forse il mio sangue è sapido – una domenica / di carnevale paesano. Di maschere operaie / un carro bagordava nei pressi, malinconiva / follemente romantico un violino». È la Mazara del restare e partire, il luogo ove si mischiano siciliani e Arabi ma non più la splendente città descritta da Idrisi, ma una città sovvenzionata dal miracolo economico degli anni Sessanta: «Mazara s’arricchì d’improvviso», scrive Consolo, «il denaro circolò impetuoso, cascò a valanghe, s’aprirono banche, botteghe, si risvegliò la campagna, s’abbandonò la casbah, la vecchia città di tufo e di malta, se ne costruì intorno, sulla piana, una nuova di cemento e marmo» [11].
Ogni poeta ha un paese, una città dentro di sé, e la sua scrittura ne mostra variamente strade, vicoli, angiporti, feritoie, cortili e muri; canali, segrete vie, colori e odori, vertigini e ritrosie come slanci. Ansia di chiarità è nella scrittura di Zinna, come la veduta prospettica di Piazza della Repubblica, colore azzurro della lontananza, dell’altrove “a portata di mano” ma sempre un poco più in là, come l’Africa, come le coste sempre cangianti delle sponde del Mediterraneo.
La tensione sempre presente tra il qui e l’altrove è certamente un motivo della poesia di Zinna, così come la ricerca di consistenza nel mondo, la ricerca del migliore modo di vivere nonostante spesso la vita sparigli le carte, il caso muova le pedine della scacchiera come un impertinente refolo di vento. Ciò nonostante, «Opera tu per la tua parte / mettiti in guerra la coscienza – insisti stringi / i denti – per il resto (sia chiaro) la vita / è vita e va (per la sua parte) dove la vita vuole / nei parametri suoi sceglie discreta a volte brutale / e all’improvviso arruffa sconvolge come un sisma / c’è una scala Mercalli del vivere con cui / si ristabilisce il gioco delle parti il misto imperio» (“Il bivio”, da Abbandonare Troia, 1986).
Una poesia del 1979 appartenente sempre ad Abbandonare Troia, è “Sessantacinque versi per il treno della Maiella”, «un viaggio di sofferenza, accompagnato dalla memoria dolente per la madre, da un’Italia centrale di paesi di campagna sempre più spettrali ad una Palermo “tradita moribonda / tra rifiuti e mostruosi palazzi”» [12].
La situazione dei paesi dell’Italia centrale rispetto al 1979 di “Sessantacinque versi per il treno della Maiella” è nettamente peggiorata, così come quella di Palermo, sempre sommersa dai rifiuti e in stato di totale abbandono, perduta tra fast food e periferie dove solo la scuola è presidio dello Stato.
La poesia deve servire a svegliare la coscienza, perché la coscienza dell’uomo sia in guerra contro se stessa, contro le facili convinzioni, l’acqua cheta del pensiero unico. L’uomo contemporaneo è un Odisseo sempre in viaggio ma che non fugge, bensì affronta i problemi della vita quotidiana cambiando lo sguardo sulle cose, affinandolo, percependone la hegeliana “sostanza etica”, «prima che entrino falsi cavalli / con semafori zebre ciminiere mitragliette skorpion / e kermesse mondane e sindacati autonomi e confederali…»[13]
Lucio Zinna ci lascia una testimonianza poetica vera, onesta nel senso sabiano; senza alcuna pretesa e con affetto e disincanto ma con altrettanta grazia ci ricorda cosa siano i giorni, questo ammasso di ore minuti secondi, questo fiorire di albe e tramonti, questa fatica e questo incanto che può trovarsi accanto a noi, insospettatamente; questi giorni «di biondo miele / e di nero veleno. / Giorni di primo amore / (che si credette vero) / giorni di vero amore / (brucia come un cero)» (“Tiritera dei giorni”, da La casarca, 1992).
_____________________________________________________________
_____________________________________________________________
Article printed from Dialoghi Mediterranei: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM
URL to article: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/sparse-mi-ritorna-sequenze-la-testimonianza-poetica-di-lucio-zinna/
Click here to print.
Copyright © 2013-2020 Dialoghi Mediterranei. All rights reserved.